HomeStampa italiana 1Dopo 80 anni apre il Museo di Salò sulla RSI. Senza nostalgismi

Dopo 80 anni apre il Museo di Salò sulla RSI. Senza nostalgismi

A Salò apre il museo della Repubblica sociale italiana. Nessuna nostalgia, solo la storia di quei tragici mesi

Luigi Mascheroni da Il Giornale del 1 luglio 2023

Il primo pezzo del percorso è un busto in marmo di Mussolini, di un quintale e mezzo, che durante il regime era nell’androne della Banca commerciale a Milano e dopo il 25 luglio fu buttato in strada, con il naso spezzato, damnatio memoriae, al modo delle statue degli imperatori romani decaduti. L’ultimo, commovente, è una piccola scultura di Mussolini in legno di palissandro, alta cinquanta centimetri, realizzata da un prigioniero non cooperatore durante il suo internamento nel campo di Yol, in India, ai piedi dell’Himalaya: ha il braccio che si può alzare nel saluto fascista, cosa che il detenuto – che tornerà in Italia nel 1947 – faceva ogni mattina.

In mezzo ai due oggetti, lungo due grandi sale, al secondo piano del museo MuSa di Salò, attraverso duecento tra fotografie, giornali dell’epoca, documenti originali, video dell’Istituto Luce, manifesti e oggetti di vita quotidiana, scorre la storia – per alcuni dei protagonisti fu esaltante, per gli altri atroce – dei 600 giorni della Rsi, i mesi più divisivi del nostro Novecento, mito per i nostalgici e maledizione per i democratici, che a volte sembrano durare fino a oggi.

Benvenuti a Salò, nella nuova sezione del MuSa, inaugurata ieri sera e intitolata L’ultimo fascismo, 1943-45: la Repubblica sociale italiana. Già in piccolissima parte presente all’apertura del museo nel 2015, l’esposizione, che ora sarà permanente, è stata rivisitata, ampliata e arricchita con pezzi rarissimi e spesso unici concessi in comodato d’uso a lunghissimo termine da collezionisti privati che hanno creduto nel progetto. Un «museo nel museo» voluto dal Comune di Salò, Regione Lombardia e la Fondazione della Carità laicale presieduta da Alberto Pelizzari che gestisce il MuSa; costato 500mila euro (giudizio del cronista: benissimo investiti, visto il risultato finale, anzi la sezione dovrebbe essere ampliata) e curato dagli storici Roberto Chiarini, presidente del Centro studi sulla Rsi di Salò, Elena Pala dell’Università degli Studi di Milano, e Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma (il monumentale catalogo, pubblicato dalla Compagnia della stampa, quasi 400 pagine, è splendido).

Nessuna nostalgia, nessuna celebrazione, nessun effetto Predappio, ben oltre qualsiasi pericolo di apologia, il museo è soltanto il racconto scientifico dell’«ultimo fascismo», il più duro e fideistico, resuscitato dopo l’8 settembre del ’43 a Salò – nell’edificio qui accanto, dall’altra parte di queste mura, nelle scuole elementari intitolate nel 1974 alla memoria dei fratelli Cervi, aveva sede l’agenzia Stefani che batteva le notizie «Salò informa…» – e che si intreccia con la storia dell’intero Paese.

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A ottant’anni esatti da quei giorni, 1943-2023, voler ripercorrere senza ira, ma con studio, quel periodo terribile dal punto vista storico, morale e politico, non solo è giusto, ma necessario. È dalla conoscenza che nasce la coscienza di ciò che non deve più accadere.

