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Prezzolini visto da Feltri: l’anarchico con la grappa nascosta fra i libri

Postfazione di Vittorio Feltri a “Giuseppe Prezzolini, l’anarchico conservatore”, di Gennaro Sangiuliano (ed. Oscar Mondadori), pubblicata da “Libero quotidiano” (via Dagospia)

Ho conosciuto Giuseppe Prezzolini nel 1982. All’epoca aveva cento anni esatti. Era ancora lucidissimo. Lo intervistai per La Domenica del Corriere. Confesso: ero a disagio.

Nonostante non fossi di primo pelo, incontrare l’uomo che aveva segnato due o tre stagioni della cultura italiana mi metteva un po’ in soggezione. Il maestro, inoltre, aveva fama di essere una persona difficile e scostante.

Nell’ambiente giornalistico me lo avevano descritto eternamente depresso e scontroso. Tagliente e sarcastico. Pessimista, ma di quella razza intraprendente che trova proprio nel malumore e nell’insoddisfazione lo stimolo necessario per andare avanti. In questo era come il suo allievo Indro Montanelli. Le trattative furono lunghe, ma non complicate. Prezzolini, infatti, non amava i giri di parole.

Conservo ancora una sua lettera. Poche righe molto chiare: «Gentile Feltri, patti chiari e amicizia lunga. Voglio centomila lire. Cordiali saluti». Mi misi in viaggio per Lugano. Lo avevano invitato più volte a tornare in Italia. Non ci pensava neanche. Il suo Paese lo aveva emarginato per decenni. E lui rispondeva con un sentimento ambivalente: amore e odio, contemporaneamente.

Nelle pagine di questo libro c’è un aneddoto molto divertente in proposito. Nel 1982, nel corso di una premiazione al Quirinale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini chiese a Prezzolini perché non rientrasse in Italia.

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La risposta fu una battuta fulminante: «Stia tranquillo, presidente! In Italia ci vengo tutti i giovedì a comprare la verdura». Alle otto di mattina bussai alla sua porta. Prezzolini era già sveglio da alcune ore. Mi chiese di accomodarmi in salotto per qualche minuto.

Doveva infatti scrivere un articolo per Il Resto del Carlino. «Le prendo subito qualcosa che le farà compagnia» mi disse. Iniziò ad arrampicarsi sulla libreria. Spostò alcune pile di volumi. Mi aspettavo di vedermi consegnare qualche prima edizione rara e preziosa. Invece saltò fuori una bottiglia di grappa, nascosta con cura nel fondo dello scaffale. Me la consegnò con un sorriso complice. Poi si precipitò alla macchina da scrivere nella stanza attigua. Mi preparai a una lunga attesa. Con la coda dell’occhio riuscivo a vederlo all’opera. Tempestava i tasti senza requie. In dieci minuti preparò tre cartelle e passa. Rilesse brevemente. Appuntò qualche parola nei bordi delle pagine. Quindi si alzò. Aveva finito.

Era pronto. Rispose alle mie domande con il suo stile secco e brusco ma accattivante.

Fu la sua ultima intervista. I libri e le carte del maestro sono ancora in Svizzera. L’Italia non trovò modo di riscattarli.

O forse non volle. C’è poco da stupirsi. Nel clima di soffocante conformismo del dopoguerra, Prezzolini fu rimosso velocemente. Non era classificabile. Non aveva etichette. E non le avrebbe comunque accettate. Non era stato fascista. (O meglio, lo era stato fino a quando Mussolini salì al potere. In quel momento sentì puzza di regime e traslocò in America.) Non era però antifascista. Era senz’altro di destra ma non assimilabile ai nostalgici missini.

Si era guadagnato senza difficoltà l’ammirazione e il rispetto di chi, negli Usa, si era opposto ai totalitarismi europei. Cos’era dunque? La risposta è offerta da Gennaro Sangiuliano e dal libro che stringete fra le mani. Era un anarchico conservatore, come lui stesso amava definirsi. Può sembrare una contraddizione, ma non lo è. La società, se lo Stato non interviene, si regola da sé.

Crea spontaneamente una gerarchia di valori che, per comodità, possiamo chiamare tradizione. Prezzolini confidava nella tradizione e diffidava dello Stato.

Una tradizione vitale e non imbalsamata.

Pronta all’autocritica e aperta al dibattito. Egli fu nemico feroce dei vizi tipicamente italiani. L’assistenzialismo e lo statalismo. Le corporazioni e gli ordini professionali. La retorica e il linguaggio che oggi definiamo politicamente corretto. Lui stesso, maestro di Longanesi, Montanelli e Fallaci, non volle saperne della tessera da giornalista e diventò pubblicista soltanto a ottant’anni.

Fu invece a favore del mercato e della concorrenza fin dai tempi gloriosi della Voce. Prezzolini era un liberale, razza sconosciuta agli italiani, ben nota agli americani. Forse non è un caso che proprio negli Stati Uniti Prezzolini abbia trascorso tre decenni, una parte molto importante della sua vita. Importante sotto tutti i punti di vista, non solo per la sua biografia. Insegnava letteratura italiana alla Columbia University. I suoi studenti lo ricordano con piacere. Affabile e alla mano, lontanissimo dallo stereotipo del professore serio e accigliato.

È questo un Prezzolini meno conosciuto, e andrebbe studiato. Egli portò aldilà dell’Atlantico la cultura italiana. Ma fece anche il contrario e diffuse quella americana in Italia. In questo campo fu un pioniere assoluto. La portata di alcuni suoi lavori geniali è ancora da valutare. Fu il primo, ad esempio, a parlare di letteratura italoamericana.

Pubblicò un’antologia sulle opere dei nostri connazionali immigrati nel Paese del Grande Sogno. È argomento oggi al centro dell’attenzione. Lui ci arrivò con qualche decennio d’anticipo. Del resto, Prezzolini aveva l’occhio allenato alle novità e sapeva come farle arrivare a una platea vasta. Non è il caso di aprire una parentesi sulla Voce, ormai considerata all’unanimità la migliore rivista culturale mai pubblicata in Italia e come tale presentata in tutte le scuole. Gennaro Sangiuliano, in questo libro documentato come un saggio accademico ma avvincente come un’inchiesta, ne racconta benissimo la nascita e la storia. Mi limito a notare una cosa.

Contrariamente a quanto pensa qualche mio collega, i giornali sono fatti per essere venduti. Questo principio Prezzolini lo teneva a mente. La Voce raggiunse le cinquemila copie, un risultato straordinario per gli anni in cui fu pubblicata

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