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Quando la US Navy e la Real Marina Borbonica si allearono contro i pirati

di Clemente Ultimo

Uno dei primi problemi che la giovane repubblica statunitense è costretta ad affrontare all’indomani del raggiungimento dell’indipendenza, ratificata con il trattato di Parigi del 1783, è costituito dalla protezione del proprio traffico mercantile. Privi ormai della tutela diplomatica di Londra e, ancor di più, della “polizza assicurativa” costituita dalle squadre della Royal Navy che incrociano in tutti i mari e gli oceani del globo, gli Stati Uniti devono elaborare in tempi rapidi una linea d’azione che garantisca libertà e sicurezza ai traffici navali degli armatori nordamericani.

Tra le prime minacce con cui la neonata repubblica federale è costretta a confrontarsi c’è quella, tristemente nota alle marinerie europee, costituita dai pirati e corsari barbareschi che, dalle loro basi nordafricane, imperversano nel Mediterraneo e oltre le Colonne d’Ercole, a ridosso delle coste atlantiche del Nord Africa e del Portogallo. Ormai prive della protezione britannica, battenti l’insegna di un Paese ancora sconosciuto a molti e, soprattutto, privo di qualsivoglia forza marittima, le navi statunitensi sono una presa ideale per i corsari barbareschi. Prova ne è il fatto che già nel 1782 – ovvero un anno prima del trattato di Parigi – due vascelli statunitensi vengono catturati al largo delle coste portoghesi dai corsari algerini. È l’inizio di una complessa e tortuosa vicenda che impiegherà ben undici anni per essere risolta, con la liberazione degli equipaggi dei legni predati.

L’episodio spinge la giovane diplomazia statunitense ai primi contatti con le Reggenze barbaresche dell’Africa settentrionale, contatti che porteranno alla stipula nel 1787 di un trattato con il Marocco. Pace preceduta dalla cattura di diversi mercantili nordamericani da parte dei corsari marocchini. Questo successo diplomatico – fondato su basi invero precarie, tanto che non mancheranno attriti con il Marocco negli anni successivi – è tuttavia preceduto dalla grave crisi con la Reggenza di Algeri.

Il 25 luglio del 1785 i corsari algerini catturano, al largo delle coste portoghesi, la goletta statunitense Maria, mentre una settimana più tardi viene predato il vascello Dauphin. A rendere ancora più difficile la situazione per il giovane governo statunitense c’è l’atteggiamento bellicoso del Dey di Algeri che, non contento delle prede ottenute, dichiara guerra agli Stati Uniti, dichiarazione accompagnata dalla richiesta di pagamento di un milioni di dollari per stipulare un accordo di pace. La sfida algerina pone il governo statunitense dinanzi alla necessità di una scelta radicale: percorrere ancora la strada della trattativa con gli Stati barbareschi nella speranza di un’intesa che l’esperienza marocchina dimostrava sempre precaria o, piuttosto, tutelare i propri interessi ricorrendo alla forza?

La seconda opzione inizia lentamente a farsi strada, anche se inevitabilmente la mancanza di una marina da guerra riduce sensibilmente le possibilità d’azione degli Stati Uniti. Così, accanto ad una lunga e snervante azione diplomatica tesa ad ottenere il rilascio degli equipaggi delle due navi predate dai corsari algerini, il governo statunitense inizia a mettere in campo alcune azioni tese a garantire la difesa della propria marina mercantile dalla minaccia barbaresca. Nel maggio del 1792 il Senato stanzia, su richiesta del presidente Washington, 40 mila dollari per sottoscrivere un trattato di pace con Algeri e altri 40 mila per il riscatto dei prigionieri, tuttavia prima che si possa raggiungere un’intesa altre undici navi statunitensi sono vittime dei corsari nordafricani. Per contrastare l’attività dei corsari gli Stati Uniti chiedono al Portogallo di garantire la difesa delle proprie unità mercantili: la risposta di Lisbona si fa attendere a lungo, tanto che solo alla fine di ottobre del 1793 il governo lusitano accetta di soddisfare la richiesta americana.