Ed eccoci dentro il museo. Ricchissimo, gelido e scenografico, allestito dallo Studio Polo 1116 puntando giustamente molto sugli oggetti materiali e poco sugli effetti digitali (la Storia si deve toccare, non scaricare con un QRcode), il percorso si divide in due sezioni. La prima illustra gli antefatti: il periodo che va dalla caduta di Mussolini, ecco la riproduzione a parete intera del disegno che ritrae la seduta del Gran consiglio del fascismo il 25 luglio 1943 che decide la deposizione del Duce, fino alla «morte della Patria», l’8 settembre. La seconda, separata da un corridoio sonoro in cui risuona il discorso pronunciato da Mussolini su Radio Monaco che segna la nascita della Repubblica di Salò, il 18 settembre («Italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete…»), affronta invece le vicende della Rsi, dalla sua istituzione alla disgregazione e la fine della guerra, con la coda di vendette e sanguinose rese dei conti. E qui vengono messi in scena i caratteri del nuovo Stato repubblicano che si insedia sulle rive del lago di Garda, l’esercito di leva e le milizie di volontari, la vita quotidiana, i bombardamenti, le persecuzioni razziali, i rastrellamenti partigiani e le stragi di «ribelli» e civili.

Tra le cose notevoli in mostra. Le scritte murali post 25 luglio contro il Duce e il fascismo: così gli italiani alzano la testa e si vendicano del Regime. La lettera che la madre di Galeazzo Ciano scrive al Duce per provare a salvare il figlio dalla fucilazione. I disegni di Giovannino Guareschi che sono un pezzo dell’epopea dei 700mila Internati Militari Italiani che si rifiutano di combattere con i tedeschi, spesso dimenticati (da Tonino Guerra a Giovanni Carlo Rossi, detto Carlino, il quale chiamò il proprio figlio Vasco in memoria di un omonimo compagno di prigionia in Germania che lo aiutò a venirne fuori vivo). I terribili, magnifici disegni, pochissimo visti, realizzati con materiali di fortuna dal miniaturista Marcello Tomadini, il pittore detto «il fotografo dei lager». La foto inedita di un Mussolini sorridente sul Gran Sasso tirata fuori da un privato. Il primo tricolore della Rsi, sbagliato, con il verde a destra. Le carte di identità, i passaporti e le bandierine con l’aquila repubblicana (tutti oggetti originali, e abbastanza rari: mentre del Ventennio c’è moltissimo, dei 600 giorni di Salò resta abbastanza poco). I manifesti di propaganda antifascista che irridono le «marionette» italiane mosse dai tedeschi e quelli immensi firmati da Gino Boccasile (che oggi valgono fra i 3 e i 5mila euro l’uno). Un gruppo di fotografie private di Mussolini a Villa Feltrinelli a Gargnano e la lettera devastante che scrive alla sorella Edvige il 31 agosto del ’43: «Per quanto mi riguarda, io mi considero per tre quarti defunto…».

E ancora. La ricostruzione di un rifugio antiaereo. I giochi dei bambini (c’è anche un incredibile «Gioco delle tre oche» stampato nel febbraio 1945 dalla Propaganda Staffel con riferimento ai tre nemici: i russi, gli americani e gli inglesi…). Ci sono le affissioni con cui la Rsi denunciava i bombardamenti anglo-americani contro obiettivi civili per fiaccare il morale della popolazione (chiese, orfanotrofi, monumenti, scuole, come quella elementare del quartiere Gorla di Milano, 184 bambini uccisi, e le guerre non cambiano mai, oggi come ieri…). La rarissima tessera dell’Opera Balilla (a trovarla vale 800 euro) e quelle del SAF, il Servizio Ausiliario Femminile (furono 300 su 6mila le repubblichine passate per le armi o orrendamente violentate a guerra finita). Le fotobuste del film Fatto di cronaca diretto nel 1945 da Piero Ballerini, l’ultimo girato da Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. I fogli volanti degli Alleati che valevano, per chi li raccoglieva e si presentava in un presidio degli inglesi o degli americani, come lasciapassare. Una mappa disegnata e colorata a mano dai servizi segreti della Rsi con tutti i rifugi delle bande partigiane in Piemonte (forse è il pezzo più singolare del museo). Il reportage fotografico (sono immagini piccolissime, stinte) dell’impiccagione di un partigiano vicino a Torino.

E, prima dell’uscita, subito dopo la gigantografia di piazzale Loreto con i corpi dei gerarchi, il 28 aprile 1945, ecco in una grande bacheca un accumulo disordinato di busti, medaglie, aquile littorie, bottiglie di vino e cimeli vari. Il lascito kitsch e polveroso di quell’ultimo terribile fascismo.

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