Si dice Sistina e si pensa a Michelangelo o a Sisto IV. Ma la Cappella esisteva già da molto tempo. Era crollata più volte e ogni volta era stata ricostruita e decorata dai migliori
maestri. Nel 1369, quando si chiamava ancora Cappella Magna o Palatina, vi lavoravano il lombardo Giovanni da Milano, il toscano Giottino, l’altro toscano Giovanni Agnolo, invitati a Roma da Urbano V.
Lauretta Colonnelli dal “Corriere della Sera” del 3 dicembre 2013
Sisto IV della Rovere, eletto Papa il 9 agosto 1471, trovò la Cappella in macerie insieme a gran parte del palazzo apostolico. Allora incaricò Baccio Pontelli e Giovannino de’ Dolci, architetti fiorentini, di ricostruirla e dettò le misure, le stesse indicate nel Primo Libro dei Re per il tempio di Salomone. All’esterno si vedeva una specie di fortezza, con mura spesse tre metri, spalti merlati, feritoie per gli arcieri, fori da cui versare olio bollente sugli aggressori.
Poi Sisto IV chiamò i grandi artisti umbri e toscani per dipingere l’interno. La volta fu affidata a Pier Matteo d’Amelia, che la trasformò in un cielo di lapislazzuli tempestato di stelle d’oro. Nella parete dietro l’altare il Perugino dipinse l’Assunta. Sulle pareti laterali si snodavano il ciclo dei Papi e le dieci storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, con i finti tendaggi nella parte sottostante.
Oltre a Perugino vi lavorarono Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, Luca Signorelli, Pinturicchio, Biagio d’Antonio, Bartolomeo della Gatta. Tuttavia, neppure le potenti fortificazioni eseguite da Sisto IV bastarono a sorreggere la Cappella. Il 15 maggio 1504 la parete meridionale si inclinò, provocando una grande crepa nella volta. La Sistina fu dichiarata inagibile e il danno fu riparato ancorando alle pareti, con catene di ferro, i soffitti dei locali soprastanti.
Il cielo di lapislazzuli fu rappezzato alla meno peggio. Poi, nel 1506, Giulio II della Rovere incaricò Michelangelo di sostituirlo con un nuovo affresco. Anche Giulio II, incatenando la Sistina, si era illuso di avere risolto definitivamente il problema dei crolli, causati in realtà dal terreno di fondazione, leggermente in discesa. Questo terreno, di origine alluvionale, era anche soggetto ad assestamenti frequenti. Così la Cappella ha continuato a muoversi e a scivolare.
La prima scossa, dopo che Michelangelo ebbe terminato la volta e le lunette, arrivò la notte di Natale del 1522. Papa Adriano VI aveva appena oltrepassato la porta che dalla Sala Regia immette nella Sistina, quando l’architrave in marmo della porta cadde sulla testa di due guardie svizzere, uccidendole sul colpo. Nel 1523, i cardinali riuniti in conclave videro la volta squarciarsi. Terrorizzati, interruppero le votazioni e chiamarono l’architetto Antonio da Sangallo. Questi minimizzò il pericolo.
Sbagliava. Tre anni dopo, l’architrave della porta verso la Sala Regia crollò di nuovo, «cum strepitu magno» e trascinandosi dietro gli affreschi soprastanti realizzati da Ghirlandaio e Luca Signorelli. Le due pitture furono poi rifatte dai modesti Hendrick van der Broeck e Matteo da Lecce nel 1535, negli stessi giorni in cui Michelangelo lavorava di nuovo in Sistina.
Si preparava a realizzare il Giudizio, quando, alzando i ponteggi, si accorse che il tetto dell’edificio era un colabrodo da cui filtrava acqua piovana sui dipinti sottostanti. Naturalmente lanciò subito l’allarme, ma nessuno gli diede retta. Così continuò il suo lavoro sulla parete dietro l’altare e lo portò a termine il 31 ottobre 1541. Le infiltrazioni continuarono, anche sulle nuove pitture del Giudizio. Fino alla notte di San Silvestro del 1544, quando scoppiò un incendio che mandò in cenere il malandato tetto. Questa volta l’intervento fu immediato. Il 30 gennaio 1545 il tetto era già ricostruito.
