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La Locanda di Granito

Dopo 10 anni Roma non ha ancora il suo Museo della Civiltà Romana

Dal 2014 Roma non ha più un museo della Civiltà Romana. Ecco l’inchiesta che Storia in Rete aveva fatto nel 2015 e sulla quale non c’è molto altro da aggiungere, a distanza di 10 anni. Roma continuerà a non avere quel museo, visto che i «lavori di adeguamento degli impianti» che hanno spinto gli ispettori a sprangarne le porte non sono ancora iniziati perché mai appaltati e ormai neanche più coperti da stanziamenti. Così le maestose aule del Museo della Civiltà Romana all’EUR rimangono chiuse nella città che ogni anno richiama milioni di turisti attratti dal Colosseo, dai Fori e dall’eredità di Roma repubblicana e imperiale. E nulla trapela dalla Sovrintendenza circa la sorte di collezioni e archivi rinchiusi in un edificio che fa parte di un preziosissimo patrimonio immobiliare. Che fa gola a molti…

di Emanuele Mastrangelo da Storia in Rete n. 121-122

Roma, famosa località marittima, avrà presto il suo acquario comunale. Pazienza se invece non ha più da due anni un museo della Civiltà Romana. Già, perché, come ricorderanno i lettori di «Storia in Rete» a proposito della scandalosa gestione del Bimillenario di Augusto, il Museo della Civiltà Romana dell’EUR è chiuso dal gennaio del 2014 per «lavori di messa a norma degli impianti». Una chiusura destinata a protrarsi alle calende greche: infatti la gara d’appalto lanciata il 31 marzo 2014 per 2 milioni 150 mila euro è impantanata a causa di svariati ricorsi al TAR. E così sono trascorsi già quasi due anni da quando il Museo, assieme al Planetario che al suo interno è ospite dal 2004, è sbarrato. E chissà quanti anni ancora passeranno prima che si possa prevedere la sua riapertura, visto che la gara d’appalto prevede una durata dei lavori di 480 giorni (oltre alla progettazione preliminare, non inclusa) a cui la Sovrintendenza ha aggiunto – in risposta il 26 maggio 2014 a un’interrogazione in Consiglio comunale – almeno altri sei mesi per il collaudo degli impianti e ancor più tempo (non quantificato) per le pratiche dei Vigili del Fuoco…

Nel frattempo Roma non ha e continuerà a non avere più un suo museo della Civiltà Romana. Ha sì centinaia di musei, raccolte, gallerie stracolme d’opere d’arte pregevolissime ma ancor più di milioni di pezzi di marmo, selci, monconi di statue, cocci e coccetti insignificanti, esposti con rigore quasi feticista. Ma non ha più un museo che spieghi la civiltà di Roma ai romani, giovani e non, di sette generazioni o acquisiti da poco, ai milioni di turisti che vivono ancora del «mito» di Roma. Dove si può andare per capire come i Romani vivevano, come hanno conquistato il mondo, come lo hanno civilizzato, quale sia la loro eredità giunta fino a noi (oltre ai selci e ai cocci di cui sopra…)? Per questo c’era una volta un museo, non rimasto fermo ai criteri da grand tour settecentesco ma seriamente in grado di spiegare la storia ai visitatori, specialmente agli studenti, e di essere un centro studi accademico attorno a un archivio sterminato. Quelli infatti erano i compiti del Museo della Civiltà Romana fin dal suo embrione, la mostra per il Bimillenario Augusteo del 1937-‘38: «raggruppando i pezzi per categorie – scrisse l’architetto Giulio Quirino Giglioli, il padre del Museo negli anni Trenta – si son venute a formare sezioni omogenee che possono appagare il desiderio di un visitatore moderno dedito a questa o quella professione, cultore di questi o di quegli studi: il medico e il musicista vi troveranno, ad esempio, riunite insieme tutte le testimonianze possibili dello stato ai tempi dei Romani degli studi da loro prediletti».

