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Focus (di F. Cardini). Se sull’Oriente decidono sempre Zar e Sultano

Nella Francia sconvolta dalla débacle del 1940 furono parecchi, magari di opposte simpatìe politiche – da Marc Bloch a Pierre Drieu la Rochelle – a parlare di una drôle de guerre, “una strana guerra” (o “una stranezza di guerra”) a proposito di quella avviata nel settembre del ’39 e la cui prima fase si concluse con l’occupazione di Parigi nove mesi dopo.
Anche questa, secondo molti, è “una stranezza di guerra”: e può darsi che sia così. La maggior parte degli italiani e degli occidentali non riescono a capire neppure perché sia iniziata, dal momento che (disinformati dai nostri media e dai nostri politici), sono all’oscuro del fatto ch’essa non è cominciata col discorso di Putin il 24 febbraio scorso bensì nella migliore delle ipotesi con il colpo di mano antirusso del 2014, l’accordo tra Unione Europea e l’allora premier ucraino Poroshenko, che preludeva all’allargamento verso est del limite (cioè del “fronte di fuoco missilistico”) della NATO, contro un impegno già contratto 35 anni or sono che assicurava il contrario.


Allo stesso modo, oggi qualcuno si meraviglia e quasi s’indigna, visto che con l’incontro d’Istanbul “ad est c’è (finalmente) qualcosa di nuovo”, per il fatto che tale sia pur primo e incerto passo verso una pace ancora lontana sia stato fatto attraverso la mediazione – com’è stato denunziato – di tre “dittatori”: Putin, Xi Jinping ed Erdoğan. Al che si potrebbe discutere in due modi. Primo: molti occidentali seguono una bizzarra metodologia nell’individuare i “dittatori”: Saddam Hussein non era affatto tale negli Anni Ottanta quando massacrava i suoi avversari, gasava i curdi e bombardava gli iraniani: lo divenne, e fu “il nuovo Hitler”, tra Anni Novanta e primi anni del nostro secolo, quando se la prese con il Kuwait e con Israele nostri alleati e quando fu accusato di possedere “terribili armi di distruzione di massa”, più tardi rivelatesi invenzione di George W. Bush e di Tony Blair. Secondo: che oggi la futura pace in Ucraina dipenda (fra l’altro) dai più o meno buoni uffici di tre dittatori non dipende dalla loro perfidia, bensì dal fatto che l’Occidente democratico non può mettere in campo nulla di meglio: il che è vergogna dell’Occidente, non dei tre “dittatori”.

A proposito di Saddam Hussein, ci sarebbe da osservare altresì ch’egli era capo di un governo magari pessimo, ma regolarmente rappresentato all’ONU; era capo di un paese magari non libero internamente, ma indipendente e sovrano: e quella perpetrata nel 2003 dagli USA e dai loro complici, come quella di due anni prima contro l’Afghanistan, fu aggressione allo stesso identico titolo di quella commessa oggi da Putin ai danni dell’Ucraina. Allora però nessuno parlò di crimini di guerra e non si mosse alcuna Corte dell’Aja; né si videro allora bambini colpiti e vecchiette sofferenti, che evidentemente a Kabul e a Baghdad non c’erano mentre abbondano oggi tra Kiev, Mariupol e Leopoli.
Ma tralasciamo queste considerazioni, della serie (dicono a Roma) “er più pulito c’ha la rogna”. Parliamo dell’oggi. Putin è evidentemente, obiettivamente un aggressore. Ma aveva invitato più volte – l’ultima nel dicembre del ’21 – il governo statunitense a desistere dal suo progetto di allargamento della NATO e dalla sua ostinazione a coprire gli ucraini che bombardavano e seviziavano nel Donbass. La diplomazia di Washington aveva continuato per la sua strada, armando nel frattempo – come si è più tardi ben dimostrato – gli uomini di Želensky, che allora si sentiva baldanzosamente sicuro di questo e perciò provocava impunemente la Russia così come oggi smania accusando l’Occidente di “viltà” in quanto esita dinanzi allo spettro dell’inasprirsi della guerra.
D’altronde, Putin è caduto nel febbraio scorso in una ben consegnata trappola USA-NATO. Se non avesse risposto con forza alle provocazioni avrebbe allargato lo spazio del suo dissenso interno: e c’era già pronto chi era disposto a una nuova “rivoluzione arancione” (stile Tbilisi 2008 e Kiev 2005) che lo avrebbe detronizzato. Se però avesse risposto alla provocazione con le armi, come quasi tutti ritenevano molto improbabile, avrebbe avuto la sorpresa di trovarsi di fronte non solo nazionalisti ucraini coraggiosi e addirittura eroici (ma dove sono finiti gli altri, i “filorussi”, che pure c’erano? E perché da noi i democratici non se lo chiedono? Si limitano ai due o tre allontanati dalla collaborazione con Želensky o ce ne sono altri, magari finiti sottoterra o imprigionati da qualche parte, in qualche angolo della “democrazia-modello” ucraina?), ma anche un paese armato (e non da ieri) fino ai denti e ben provvisto di “consiglieri militari” – che i soli britannici hanno ufficialmente ammesso di aver inviato – e non solo sostenuto dal punto di vista politico e umanitario. Qualcuno ha detto che l’Ucraina potrebbe trasformarsi per i russi, nei prossimi anni, in un “altro Afghanistan”? E se, in termini di sperimentazione di conflitto tra blocchi antagonisti, essa andasse sempre più almeno per ora somigliando alla Spagna ’36-’39?


