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Diritto d’Immagine: quei due dinosauri al Ministero della Cultura

Uno conserva le fattezze gioviali di una visione che un tempo chiamavamo progressista, ma identifica «statale» con «pubblico», l’altro è nostalgico dello «Stato etico» ottocentesco

di Daniele Manacorda da Il Giornale dell’Arte del 8 giugno 2023

Caro ministro, in queste settimane un improvvido decreto ha suscitato nel mondo della cultura proteste molto preoccupate per un inasprimento dei vincoli posti agli italiani (e al Made in Italy!) da uno Stato «proprietario», che con occhio miope li espropria del loro patrimonio culturale. Una sentenza del Tribunale di Firenze ha addirittura inventato un inesistente «diritto all’immagine», che sarebbe goduto da manufatti di marmo o di mattoni, e ha riconosciuto nelle loro immagini precluse al libero uso dei cittadini niente di meno che «l’identità collettiva della Nazione». Sembra veramente che gli italiani siano considerati persone che non abbiano ancora raggiunto quei diritti fondamentali che la Costituzione accorda loro.

Si direbbe che, dentro e fuori del suo Ministero, lei si trovi attorniato da due dinosauri dall’aspetto mansueto ma dall’indole aggressiva. Uno conserva le fattezze gioviali di una visione che un tempo chiamavamo progressista: muove da un’illusoria identificazione del concetto di «statale» con quello di «pubblico» e quindi come se l’Italia non fosse, come ogni democrazia occidentale, una Repubblica di cittadini, al servizio dei quali opera la Pubblica amministrazione.

L’altro dinosauro si muove sull’opposto versante: nostalgico dello «Stato etico» ottocentesco, ha difficoltà a scorgere negli italiani qualcosa di diverso da un popolo di sudditi, che devono essere controllati e redarguiti in nome dei principi di «un mondo che fu». Questi due dinosauri, pronti a darsi battaglia nella stagione degli amori, hanno spesso pascolato insieme, per esempio ritardando di 15 anni la ratifica della Convenzione di Faro, che ha finalmente stabilito il «diritto al patrimonio culturale» da parte delle comunità. Oppure bloccando (uso un eufemismo) la liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico, cioè di tutti.

L’erba dei loro pascoli nasce da un terreno antico, che vuole che il denaro sia lo «sterco del diavolo», ma che non disdegna la rendita parassitaria se viene gestita monopolisticamente dalla burocrazia statale. Quanto di più arcaico (pensi al decreto che le hanno fatto firmare in cui si perde tempo a definire, in piena era digitale!!!, i costi di una diapositiva o di una stampa bianco e nero 13×18…) e quanto di più dannoso per «l’Italia del fare». Lei ha una prestigiosa esperienza giornalistica e quindi conosce bene il valore, e talvolta il prezzo, della libertà di espressione, della ricerca, dell’iniziativa economica…

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Immagino abbia letto con stupore che qualcuno propone di stabilire multe salate e magari un po’ di gattabuia a chi intenda usare le immagini delle opere d’arte per la propria creatività, bella o brutta che sia (le piace la pubblicità del Ministero del Turismo?). Come se lo Stato, che ha il dovere della tutela materiale del patrimonio, avesse diritto di interferire (in base a quale principio?) nei comportamenti sociali. Quel che preoccupa è che chi avanza queste proposte liberticide afferma testualmente che al Ministero gli «sembra che ci sia terreno fertile».

Signor ministro, ma chi gira (o si aggira) in quei corridoi? Non siamo né in Cina né in Russia e gli ayatollah distano migliaia di chilometri dai nostri parchi e musei: nei quali vogliamo entrare pagando il giusto biglietto che le amministrazioni protempore giudicheranno adeguato, perché poi vogliamo usare a nostro piacimento, da liberi cittadini del mondo occidentale, le immagini immateriali di quello che avremo visto e apprezzato. Proprio come ci piace cantare l’Inno di Mameli senza pagare il diritto d’autore e lambiccarci il cervello su chi ne custodisca lo spartito originale.

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