In questo blog intitolato “Rinascimento segreto” finora mi sono occupato di alcuni membri della famiglia Guicciardini (Bongianni, Luigi e Francesco) o di varie questioni crittografiche. Stavolta mi dedicherò ad un altro membro del potente clan fiorentino in rapporto ad un piccolo ma rivelatorio enigma decrittatorio.
Prima di entrare in medias res, è utile fare una premessa: l’Archivio Guicciardini – di cui è in corso una digitalizzazione sistematica – si conserva tuttora nel palazzo di famiglia accanto a Palazzo Pitti ed è stato a lungo considerato la principale se non unica fonte per gli studi su Francesco, il più famoso membro della dinastia.
Sostengo da tempo che, per comprendere meglio il destino di quelle carte, bisogna tracciarne la dispersione. Per esempio, ho ritrovato nelle filze degli Otto di Pratica circa un centinaio di lettere originali spedite da Guicciardini in qualità di luogotenente pontificio, fra il 1526 e il 1527 (quelle fino al luglio 1526 sono state edite sulle minute presenti nell’Archivio Guicciardini, senza le varianti e le aggiunte spesso autografe del mittente!)
Ma è nelle Carte Strozziane, un mare magnum oggi conservato all’Archivio di Stato di Firenze, che sono confluite moltissime carte che originalmente erano nell’archivio di famiglia. Per cominciare a scandagliarlo è sufficiente scorrere l’inventario della Serie Prima, magistralmente compilato dall’allora Soprintendente dei Beni archivistici della Toscana, Cesare Guasti. Tuttavia, è nella Serie Terza, ancora in attesa di un’inventariazione analitica, che ho ritrovato altri due pezzi del puzzle, documenti che sono l’oggetto di questo intervento.
Il primo è nella filza 249, in cui ho riconosciuto un cifrario autografo di Jacopo Guicciardini di epoca repubblicana. Questo cifrario mi era familiare. Nella nomenclatura erano infatti presenti il Gonfaloniere (Piero Soderini), suo fratello il Cardinale Soderini, e la loro nemesi, il Cardinale Giovanni de’ Medici. Ironicamente, i loro simboli sono variazioni sulla A, tagliata nel caso del Medici, quasi a prefigurare un traumatico capovolgimento del governo.
Il cifrario va messo in relazione ad un foglio non inventariato nella filza 247. La nota fuorviante di Carlo Strozzi, il senatore in gran parte responsabile dell’aggressivo collezionismo alla base delle Carte Strozziane, in cima al foglio dice: “Scritto da Jacopo Guicciardini di quello ha trattato con il Re di Francia, Milano”. Il tentativo di collocazione cronologica era lodevole (e l’attribuzione paleografica era corretta), ma Jacopo non fu mai inviato presso alcun re (anche se ebbe alcuni incarichi diplomatici di rilievo, come ricorda la voce a lui dedicata da Paola Moreno nel Dizionario biografico degli Italiani ).
In realtà, si tratta del decifrato coevo della lettera di Francesco Guicciardini al padre Piero scritta da Logrogno (in Spagna) il 22-26 agosto 1512, edita al n. 61 dell’edizione delle Lettere a cura di Pierre Jodogne, sulla cui “decifrazione congetturale” avevo sollevato dei dubbi (cfr. il mio Francesco Guicciardini fra autobiografia e storia, Ronzani, 2022, p. 236). Occorre ricordare che Jacopo Guicciardini era il “signore delle novelle” in famiglia, ovvero l’addetto alle comunicazioni interne ed esterne. Mentre il fratello Francesco era ambasciatore in Spagna per conto della repubblica fiorentina, era Jacopo a tenerlo informato delle più importanti e delicate vicende che avvenivano in Italia. In un lungo dispaccio della fine di aprile 1512 (n. 32 della citata edizione) era infatti ricorso all’uso del cifrario privato.
