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“Spianare le città? Conviene”. La dura lezione di Luigi Guicciardini

Sono passati più di cento giorni dall’inizio della guerra in Ucraina e ormai ci stiamo abituando al lugubre sottofondo di morti civili e militari, di distruzione quotidiana, e all’altissimo costo in vite umane. Nel mio primo blog mi ero soffermato sul più buono dei fratelli Guicciardini, lo sconosciuto Bongianni. Ora vorrei concentrarmi sul più cattivo, che non era il famoso storico Francesco, ma il primogenito Luigi (1478 – 1551). Come ho osservato, era un uomo spietato e implacabilmente ambizioso. Rovistando come mia abitudine nelle carte della Biblioteca Nazionale di Firenze, ho scoperto un frammento limpido e inquietante, un’orazione forse mai pronunciata dal Guicciardini in un contesto ancora indeterminato. Ecco cosa scrisse Luigi:

«Non è dubbio che molti, per essere cosa inusitata, giudicano che il disfare e lo spianare le città sottoposte non solo sia fuori d’ogni umanità, ma rechi danno non piccolo a quelli che questo mettono ad effetto, e che non solo il conservarle ma lo accrescerle rechi utilità ed onore grandissimo a chi n’è cagione, il che quanto questa opinione sia falsissima e dannosissima a quelle repubbliche che vogliono non solamente godere la quiete loro, ma ampliare la loro potenza, facilmente vi mostrerò e per ragioni potentissime e per esempi di qualità che voi non me li potrete ragionevolmente in alcuno modo negare, ma al tutto mi acconsentirete quello vi narrerò essere verissimo. Pregovi adunque non vi sia tedioso lo ascoltarmi, perché le cose difficili non si possono dimostrare né persuadere in brevissimo tempo. Tutte le repubbliche e tutti li stati usano ogni industria acciò che facilmente possano mantenere lo acquistato e continuamente ampliare il dominio loro è necessario a fare questo effetto lo essere insieme uniti ed avere la difesa gagliarda propria o mercenaria, ma bisogna s’ingegnino levare via ogni cagione che fosse per fare contro a questo naturale istinto, ed una delle potentissime cause di perturbare la quiete e di farli stare in continuo timore e pericolo è il nutrire e mantenere le città acquistate, le quali acquistandole bisogna o diminuirle o accrescerle, diminuendole se ne cava poco frutto e poco servono a fortezza dello stato della nostra città et in ogni piccola occasione si ribellano per volere uscire di tanta servitù. Se si accrescono, tutto quel bene che a loro si fa torna in danno grandissimo del proprio stato, perché non solo si toglie il bene alla propria repubblica, ma si nutrisce ed ingrassa il suo inimico, il quale quando il tempo lo comporta usa ogni possibilità, come cosa da tutti naturalmente desiderata, di tornare in sua libertà…»

Luigi non ha nessuna compunzione, come Machiavelli, nel riconoscere la volontà di potenza, la libido dominandi che anima ogni stato, repubblicano o monarchico, ma propone un modus operandi estremo, “il disfare e lo spianare le città sottoposte”. È la tecnica della terra bruciata (proprio quella terra descritta con tanta empatia emotiva da parte del fratello buono Bongianni), che produce infinite vittime, sofferenze, danni… È una visione spietata, cinica, terrificante. La dominazione di un popolo ribelle, abituato alla libertà, è un’impresa costosissima e in ultima analisi fallimentare. Come uscire da questo perpetuo ciclo di aggressione e di violenza?

Machiavelli nel terzo capitolo del Principe afferma che nelle colonie si spende poco, ma la sua idea era influenzata dal sistema romano che favoriva i cosiddetti compedes, delle guarnigioni che garantivano il controllo militare delle regioni occupate, senza volerne mutare religioni, costumi e lingue. Ma quando questi agili avamposti si trasformano in occupazione permanente, mettendo “in cambio di colonie gente d’arme, si spende più assai”, e il costo non è solo in denaro ma anche in vite umane, come si è visto in Iraq e in tanti altri luoghi, come per esempio in Cecenia o in Siria.