Può anche darsi che Putin, i servizi del quale prima del 24 febbraio non hanno forse lavorato granché bene, abbia sbagliato i calcoli: il suo Blitzkrieg – se era stato concepito come tale – è fallito, la sua strategia di sollecita occupazione della costa del Mar Nero marca il passo. Eppure, anche da noi, osservatori autorevoli come i generali Mini, Bertolini e Li Gobbi (tre fra i nostri ufficiali più preparati), non sono affatto convinti che abbia sbagliato strategia per quanto possa aver fatto qualche errore tattico. Tralasciamo poi la faccenda della malattia fisica di Putin, che fa il tris con le storielle che sia matto o che sia un mostro. E, a proposito di quest’ultimo aspetto della questione, che la smettano i giornalisti di raccontarci la riedizione della favola di Putin-Barbablu: è vero che i bambini sono – a loro insaputa e in spregio alle loro vere e concrete sofferenze – i grandi protagonisti mediatici involontari d’una narrazione mediatica del conflitto tanto disonesta quanto ricattatoria: ma non esageriamo con le carrozzelle sventrate e i pupazzi di pelouche abbandonati per strada, qui ci sono sofferenze autentiche da alleviare: piantiamola con i piagnistei ipocriti e strumentali.
E allora? Due cose sono certe. Primo: Želensky, dimostrando di non aver capito nulla dei “valori dell’Occidente” (che nella concreta realtà sono la libertà individuale spinta all’estremo, il desiderio illimitato di profitto e di benessere che peraltro riguarda i pochi che possono permetterselo e l’azzeramento della coscienza civica), avrebbe voluto ch’esso scendesse in campo al suo fianco: e ora starnazza perché ha capito che nessuno da questa parte della barricata è disposto a “morire per Kiev” e lui può dar del vigliacco a chi gli apre ma ciò non cambia nulla. Secondo: il signor Biden, il cui linguaggio diplomatico (“Putin è un macellaio”) ce lo rivela buon allievo di Di Maio, può continuar a minacciare il mantenimento della linea dura; liberissimo di sperare di continuar la guerra costi quel che costi, fino all’ultimo ucraino o magari all’ultimo europeo (non gli americani, per carità: Vietnam, Iraq e Afghanistan, con le relative pessime figure, insegnano). Ma dove non arrivano gli sproloqui, arriva la pacata grinta del premier turco, la sua cinica ben calcolata ambiguità e la sua buona regia dell’incontro d’Istanbul: il suo collega ucraino ha già ammesso che gli basta la prospettiva di entrare nell’Unione Europea (e Mosca annuisce), ma quanto a schierarsi con la NATO ammette ignoro con quanta buonafede che per ora non se ne possa/debba parlare; quanto poi all’integrità dei confini ucraini inviolabili e intoccabili, anche il Duce sosteneva che i confini non si discutono ma si difendono, però la storia si è presa carico di smentirlo. E Putin dal canto suo sembra aver rinunziato alla testa di Želensky: forse alla fine si accontenterà di una mezza vittoria (cioè di una mezza sconfitta), accettando un Donbass più indipendente ma non in tutto guadagnato alla Federazione Russa o guadagnato ad esso in condominio e magari con qualche potenza estera come garante. Potrebb’essere questa una linea su cui trattare, cominciando (questo è necessario, questo è fondamentale) col farla finita ora, subito, di ammazzarsi: magari senza aspettare nella concreta sostanza nemmeno la fatidica data del 9 maggio, al di là di qualche fastosa e festosa scenografia da Piazza Rossa. Si può smettere anche subito di sparare e aspettar qualche settimana prima di dichiarare ufficialmente che lo si è fatto.

Quanto ai presidenti russo e turco, resta il fatto che come tante altre volte nella storia passata, alla fine le questioni orientali le decidono sempre lo zar e il sultano: quando riescono ad accordarsi. Se poi ci si mette anche il Figlio del Cielo, tanto meglio. Il successore dei piantatori schiavisti della Virginia può restare tranquillamente nella sua bella candida residenza coloniale sul Potomac: la sua presenza non è richiesta, anzi forse darebbe perfino un po’ fastidio. Magari può venire di tanto in tanto a visitare le sue floride piantagioni di missili nella nostra vecchia Europa. Non sarà il benvenuto, ma ce ne faremo una ragione.

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