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Storia & Matematica: il 25 aprile e i conti che non possono tornare

Nell’immediato dopoguerra ci fu la caccia al “diploma di partigiano”: lo richiesero in 650 mila, lo ottennero in 137.344. Questa cifra – comprensiva oltretutto delle varie anime della Resistenza – è la base per capire come la festa del 25 aprile non abbia mai attecchito in un paese di oltre 40 milioni di abitanti dove, comunque la si voglia pensare, dall’altra parte si schierò un numero decisamente maggiore di italiani. Ai quali non si è mai offerto nulla se non una “resa senza condizioni” ad una “vulgata storica” fragile e faziosa, anche a distanza di decenni

(articolo pubblicato su Storia In Rete n. 171, marzo-aprile 2020)

Il 25 aprile non è mai riuscito ad imporsi davvero come festa nazionale unificante e condivisa. Eppure di sforzi ne sono stati fatti e se ne fanno. Ma ogni tentativo di affermare l’anniversario della Liberazione come momento di celebrazione dell’unità tra tutti gli italiani è sostanzialmente fallito. Come mai? Una possibile spiegazione è arrivata giusto 12 mesi fa, quando è stato presentato ufficialmente il portale “Partigiani d’Italia” nato dalla collaborazione di vari enti e fondazioni coordinate dalla Direzione Generale Archivi del Ministero dei Beni Culturali. «Il progetto – spiegava il comunicato di presentazione – ha l’obiettivo di rendere accessibili attraverso un portale dedicato le circa 650 mila schede relative alle richieste di riconoscimento delle qualifiche partigiane conservate presso l’Archivio centrale dello Stato nel fondo Servizio per il Riconoscimento Qualifiche e per le Ricompense ai Partigiani (Ricompart) del Ministero della Difesa, delineando così un primo quadro complessivo documentato della composizione quantitativa delle formazioni partigiane».

Un’iniziativa meritoria anche se, forse, ad un’impresa del genere si sarebbe dovuto metter mano molto prima visto che i dati erano già tutti lì fin dal 1946/1947. La cosa interessante – ma che tuttavia, “stranamente”, non ha avuto il rilievo dovuto in questi mesi – è quanto che emerge da quelle 650 mila schede, già studiate anche se il portale sarà on line non prima di qualche mese. I dati emersi sono molto significativi e forse proprio per questo son stati lasciati allo stato grezzo e nell’ombra per così tanto tempo. Meritoriamente, una prima analisi l’ha tentata sulle pagine de “La Stampa” (14 aprile 2019) Giovanni De Luna, storico di sicuro orientamento antifascista, il quale ha però provato a girare “in positivo” quello che ad occhi più disincantati può legittimamente apparire come un panorama desolante, sconfortante. Per vedere in rosa quello che a occhi normali potrebbe sembrare virare sul grigio “fumo di Londra”, De Luna ha scelto di puntare, tanto per cambiare, sulla carta della “superiorità morale” dei pochi partigiani che seppero non “liberare” ma “riscattare” una massa apatica e in buona parte compromessa col Fascismo: «Furono comunque una minoranza; nei numeri e nella loro stessa autorappresentazione si percepirono come tali, ed ebbero ben chiaro il compito di riscattare, con il loro coraggio, l’ignavia delle maggioranze che avevano supinamente accettato la cancellazione della libertà e della democrazia».