Per una ventina di anni la Cappella restò tranquilla. Poi, durante il conclave del 1565 per l’elezione di papa Pio V Ghisleri, i cardinali videro aprirsi sulla volta crepe gigantesche e fecero entrare eccezionalmente in conclave tre architetti: il Sallustio, il Vignola e Nanni di Baccio. I tre rassicurarono i prelati che «nullum periculum ruine (scritto così, in latino maccheronico, ndr) esse» e promisero di fornire un «remedium pro conservatione ed (idem, ndr) substentatione dicti loci».
Il rimedio consisteva nel consolidare il terreno con cinque pilastri sotterranei e zeppe di travertino. Così, tra il 1566 e il 1585, furono costruiti i pesanti contrafforti di mattoni che ancora oggi puntellano i lati nord e sud dell’edificio. Bruttini a vedersi, ma efficaci. I danni sulla volta e sul Giudizio furono invece restaurati da Domenico Carnevali, all’epoca pittore famoso. Carnevali fissò l’intonaco, stuccò le crepe e rifece intere parti del Sacrificio di Noè e della Separazione delle acque, ridipingendo la mano sinistra di Dio, senza seguire il gesto originale di Michelangelo, che era morto due anni prima.
I contrafforti funzionavano. Non si hanno notizie di altri crolli fino al 1797. Questa volta però non fu colpa del terreno. Esplose la polveriera di Castel Sant’Angelo, che fece cadere una porzione dell’Ignudo a sinistra della Sibilla delfica e un frammento del Diluvio. Gli interventi di consolidamento sono tuttavia continuati nel corso del Novecento. Nel 1903, sotto il pontificato di Pio X, iniziò il rafforzamento della volta e del Giudizio.
Nel 1922, mentre i fascisti marciavano su Roma, la Cappella manifestò di nuovo la sua inquietudine e ci vollero altri due anni di lavori sotto la direzione di Biagio Biagetti, primo direttore dei Musei Vaticani. Si intervenne ancora sullo stesso problema tra il 1930 e il 1936. Tra il 1964 e il 1974 fu eseguito un nuovo consolidamento strutturale; tra il 1975 e il 1979 il restauro del tetto, del passaggio di ronda e della merlatura dell’edificio.
DA GIULIO II UN ANTICIPO DI 500 DUCATI
Lauretta Colonnelli dal “Corriere della Sera” del 3 dicembre 2013
l 10 maggio 1508 Michelangelo ricevette da Giulio II 500 ducati d’oro come anticipo per gli affreschi sulla volta della Sistina, e nello stesso giorno iniziò i lavori che si sarebbero conclusi a novembre del 1512. Si conosce la data esatta perché l’artista l’appuntò nel suo libro dei conti, che tenne accuratamente per tutta la vita. Cifra molto alta: un commerciante o un artigiano guadagnava tra i 100 e i 120 ducati all’anno. Un pittore pagava tra i 10 e i 12 ducati all’anno per l’affitto della bottega. Il ducato d’oro a 24 carati era diffuso in gran parte della penisola italiana e aveva lo stesso valore del fiorino di Firenze.
Come spese Michelangelo i soldi? Il giorno seguente pagò 10 ducati al muratore Piero Rosselli che doveva preparare l’intonaco. Altri 75 ducati glieli consegnò a rate, fino al 27 luglio, perché li girasse a Francesco Granacci, uno dei 5 aiuti fatti arrivare da Firenze e licenziati verso la fine dello stesso anno. Un mese prima, ad aprile, aveva preparato un preventivo: 20 ducati come salario mensile per gli aiuti e 6 per un paio di calze, per la fodera di un giubbone di cuoio, per il trasporto di un fascio di disegni.