La lettera di fine agosto è di per sé interessantissima, perché fu scritta dalla Spagna pochi giorni prima che Firenze capitolasse sotto la pressione militare del cardinale Giovanni de’ Medici (futuro papa Leone X), che ordinò alle truppe spagnole di saccheggiare Prato, per costringere brutalmente i suoi concittadini a cedere al rientro della sua famiglia al potere in città. Guicciardini, ignaro di quello che stava per succedere, si affannava ancora per trovare una soluzione diplomatica che salvasse lo Stato, nonostante le “pazzie” conclamate del Papa e le ambizioni incrociate delle grandi potenze dell’epoca. Riproduciamo qui per il lettore curioso il testo integrale del decifrato:
Ma questi avvisi ultimi che ci sono di Roma di queste pazzie del papa [Giulio II] circa le cose di Ferrara e Lombardia mi hanno in tutto rassicurato perché a questo re [Spagna] non potrebbe più dispiacere che il papa crescessi che è molto bene, conosciuta la natura sua e gli pare gli debbi bastare Bologna e ha veduto essere vero quello che io ho sempre detto, che il travagliare lo stato nostro non era altro che fare uno stato a modo del Papa e che questo, per le cose di Napoli [non Italia!], non era a suo proposito, e insomma mi pare che oggi sia bene volto, e mi ha parlato molto amorevolmente della città e del Gonfaloniere, il quale ha cagione d’essermi obbligato, perché io mi sono affaticato molto più che non scrivo al pubblico, ché le commessioni che io ho dai Dieci sono state molto fredde. Non credo già che lui lo creda, né io me ne curo perché mi ha mosso il parermi che in questi tempi ogni travaglio sarebbe stato la rovina della città. Voi intenderete per le lettere pubbliche, che questo re [Spagna] desidera capitolare con voi, e in somma per quello che io posso congetturare, raccolte le parole sue, e quello tutto che io ritraggo da altri, vorrebbe che Veneziani si contentassero sanza Verona e Cremona, mettere uno duca sforzesco in Milano, che al Papa bastassi Bologna, fare una lega di tutta Italia a difesa l’uno dell’altro, e non volendo concorrere il Papa, fare senza lui, e afferma che l’imperatore consentirà, e gli parrebbe che questo modo servisse e alle cose di Francia, e a tagliare le fantasie del Papa, e che a Svizzeri si desse una provvisione, perché non si accordassero con Francia. Non so come voi vi risolverete, ma quando voi poteste fare una capitolazione senza contravvenire a Francia, mi piacerebbe molto perché io veggo la impresa di qua dura e non so come a uno tempo medesimo possa fare la guerra con Francia, stare in disparere con Papa, non contentare i Veneziani, e tenere fermi gli Svizzeri, e mi pare che oggi ci sia più faccenda che non città [sic per era!] al giorno innanzi alla rotta [di Ravenna, l’11 aprile 1512].
Il brano mostra il livello di iniziativa personale di Guicciardini nei rapporti con il re di Spagna, nonostante le “molto fredde” commissioni ricevute dai Dieci di Balìa, l’organo esecutivo della repubblica fiorentina (che presto sarebbe stato sostituito dai medicei Otto di Pratica). Con il suo istinto politico, Francesco prefigurava la “rovina della città” se qualsiasi travaglio le si fosse avvicinato.
La variante più sostanziale, rispetto all’edizione congetturale a stampa, è che “le cose di Italia” erano in effetti “le cose di Napoli”. Come avevo sospettato, l’uso di quel simbolo non poteva corrispondere all’intera penisola, visto che in un altro punto del testo veniva usato un simbolo differente. Avevo ipotizzato che quel simbolo si riferisse allo stesso re di Spagna, Ferdinando il Cattolico (regnante anche a Napoli), dunque non ero troppo lontano dal bersaglio. Del resto, nella lettera di Guicciardini risalta l’atteggiamento dissimulatorio di questo monarca che Machiavelli avrebbe poi celebrato come maestro nelle arti della diversione politica.
Nell’ultima riga, lo stesso Jacopo commise a sua volta un significativo lapsus, sostituendo la parola non cifrata “era” con “città”: era comprensibile, dato il momento altamente emotivo! Al momento della ricezione Firenze era già tornata in mano ai Medici che si apprestavano a restaurare con prepotenza il loro regime “civile”.
“Le cose di Italia” furono, come si sa, l’ossessione di Francesco Guicciardini come politico e poi come storico. Questa piccola scoperta ci permette di approfondire il funzionamento della diplomazia cinquecentesca a livello pubblico e privato e di apprezzare la ricchezza ancora inesplorata degli archivi italiani.