Primo dato: come già indicato da De Felice ormai molti anni fa, l’Italia del dopo 8 settembre 1943 si ritrovò divisa in tre: due minoranze attive – fascisti e partigiani – e in mezzo la grande maggioranza degli italiani – la “zona grigia” – desiderosi soprattutto di veder finire alla svelta la guerra. All’interno di quella massa ci furono ovviamente anche vari movimenti, ora a favore di una parte ora a favore dell’altra. Ma il dato delle due minoranze contrapposte resta a fronte di una grande maggioranza indecisa, confusa, pressata da mille parti e quindi bollarla di “ignavia” e di “supina accettazione” appare francamente ingeneroso. Soprattutto quando poi se ne è sollecitato per decenni l’attiva partecipazione, ad esempio, alle celebrazioni del 25 aprile…

Abbiamo quindi la certificazione di una minoranza che “disprezza” una maggioranza che vuole comunque “liberare” e portare dalla sua parte. Operazione riuscita o fallita? Giudicate voi dai numeri: 650 mila domande di riconoscimento di attività partigiana presentate e solo 137.344 accolte: poco più del 21% di tutte le domande avanzate, lo 0,3% circa degli italiani. Una elite a tutti gli effetti: che per essere definita esattamente richiese un duro lavoro nel dopoguerra. Scrive De Luna: «Subito dopo la fine della guerra, per vagliare quelle richieste si insediarono apposite Commissioni regionali e nazionali. Il loro lavoro si presentò subito irto di difficoltà. Si trattava di “normare” una guerra che era stata soprattutto una guerriglia e di stabilire delle regole da applicare in un mondo partigiano che era nato contro le regole, per sua natura fluido, spesso incline più alla spontaneità che all’ organizzazione. Anche le cifre erano tutt’altro che certe e risentivano delle varie fasi che avevano scandito le operazioni militari. Così, si può concordare con Guido Quazza che parlò di 9-10 mila combattenti nel dicembre 1943, 20-30 mila nel febbraio-marzo 1944, 70-80 mila uomini nell’estate del 1944, 120-130 mila nei giorni immediatamente precedenti l’insurrezione del 25 aprile, fino ai 250 mila finali, dei quali “150.000, colorita e non sempre utile retroguardia”». «Le Commissioni – continua De Luna – operarono sulla base di criteri che erano il più vicino possibile alla realtà, che però non riuscivano a intercettare nella sua interezza. Furono introdotte distinzioni che riguardavano chi aveva operato al Sud della Linea Gotica; ci si limitò a riconoscere solo le formazioni indicate dal Cvl (Corpo Volontari della Libertà), penalizzando quelle che avevano operato spontaneamente; si privilegiò l’aspetto militare della Resistenza, così che al Sud si prese in considerazione come titolo di merito solo la partecipazione alle quattro giornate insurrezionali di Napoli. Si stabilirono diverse categorie di partigiani (combattente, patriota, benemerito ecc.) e per ognuna si richiedevano requisiti diversi (a partire dalla presenza continuativa in banda di almeno tre mesi)».

Notare l’escalation, scontata, dell’incremento delle cifre del movimento partigiano man mano che la guerra volgeva al termine. Più le cose andavano male per Rsi e tedeschi più i partigiani aumentavano: 10 mila nel dicembre 1943, 80 mila 7/8 mesi dopo, 130 mila ad esser buoni nell’aprile 1945, quasi il doppio a cose finite o quasi. Specie in quest’ultimo dato non è difficile vedere tracce di opportunismo (spesso venato di ferocia come dimostrano i vari eccidi dell’aprile-maggio 1945 ai danni dei vinti), cosa non nobilissima ma umana. Un aspetto che in questo caso De Luna non stigmatizza ma semplicemente ignora salvo poi ricredersi davanti alla gran mole di domande presentate nel dopoguerra: già 250 mila sarebbero state tante da accogliere, 650 mila poi… Che ne sarebbe stato in quel caso del «…magistero di apostolato civile, interprete di uno spirito che la Resistenza riuscì a trasfondere anche nella Costituzione»?

