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“Mussolini? Si inventa gli attentati”. I sospetti di Amendola in una lettera del 1925

E se quell’attentato a Mussolini non fosse stato altro che una montatura? «La mia impressione, sebbene tutto ciò si svolga nel massimo segreto è che siccome non c’è stato nulla, non riusciranno a fabbricare un bel nulla». Giovanni Amendola, uno dei leader dell’antifascismo democratico, il 21 novembre 1925 mette nero su bianco i suoi sospetti. E lo fa, oltretutto, in una lettera scritta ad un deputato “fascista”: il fiorentino Dino Philipson (1883-1972). In realtà, Philipson – ebreo, possidente terriero – è un fascista un po’ sui generis perché è più che altro un liberale conservatore, eletto nel listone con i fascisti nelle elezioni del 1921, ha avuto una certa vicinanza con lo squadrismo toscano al punto di avere come guardaspalle uno dei capi dello squadrismo fiorentino, Bruno Frullini. Ma ben presto prenderà altre strade: gli intransigenti non lo amano, ricambiati, e nel 1923 è già espulso dal PNF e nel 1924 non più ricandidato. Inizia così una sua personale marcia di avvicinamento all’antifascismo che lo porterà, addirittura, al confine negli anni Trenta e a partecipare, dopo il 25 luglio 1943, al primo governo Badoglio come sottosegretario alla Presidenza. Tutto questo per dire che non è sorprendente che una personalità come Amendola – l’uomo che ha guidato l’opposizione aventiniana dopo il “Delitto Matteotti” del 10 giugno 1924 e che morirà pochi mesi dopo, il 7 aprile 1926, a Cannes – si confidi così apertamente con un esponente politico che ha militato sul fronte opposto.

Tutto questo emerge da una fitta lettera autografa di quattro pagine che andrà all’asta su “Galileo Auctions”, un sito di aste on line – il prossimo 26 ottobre 2023. Come riferisce la stessa Casa d’Aste: «La lettera, datata Roma, 21 novembre 1925 e redatta su carta intestata della Camera dei Deputati indirizzata a Dino Philipson, è da considerarsi estremamente rara e di grandissimo interesse visti i temi trattati: vengono infatti descritte, con forte scetticismo, le decisioni prese circa l’attentato subito da Benito Mussolini nel novembre del 1925 ed addirittura ne contesta il suo reale svolgimento».

Il riferimento è all’attentato progettato – ma non messo in atto, sia pure di un soffio, dal deputato social-unitario Tito Zaniboni (1883 – 1860) e dal generale Luigi Capello. Zaniboni avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco, uno Steyr-Mannlicher M1895, da una finestra dell’albergo Dragoni, oggi non più esistente e che era nel palazzo adiacente all’odierna sede della Rinascente, di fronte a Palazzo Chigi. In pratica dalla finestra della sua stanza, Zaniboni, ex ufficiale degli alpini e decorato con quattro medaglie, tre d’argento e una di bronzo, durante la Grande Guerra, avrebbe tranquillamente colpire Mussolini che si sarebbe dovuto affacciare al balcone per le celebrazioni della Vittoria il 4 novembre 1925. Tuttavia Zaniboni venne tradito da un suo presunto complice, Carlo Quaglia, e quindi tutte le sue mosse erano state fino a quel momento sorvegliate dal questore Giuseppe Dosi.

A distanza di alcuni giorni però Amendola si dimostra non così sicuro che la stampa italiana stia riferendo i fatti fedelmente ed arriva perfino ad ipotizzare una vera e propria montatura durante l’attentato: «Gli sforzi che il nostro paterno Governo compie per “montare” il complotto o le complicità nell’ “attentato” che non ci fu (ma doveva essere? Finora lo sappiamo perché lo afferma la polizia appoggiata da due egregie testimonianze: Il Sig. Quaglia, suo confidente, e lo chauffeur di Zaniboni, agente di P.S. …) non riescono, a quanto sembra, a concludere un bel nulla: come è naturale la mia impressione, sebbene tutto ciò si svolga nel massimo segreto è che siccome non c’è stato nulla, non riusciranno a fabbricare un bel nulla».