Anche se gli esempi mancano nel frammento di Luigi Guicciardini, li abbiano sotto i nostri occhi. La guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina sta mietendo vittime non soltanto nelle città, divenute campi di battaglia e tombe collettive. Ha anche colpito intellettualmente molti individui in Occidente. Presi fra la tenaglia dell’ipocrisia statunitense e la manipolazione russa, ci si è polarizzati su fronti ideologici a volte esacerbati e assurdi, dimenticando un fatto semplicissimo. Lo stesso Putin, smentendo tanti suoi sostenitori “de sinistra”, nostalgici del comunismo sovietico o dietrologici antiamericani, ha dichiarato che è lui l’erede di Pietro il Grande. Non si può più negare che la sua intenzione sia imperialista e devastatrice. In un recente articolo apparso sul Wall Street Journal, l’acuto commentatore geopolitico Melik Kaylan che aveva previsto – a differenza dei molti suoi colleghi pundits (Cioè “commentatori a “ruota libera”, NdR) l’invasione, ha suggerito di chiamare Vladimir Putin un colonialista, per togliere margini di ambiguità alla sua azione aggressiva: «D’altro canto, troppo pochi russi riconoscono il comportamento del proprio paese come imperialista. Gli autoflagellanti studi post-coloniali possono aver paralizzato il discorso culturale occidentale, ma in Russia tale esame di coscienza è virtualmente inesistente».

I postcolonial studies vengono invocati all’inizio di una mostra sui Farnese ora aperta a Parma. La confusione mentale che regna nel considerare in questa ottica un papa aggressivo e vorace come Paolo III è un tema che merita di essere affrontato in un altro blog. Il senso di colpa dei paesi ex colonialisti, che hanno disfatto e spianato città e sterminato e schiavizzato popolazioni, è un tema troppo complesso, ma sicuramente non può essere l’unica chiave di lettura storiografica a nostra disposizione. Molto più lucida e provocante è la riflessione proposta da Paolo Simoncelli nel numero di maggio scorso di Storia in rete, dedicato a “Uccidere i tiranni”. Ricostruendo la genealogia teorica del tirannicidio a Firenze, da Dante a Machiavelli, Simoncelli evidenzia le contraddizioni interne nella tradizione che vuole Bruto come il massimo traditore morale o il sommo eroe politico.

Avendo studiato da vicino un altro tirannicidio, quello del duca di Piacenza e Parma Pier Luigi Farnese, figlio dello stesso Paolo III, (assassinato a Piacenza il 10 settembre 1547) posso dire che se quel principe privo di ogni “virtù” fosse miracolosamente sopravvissuto, come accadde per esempio a Lorenzo il Magnifico durante la congiura dei Pazzi, la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Stendhal, che conosceva l’Italia a fondo, comprese benissimo cosa era in gioco, proponeva di scrivere un “elogio dell’assassinio”: «Quando la giustizia non è altro che l’arma del più forte, che una derisione crudele, l’uomo rientra nello stato di natura, l’assassinio ridiventa un diritto».

Il nuovo libro di Marcello Simonetta: Francesco Guicciardini, tra autobiografia e storia(Ronzani editore, pp. 264, 20 euro).

A Francesco Guicciardini dobbiamo anche una stimolante serie di aforismi raccolti nell’opera “Ricordi politici e civili” (dove col termine “ricordo” si deve però intendete “consiglio” o “ammonimento”). Forse, più di tanti discorsi, alla fine il ricordo 176 ci dice l’essenziale sull’esito delle cose umane: «Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna: come per el contrario chi si truova dove si perde è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo». Senza entrare nel ciclo perverso di autobiografia e accusatoria tipico di Francesco (al quale ho dedicato un altro libro), resta sempre valido il principio fondamentale di ogni conflitto: Vae victis!

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