Ecco perché la stessa elite (le commissioni esaminatrici erano composte ovviamente da uomini della Resistenza) decise di stringere le maglie e filtrare al massimo le richieste, dietro le quali si nascondeva spesso un’inaccettabile debolezza morale: «A sollecitare le richieste di riconoscimento c’era anche un interesse economico, la possibilità di percepire un “premio di solidarietà” che oscillava tra le mille e le cinquemila lire, più o meno lo stipendio mensile di un impiegato. Cifre irrisorie che però, in un’Italia stremata dalla guerra, erano molto appetibili. A questo “opportunismo della miseria” se ne aggiungeva un altro, che trovava le Commissioni particolarmente vigili: in un’Italia perennemente sedotta dalla corsa sul carro dei vincitori, ottenere la qualifica di partigiano fu visto anche come una scorciatoia trasformistica per lavarsi la coscienza e rifarsi una verginità democratica».

Secondo dato: quel popolo “perennemente sedotto dalla corsa al carro del vincitore” nel tempo non ha però mai fatto veramente suo l’appuntamento del 25 aprile che è, di fatto, pur sempre la festa dei vincitori. Curioso no? Ma c’è dell’altro. E cioè che quell’elite non era compatta e non poteva esserlo viste le tante anime dell’antifascismo: comunisti, azionisti, socialisti di vario orientamento (tra Pertini e Saragat, tanto per fare un esempio, c’era un abisso già prima della scissione dei socialdemocratici saragattiani), liberali, cattolici, monarchici ecc. ecc. E già a pochi anni dalla fine della guerra l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, cioè l’Anpi, aveva già subito due scissioni entrambe motivate dalla tendenza di comunisti e socialisti di egemonizzare l’organizzazione e appiattirla su posizioni filo-sovietiche. Come si vede una tendenza, mutatis mutandis, rimasta costante nel tempo. Nel 1948 se ne andarono i cattolici e gli autonomi che fondarono la FIVL (Federazione italiana Volontari della Libertà) imitati pochi mesi dopo da socialisti democratici, mazziniani e azionisti che si raccolsero nella FIAP (Federazione italiana delle Associazioni Partigiane). Ne consegue che, col passare del tempo, nell’Anpi – oggi egemone almeno a livello di immagine e comunicazione – si andarono a riconoscere solo alcune frange estreme della elite partigiana, frange spesso divise dalle altre componenti oltre che dagli orientamenti politici imposti dalla nascente “guerra fredda” anche da rancori che risalivano agli stessi anni della guerra civile. Un caso su tutti: la commemorazione dell’eccidio di Porzus (febbraio 1945: 17 partigiani cattolici e socialisti massacrati dai partigiani comunisti) che per decenni ha visto gli ex resistenti radicalmente divisi.

Terzo dato: i partigiani erano divisi tra loro, durante e dopo la guerra. Possibile che le celebrazioni del 25 aprile, con i soliti tentativi di egemonizzarne significato e manifestazioni, non ne abbiano risentito spesso e volentieri? Senza contare che l’inevitabile retorica che accompagna questa festa nazionale tende a mettere la sordina ad un aspetto invece ben presente nella memoria popolare: e cioè che la Resistenza non ha fatto tutto da sola, anzi. A ben vedere, l’apporto degli alleati (soprattutto anglo-americani) alla conclusione vittoriosa della Seconda guerra mondiale non è stato negato da certa storiografia ma semplicemente ignorato: in occidente i partigiani, in apparenza, avevano lottato da soli con nazisti e fascisti. Una tendenza questa non solo italiana però… Come ha osservato Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” del 2 aprile 2018 recensendo il libro dello storico francese Olivier Wiewiorka “Storia della Resistenza nell’Europa occidentale 1940-1945” (Einaudi): «Finita la guerra, dappertutto nei Paesi che avevano resistito fu promossa una politica della memoria che “minimizzava il contributo degli Alleati quando addirittura non lo passava sotto un indifferente silenzio”. Lo stesso De Gaulle nel discorso che tenne a Parigi il 25 agosto 1944 rese omaggio al proprio Paese liberato “con le proprie mani”, dal suo popolo “con l’aiuto degli eserciti della Francia, con l’appoggio e il concorso della Francia tutta, della Francia che lotta, dell’unica Francia, della vera Francia, della Francia eterna!”. Limitandosi a salutare “con un fugace e striminzito omaggio” i “nostri cari e ammirevoli alleati”. In Danimarca la Resistenza fu considerata come qualcosa a cui i britannici si erano limitati a “fornire i mezzi”. E fu così dappertutto. Lì per lì la cosa parve naturale. Del resto, come ha osservato lo storico Pieter Lagrou, “esaltare il contributo dei movimenti di resistenza endogeni era l’unico modo che quei Paesi avevano a disposizione per costruire un mito nazionale”».

