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Realtà e stereotipi. Di cosa parliamo quando parliamo di “Fascismo”?

Su StartMag il saggista e storico Gregory Alegi scrive, a proposito del ventennio fascista, che «dobbiamo accettare l’ignavia dei molti nostri famigliari che per vent’anni non si opposero. Quanti di questi conformisti, per dirla con Moravia e Bertolucci, applaudono oggi a Scurati come ieri a Mussolini, aspettando che uno sbarco angloamericano in Sicilia e o un bombardamento di Roma catalizzino il dissenso?». Poche righe prima, Alegi ha portato il suo piccolo contributo allo sport nazionale più amato e praticato: l’autodenigrazione oltre il lecito. L’ha fatto con il rituale accenno sull’opportunismo generale che avrebbe coinvolto gran parte del popolo italiano in un’adesione formale ad un Regime che, ovviamente, alla caduta, si trovò circondato da antifascisti. Siamo o non siamo un popolo di voltagabbana?

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Ebbene, a rischio di essere impopolare, vorrei segnalare a chi voglia ascoltare che le cose non stanno così, almeno per chi voglia affrontare la questione con qualche base storica. In realtà il Fascismo ebbe un’importante adesione popolare già prima della Marcia su Roma per alcuni fatti semplicissimi anche se sovente ignorati o sottovalutati. Per prima cosa aveva fermato e poi stroncato una violenza di segno opposto che dall’immediato dopoguerra fino all’occupazione delle fabbriche del settembre 1920 (il famoso “biennio rosso”) aveva stravolto il Paese. Come è ben noto agli storici, a quel periodo risalgono i legami, stretti e sbilanciati, tra i socialisti e poi comunisti italiani e i Soviet russi che avevano visto proprio nell’Italia (con Germania e Polonia dove in effetti vere sollevazioni ci furono) uno dei primi paesi dove si poteva esportare la rivoluzione. La paura e la necessità di reagire ad un autentico “terrore rosso” portò varie realtà ad unirsi: il Fascismo non fu il primo e l’unico contenitore ma con la fine del 1920 divenne il principale avversario dei socialisti. E prevalse perché unì una certa efficienza militare (oltretutto in carico a poche centinaia di squadristi) ad un sostegno popolare molto variegato e interclassista. Ma quella vittoria non fu seguita da un’armonizzazione delle forze che l’avevano ottenuta. Il risultato è che il Fascismo ebbe varie anime da subito e se le portò tutte fino alla fine, nel 1945. Avete notato che a tutt’oggi, tra le tante lacune della storiografia, manca una “teoria generale” del Fascismo davvero condivisa? E sapete perché non ci si metterà mai d’accordo davvero su cosa è stato davvero il Fascismo? Perché, a ben vedere, il Fascismo non è mai esistito come fenomeno unitario ma è sempre stato la somma di anime diverse e destinate di continuo a scontrarsi, sovrapporsi, annullarsi a vicenda. E la larga adesione che il movimento prima e poi il Partito e soprattutto il Regime ebbero, è da attribuire al fatto che per tanti era facile trovare qualcosa in cui identificarsi in quello che è stato il primo vero “partito contenitore” della storia italiana. Un modello fatto proprio, nel dopoguerra, da Dc e dal Pci.

Se sembrano affermazioni un po’ forti guardate cosa scriveva, nel gennaio 1925 (cioè poche settimane dopo il famoso con cui Mussolini instaurò di fatto la sua dittatura) il giornale “Critica Fascista” (diretto da Giuseppe Bottai, quindi un uno qualunque, che l’aveva fondato nel giugno 1923 con la benedizione di Mussolini) pubblicò un articolo dal titolo “Le cinque anime del fascismo” scritto da un giovane intellettuale fascista, Vincenzo Fani Ciotti. In quell’articolo si osservava – siamo nel 1925 … – come nel Partito Fascista convivessero posizioni diverse se non antitetiche: la sinistra e i repubblicani nazionali, i sindacalisti rivoluzionari, i nazionalisti, i “revisionisti” (protagonisti di una feroce polemiche interna nei mesi precedenti), il gruppo degli ultrà all’estrema destra del gruppo raccolto intorno al quotidiano L’Impero. In realtà, se avesse voluto, “Critica Fascista” avrebbe potuto andare più a fondo, allungando ulteriormente l’elenco per dare il giusto posto a futuristi, ex anarchici, ex socialisti, i liberali che non erano tutti nazionalisti, lo squadrismo che si riconosceva in Farinacci e odiava Gentile e i gentiliani, ecc. ecc.