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È di tutta evidenza che le misure ricordate sono solo dei palliativi, non sufficienti a raggiungere l’obiettivo del governo statunitense: garantire piena libertà ai propri commerci marittimi. Il punto di svolta si ha nei primi mesi del 1794: a gennaio una commissione appositamente costituita riferisce al Congresso su quella che ritiene essere la composizione più adeguata della futura flotta, mentre il 20 marzo lo stesso Congresso dispone – non senza polemiche – lo stanziamento di un milione di dollari per la costruzione di sei fregate.

L’avvio dei lavori per la costruzione della flotta modifica radicalmente – già in una prospettiva di breve periodo – lo scenario mediterraneo, tanto da spingere il Dey di Algeri a più miti consigli: dopo una lunga trattativa nel settembre del 1796 si arriva alla firma di un trattato di pace. L’anno successivo un trattato simile viene firmato anche con le Reggenze di Tripoli e di Tunisi. L’esperienza degli anni successivi conferma, tuttavia, la relativa aleatorietà delle intese diplomatiche raggiunte: gli episodi di pirateria a danno di navi statunitensi si riducono ma non scompaiono del tutto, mentre gli Stati Uniti si trovano ad essere di fatto, in base a quanto previsto dagli accordi siglati, stato tributario delle Reggenze barbaresche.

Con la presidenza di Thomas Jefferson si avvia una profonda revisione della politica di appeasement seguita fino a quel momento. Primo atto di questa nuova linea di condotta è la partenza dalla base di Norfolk, il 2 giugno 1801, di una squadra composta da tre fregate e una goletta al comando del commodoro Richard Dale. Destinazione Mediterraneo, obiettivo proteggere il commercio dai corsari barbareschi. Il momento è particolarmente indovinato: all’inizio del nuovo secolo le Reggenze nordafricane riprendono con nuovo vigore la guerra di corsa, in particolare contro le potenze minori. Questo provoca non poche apprensioni presso la corte borbonica di Napoli: tra i principali bersagli dei corsari figurano, infatti, le navi impegnate nel commercio di grano dalla Sicilia. La flotta napoletana è fortemente impegnata nell’attività di contrasto ai corsari e non mancano i successi, tuttavia non sono sufficienti ad arrestare l’attività dei barbareschi.

Anche l’azione della squadra navale statunitense non è tale da raggiungere risultati determinanti: la cattura di una polacca tripolina e il bombardamento ad intermittenza di Tripoli non consentono al commodoro Dale un successo pieno, tanto che al momento del suo rientro in patria, ai primi del 1802, la situazione non si è sostanzialmente modificata. Non diversamente andranno le cose in occasione della seconda spedizione statunitense nel Mediterraneo, affidata al capitano di vascello Richard Valentine Morris. Dopo aver scortato alcuni mercantili e minacciato sporadicamente Tripoli, anche facendo sbarcare una cinquantina di marines nei pressi della città, la squadra di Morris viene richiamata in patria. Durante la permanenza della squadra statunitense in Mediterraneo si registra anche un grave incidente diplomatico tra gli Stati Uniti ed il Regno di Napoli: una fregata nordamericana, durante una sosta a Siracusa, tenta di completare il proprio equipaggio arruolando a forza la banda musicale del Reggimento Valdemone, a bordo per un concerto.

Di tutt’altro segno, invece, i risultati ottenuti dalla terza spedizione statunitense nel Mediterraneo, grazie anche alla stretta collaborazione con la marina borbonica e al sostegno assicurato da Ferdinando IV. L’esordio della terza spedizione navale statunitense, affidata al comando del commodoro Edward Preble, non è certo dei migliori: mentre la squadra statunitense – composta da quattro fregate, tre corvette e due brigantini – assedia Tripoli, i corsari marocchini catturano tre mercantili nordamericani. Come se non bastasse la squadra statunitense dopo poche settimane perde una delle sue fregate: a fine ottobre 1803 la Philadelphia si arena su un banco di sabbia dinanzi la costa tripolina. Un bersaglio ideale per i corsari barbareschi: il 31 ottobre il vascello viene catturato insieme ai 307 uomini di equipaggio, disincagliato e condotto nel porto di Tripoli.