L’esperienza sembra dirci che “fondare un mito nazionale” basandosi sull’azione (e qui certo non ha rilievo il numero, la qualità o l’efficacia di quelle azioni) di meno di 140 mila persone sperando che questo mito sia poi condiviso da 40 prima, 50 poi e oggi ormai circa 60 milioni di persone, non è facile per niente. Tanto è vero che in 75 anni in Italia, di fatto, non ci si è riusciti…

Ai motivi della mancata affermazione del 25 aprile come momento di unità accettato da tutti gli italiani se ne può aggiungere anche un ultimo, tutt’altro che trascurabile. De Luna, nell’articolo già citato, per sottolineare il valore e il coraggio di chi scelse, durante la Guerra civile, di “andare in montagna” ha osservato: «Al 25 aprile 1945, il numero dei partigiani ammontava, secondo alcune ricostruzioni, a circa 250 mila. Pochi rispetto ai milioni di italiani che si erano iscritti al Pnf e che avevano affollato le piazze di Mussolini; molti rispetto alla scelta che furono chiamati ad affrontare dopo l’8 settembre, rifiutando sia le lusinghe del “tutti a casa”, sia l’obbedienza ai bandi di arruolamento nell’esercito di Salò. Nel primo caso, sarebbero comodamente sprofondati nel ventre delle loro case e delle loro famiglie, limitandosi ad aspettare che passasse “’a nuttata”; nel secondo, si sarebbero messi al sicuro dall’ incubo degli arresti, delle deportazioni, delle rappresaglie, rifugiati sotto l’ombrello protettivo della Wehrmacht e della sua poderosa forza armata. Scelsero invece di impugnare le armi contro i tedeschi e i fascisti, di ritrovare, in quel gesto, la pienezza di una sovranità individuale smarrita in venti anni di dittatura, di obbedienza passiva a un regime claustrofobico e soffocante».

La notizia è di quelle che vanno sottolineate: aderire all’esercito della Rsi sarebbe stata quindi una scelta comoda perché voleva dire mettersi «al sicuro dall’ incubo degli arresti, delle deportazioni, delle rappresaglie, rifugiati sotto l’ombrello protettivo della Wehrmacht e della sua poderosa forza armata». Le molte migliaia di caduti dell’esercito repubblicano – caduti al fronte ma anche per mano partigiana, spesso anche in agguati o in eccidi perpetrati a fine guerra – dovrebbero consigliare qualche riflessione supplementare a De Luna. Una riflessione scomoda perché se ne porta appresso un’altra, che ruota intorno alla domanda: “ma quanti sono stati quelli che fecero la scelta opposta ai partigiani?”. La risposta è semplice e non contestabile: sono stati molti di più, decisamente di più. E fecero tutti una scelta non meno difficile di quella dei partigiani perché scelsero la parte sicuramente sconfitta, un alleato tedesco arrogante e ingombrante, andando ad affrontare un nemico immensamente più potente, numeroso e armato. E in più, visto il rapido divampare anche della Guerra civile, a tutti era chiaro cosa si rischiava quando sarebbe, inevitabilmente, arrivata la fine. Eppure, quella scelta di campo fu fatta e spesso con intenzioni nobili. E’ vero anche che molti non ressero alla prova e disertarono, andando magari ad ingrossare le fila delle formazioni partigiane. Chissà quanti dei titolari dell’attestato partigiano hanno prima vestito per qualche tempo anche la divisa della Rsi? Capitò, tra i tanti, anche ad un certo Dario Fo…