L’eterogeneità delle anime del Fascismo non ha mai trovato una soluzione che le amalgamasse. E’ stato possibile solo farle convivere soprattutto grazie al combinato di due forze molto diverse tra loro: in prima battuta l’amor di Patria (che aveva come primo corollario la necessità di uno Stato forte e basato sulla concordia delle varie categorie produttive, la premessa del Corporativismo) e subito dopo il “mussolinismo”. Solo il carisma del Capo poté tenere insieme anime tanto diverse e lo fece ora appoggiando un gruppo ora l’altro, in un continuo gioco d’equilibrio che continuò anche durante la Repubblica Sociale Italiana. Per chi abbia voglia di dare un’occhiata anche alla storia della destra post fascista vedrà che il contrasto tra anime diverse ha caratterizzato anche tutta la parabola anche del Movimento Sociale Italiano.

Quindi? Quindi la prima cosa da fare è quella di non arrendersi ma fare i conti con la complessità delle cose umane. Esattamente quello che, da una parte, non fanno i vari Scurati, Cazzullo e compagnia varia (come dimenticare il delirio dell’Ur Fascismo di Umberto Eco?), tenacemente attaccati alla classificazione inappellabile e omnicomprensiva di “violenza e razzismo”. Dire, come fa Scurati «che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista» è una forzatura che soprattutto fa torto alle vite e alle parabole umane (spesso contraddittorie) di milioni di persone, anonime e no. Dall’altra parte, i teorici dell’ “opportunismo congenito”, non migliorano la situazione, riducendo e caricaturizzando la realtà anche loro. Ci sono invece ottime ragioni per pensare che l’appoggio al Regime fu diffuso e convinto proprio perché in quel mosaico in camicia nera molti trovarono le risposte e le protezioni che cercavano. E qui violenza e razzismo (che ovviamente ci sono stati) non c’entrano nulla. In tanti poi (anche nomi illustri) cambiarono idea perché si può cambiarla senza venir meno alla propria coscienza e senza scomodare per forza l’opportunismo più gretto. I tanti socialisti tra che il 1921 e il 1922 trasmigrarono nelle file fasciste lo fecero solo per paura? E i tanti fascisti – specie quelli di sinistra e i sindacalisti – che dopo il 1945 trasmigrarono a migliaia (i cosiddetti “fascisti rossi”) nelle fila del PCI erano tutti dei voltagabbana? Io non lo credo e basta conoscere un po’ le biografie delle persone per rendersene conto.

Potrei cavarmela dicendo che non credo che si debbano mettere in croce i nostri nonni (anche perché il mio figura sul sito www.partigiani.it insieme al suo figlio maggiore, mio padre) per come vissero durante il Ventennio visto che la vita di quegli anni non era così terribile come si vuole dipingerla oggi nonostante il clima, i condizionamenti, la dittatura, il conformismo che ovviamente c’era, come sempre c’è stato, e tante altre cose negative. Il problema è che la realtà è complicata e non si lascia rinchiudere in nessuna formuletta, né agiografica né demonizzante. Se no non si spiega il fatto che il 25 aprile 1945 il numero dei fascisti in armi (in una porzione ridotta del Paese) era sicuramente superiore a quello dei partigiani e nonostante fosse chiaro da tempo come stavano le cose. Nato da un’Italia divisa, il Fascismo moriva lasciando la Nazione divisa più di prima. E poco più di un anno dopo un’altra divisione si sovrappose alla precedente con la controversa e risicata vittoria della Repubblica al referendum istituzionale. Ci si può quindi stupire che, nonostante la retorica imperante che oggi trova in Scurati il suo celebrato e mediocre cantore, il paese in buona parte non “senta” le ricorrenze del 25 aprile e del 2 giugno in assenza – una cronica assenza – di una qualunque vera politica di pacificazione nazionale? Un dato di fatto che ha poco a che vedere con il conformismo di ieri e di oggi, a conferma che non può essere quella la principale chiave interpretativa del passato e del presente. Un dato di fatto che ha trovato una interessante conferma meno di un anno fa in un sondaggio di Nando Pagnoncelli per il “Corriere della Sera” che, ovviamente, non ha trovato nessuna eco perché rivelava una realtà scomoda: «Dalla rilevazione emerge un vero e proprio paradosso: le festività che dovrebbero rappresentare un tratto identitario e momento di unità del Paese, in realtà dividono gli italiani quanto a coinvolgimento suscitato dalle singole ricorrenze. Infatti, il 58% dichiara di sentirsi coinvolto dalla Festa della Repubblica e dall’Anniversario della Liberazione dal nazifascismo contro il 42% che risulta poco o per nulla interessato…». E se a quasi ottant’anni dalla fine della guerra la situazione è ancora questa non converrà farsi qualche domanda vera, mettendo da parte facili e fragili formulette?

(pubblicato su StartMagazine il 22 aprile 2024 con la replica di Gregory Alegi)

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