La perdita della Philadelphia non è solo un grave smacco per la giovane marina statunitense, ma anche un potenziale pericolo: c’è la possibilità che i corsari tripolini usino la nave contro la squadra guidata da Preble. Per neutralizzare la minaccia occorrerà attendere fino al 16 febbraio 1804, quando, utilizzando una tartana tripolina catturata, il tenente Decatur riesce ad entrare in porto e ad incendiare la Philadelphia.

In quelle prime settimane del 1804 anche la marina borbonica lavora alacremente per contrastare la minaccia barbaresca: l’obiettivo assegnato alla Real Marina da Acton è la neutralizzazione – o la cattura – dell’ammiraglia tunisina. Il 3 marzo una squadra al comando del capitano di vascello Diodato Micheroux, composta dal vascello Archimede e dalle fregate Cerere e Sibilla con le corvette Aurora e Fama, prende il largo alla volta di Tunisi. La crociera, a dispetto di alcune prede, si risolve in un nulla di fatto: venti contrari impediscono alla squadra napoletana di fare il proprio ingresso nel golfo e raggiungere Tunisi.

Il comune impegno contro le Reggenze barbaresche favorisce l’intesa tra il commodoro Preble e il governo borbonico: il comandante statunitense accetta di buon grado l’offerta di Ferdinando IV di far base con le proprie unità a Siracusa. Una convivenza non sempre serena, quella tra la squadra statunitense e le autorità borboniche, tuttavia efficace. Alla squadra statunitense, le cui fregate a causa dei bassi fondali non possono avvicinarsi a distanza utile per bombardare Tripoli, si aggiungono una decina di unità sottili della flotta borbonica, ideali per muoversi agevolmente nelle acque della capitale barbaresca. Sono proprio le otto cannoniere e le due bombardiere napoletane a consentire a Preble di ottenere i migliori risultati: il 3 agosto le unità sottili violano il porto tripolino affondando tre navi e catturandone altrettante, provocando tra gli equipaggi della flotta barbaresca 122 morti, a fronte dei tredici caduti tra statunitensi e siculo-napoletani.

Nuovi combattimenti navali si registrano ad agosto e nei primi giorni di settembre, questa volta con risultati meno schiaccianti a favore di statunitensi e borbonici, che negli scontri perdono rispettivamente un brulotto ed una cannoniera. Il 10 settembre Preble fa rientro in America dopo aver ceduto il comando a Barron.

Solo questa quarta fase dell’impegno statunitense in Mediterraneo porterà alla fine delle ostilità con Tripoli. Per raggiungere questo risultato gli americani saranno costretti ad operare a terra, assediando Derna e poi muovendo su Tripoli. Solo a questo punto il Dey accetterà di trattare, rilasciando gli ostaggi in cambio di 60 mila dollari e raggiungendo un accordo complessivo con gli Stati Uniti.

La campagna contro la Reggenza di Tripoli – primo impegno oltremare per le forza armate statunitensi -finirà per imprimersi profondamente nella memoria collettiva americana, tanto da essere immortalata in un verso del celeberrimo inno del Corpo dei marines: «From the halls of Montezuma, to the shores of Tripoli/ We fight our country’s battles in the air, on land, and sea*», mentre della collaborazione tra la neonata marina statunitense e quella borbonica rimarrà traccia solo in qualche tomo di storia.

* «Dalle sale di Montezuma, alle rive di Tripoli/ Combattiamo le battaglie del nostro paese nell’aria, sulla terra e sul mare».

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