La lettera prosegue poi con altre informazioni circa le pressioni che si percepiscono ad oggi in Italia a causa del governo fascista ed informa che sarebbe opportuno che il Journal francese, riportasse notizie più veritiere rispetto a quelle censurate o faziose del governo: «…così tu hai visto la perquisizione e l’interrogatorio a Bencivenga (Roberto, noto antifascista e sorvegliato politico) come tu hai avuto la perquisizione alle Fontane. Basta che un qualunque intrepido starnuti, perché chiunque… non solo agli arbirtrii della polizia, ma altresì – che è peggio – alle possibili conseguenze dell’artificiosa montatura dei cani fascisti». Amendola non si risparmia neanche successivamente alla critica verso il governo in particolar modo durante la visita del Duce a Parma: «…Il sig. Lucas va in estasi di fronte alle accoglienze a Parma al Duce. Per quelle accoglienze furono arrestati il giorno precedente, ottocento antifascisti e furono importati migliaia di applauditori dalle campagne dei paesi vicini…»

Amendola termina poi con un P.s. molto importante, che rivela il nuovo indirizzo dell’esiliato Gaetano Salvemini, importantissimo politico, storico e antifascista fuggito in Francia a seguito delle pressioni del governo: «Salvemini dovrebbe essere costì, Rue Madame 44 Paris (VI)».

E’ opinione corrente che Amendola – aggredito dai fascisti nell’estate 1925 – sia morto per i postumi della bastonatura. In realtà, come attesta anche la stessa pagina wikipedia dedicata al politico napoletano, Amendola fu raggiunto solo da alcune schegge di vetro in seguito ai colpi inferti alla sua macchina dagli aggressori che invece bastonarono un suo collaboratore nonostante il ras lucchese Carlo Scorza avesse dato ad Amendola una piccola scorta, segno di non indifferenti fratture all’interno dello stesso fascismo toscano. In realtà sembra che il decesso del deputato demosociale sia da imputare ad un tumore polmonare e che l’aggressione non abbia influito su un quadro clinico già compromesso anche al momento in cui venne scritta la lettera che ora va all’asta.

Da ricordare anche altre due cose: il “presunto” attentato ordito da Zaniboni fu il primo di una serie: a quello seguirono quello di Violet Gibson il 7 aprile 1926, quello dell’anarchico Gino Lucetti l’11 settembre 1926 e quello di Anteo Zamboni, a Bologna, il 31 ottobre 1926. Negli anni a seguire venne sventati altri due complotti anarchici organizzati da Michele Schirru nel 1931 e da Angelo Pellegrino Sbardellotto nel 1932. Una serie di eventi che già nel 1927 aprirono la strada alle cosiddette “leggi fascistissime” che ridussero le libertà in Italia.

Zaniboni, processato nel 1927 smentì Amendola indirettamente poiché ammise di aver progettato l’attentato a Mussolini: «Dichiaro senz’altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la P.S. invece di giungere all’Albergo Dragoni alle 8.30 fosse giunta alle 12.30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re». Condannato a 30 anni di reclusione, ebbe modo, dal carcere di ringraziare Mussolini per gli aiuti ricevuti dalla sua famiglia. Liberato dopo la caduta del Regime fascista il 25 luglio 1943, Zaniboni riprese parte alla vita politica non trascurando di attaccare, dal sud dove si trovava, Mussolini e la neonata Repubblica Sociali Italiana. La cosa gli valse un attacco pubblicato il 3 febbraio 1944 dal quotidiano romano “Il Messaggero”: un articolo senza firma – ma attribuibile forse allo stesso Mussolini – ripropose alcuni passaggi delle lettere di Zaniboni a Mussolini («L’Eccellenza Vostra più volte benedetta») negli anni Trenta. L’articolo chiudeva così: «Coloro tra i suoi nemici personali che ebbero prove concrete della generosità di Mussolini non debbono essere turbati da questo racconto (…) Questa è una eccezione fatta alla regola ed è stata provocata. Gli archivi che contengono centinaia e centinaia e forse migliaia di pratiche del genere sono custoditi e nessuno va a investigarli. Gli agenti di Badoglio che asportarono i carteggi della Corona e dei militari (si capisce perché), non si occuparono minimamente di questi fascicoli. Pensarono che tutto ciò non riguardava la storia. Infatti è piuttosto cronaca».

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