Sulla consistenza di quanti si schierarono con la Repubblica Sociale di Mussolini dopo l’8 settembre ci sono da tempo dati abbastanza certi. Ad esempio, fondato nel settembre 1943, il Partito Fascista Repubblicano raccolse in poco tempo, e con un territorio nazionale ormai per circa un terzo ormai in mano al nemico, circa 900 mila iscritti. Tra quei 900 mila furono circa 40 mila quelli che, nell’estate 1944, quando la prospettiva del disastro finale era ancora più evidente e incombente, chiesero di essere inquadrati nelle Brigate Nere, le formazioni armate del PFR. Alla vigilia del 25 aprile, i brigatisti neri erano ancora più di ventimila. Ovviamente sono poi da considerare i membri delle Forze Armate della Rsi che sfiorarono la cifra complessiva di 800 mila unità tra Esercito, Marina e Aviazione oltre alla Guardia Nazionale Repubblicana (che da sola assommava circa 150 mila effettivi, cioè più dei partigiani effettivi) e altri reparti minori tra i quali vanno sicuramente ricordate le oltre cinquemila ausiliarie. La morte violenta di molti di questi uomini, così come è stato del resto per i partigiani, ha ovviamente lasciato un ricordo pesante nelle famiglie, un ricordo tenace nel tempo così come è emerso dopo la pubblicazione del libro di Giampaolo Pansa “Il Sangue dei Vinti” nel 2003. A distanza di decenni dai fatti, il giornalista ricevette centinaia e centinaia di lettere di figli e nipoti di vittime della Guerra civile, segno che certe ferite non si erano rimarginate anche a causa del silenzio che nel dopoguerra ha coperto molti eccidi nel centro nord d’Italia.

Lasciamo ad altri, più competenti, il compito di aggregare i dati e fare delle proiezioni statistiche. Qui possiamo tenere il dato certo e cioè che, piaccia o no, giusto o sbagliato che sia, durante la Guerra civile furono molti di più gli italiani che si schierarono con il Fascismo di Salò rispetto a quanti scelsero la Resistenza. E ancora nel 1948, a tre anni dalla fine della guerra, nelle prime elezioni politiche della Repubblica Italiana, il partito che si richiamava apertamente all’eredità del Fascismo, il Movimento Sociale italiano, raccolse in condizioni tutt’altro che favorevoli e a poco più di un anno dalla sua fondazione, 526.670 voti alla Camera e 200.241 al Senato. Un consenso destinato a crescere anche di 4 o 5 volte nelle tornate successive. Segno di una presenza tra gli italiani, generazione dopo generazione, che ha resistito ad ogni sorta di demonizzazione ed emarginazione e che, ancora pochi or sono, si è concretizzata in un sondaggio che accredita un giudizio positivo su Mussolini in quasi il 20% degli italiani.

Tutti fascisti? Sicuramente no. Casomai, certe statistiche sono l’indice, vago e incerto, di un “post fascismo”, poco ideologico ma diffuso nella società italiana perché ha riguardato gran parte delle famiglie ma anche la società civile, l’arte e lo spettacolo, la pubblica amministrazione, lo sport, le professioni dove dal 1945 gli ex fascisti hanno fatto la loro parte nella ricostruzione e nel rilancio dell’Italia. Ma, al tempo stesso, hanno sicuramente faticato a riconoscersi (al pari di non pochi ex partigiani così come di molti “non schierati”) nei modi in cui si è voluto celebrare il 25 aprile in tutti questi anni. E il problema è ben lontano dall’essere risolto…

                                                                                                            Fabio Andriola

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