Il Museo affonda le sue radici nelle varie mostre della Romanità che si sono tenute – grazie soprattutto all’opera di Rodolfo Lanciani (1845-1929) – nell’Italia delle celebrazioni per il cinquantesimo dell’Unità, il 1911, e che già allora mostrarono di aprirsi non solo alla storia-antiquariato ma anche alla «rievocazione» come forma di promozione presso il grande pubblico della passione per il passato. A Roma infatti venne ricostruita – forse in forma più adatta al set di «Cabiria» che non alla filologia – una delle due navi romane nel lago di Nemi (recuperate poi durante il Ventennio e poi malamente distrutte per sfregio dai tedeschi durante la ritirata del 1944). Una ricostruzione suggestiva che anticipò alcuni dei moderni sistemi per presentare la storia alla gente comune e renderla appassionante. Fin da principio il criterio della «ricostruzione del passato» era ben presente negli organizzatori, che impostarono le mostre della Romanità col criterio con cui in quegli anni si realizzavano le Esposizioni Universali. Solo che anziché mostrare le nazioni viventi se ne mostrava una scomparsa, attraverso la rievocazione e la ricostruzione di ciò che era andato distrutto coi secoli. Negli anni successivi, e in particolare sotto il Fascismo grazie al citato Giglioli, le raccolte delle mostre realizzate per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia furono ampliate e riordinate. A partire dal 1926 le mostre sulla Romanità passarono di sede in sede poiché le collezioni che le componevano si andavano ingrandendo a vista d’occhio. Prima il museo nel convento di Sant’Ambrogio nel Ghetto (istituito il 21 agosto 1926 e aperto al pubblico meno di un anno dopo, il 21 aprile 1927), poi nel Palazzo dei Musei alla Bocca della Verità, nel 1929. Con la mostra per il Bimillenario di Augusto (o Mostra Augustea della Romanità, al Palazzo delle Esposizioni dal 23 settembre 1937 al 4 novembre 1938) l’intera collezione viene costituita solo con copie, modellini, ricostruzioni. I pezzi originali vengono esclusi, poiché lo scopo dell’esposizione era didattica – «di studio» si diceva allora – non estetica, anche se la perfezione raggiunta dalle copie era tale che anche visitatori qualificatissimi sentivano timore di toccare quelle copie. Tuttavia l’intenzione di Giglioli non era realizzare semplici scenografie effimere da Cinecittà, ma un’installazione permanente.

La mostra, in 12 mesi, venne visitata da oltre 700 mila persone – un record anche oggi – e il successo consentì a Giglioli di proporre a Mussolini la realizzazione della tanto agognata esposizione permanente della Civiltà Romana nel nuovo quartiere dell’E42 progettato per il ventennale della Rivoluzione Fascista. Giglioli sfondava una porta aperta. Ma non solo col Duce, la cui passione per l’antichità romana e per Augusto è ben nota, ma anche con altre personalità: l’edificio da destinare alla nuova mostra, infatti, venne commissionato dalla FIAT di Giovanni Agnelli senior, senatore del Regno, tant’è che il piazzale realizzato fra le due ali e il colonnato del palazzo sono tutt’ora intitolati all’industriale torinese. Il gigantesco palazzo, opera degli architetti Pietro Aschieri, Cesare Pascoletti, Gino Peressutti e Domenico Bernardini, avrebbe iniziato a ospitare la mostra a partire dalla fine dell’esposizione. Poi, la guerra, la disfatta, l’EUR in rovina. Nel dopoguerra ci fu chi avrebbe voluto farlo saltare in aria con la dinamite come si era fatto con le architetture di Albert Speer nella Germania nazista. Fortunatamente prevalsero gli interessi spicci: alla DC, allora al potere, occorreva dar lavoro alle maestranze per accattivarsele, e si riuscì a destinare parte dei fondi del Piano Marshall al completamento di gran parte degli edifici iniziati per l’Esposizione. L’EUR si salvò e nel 1952 il Museo della Civiltà Romana aprì i battenti. Nel 1955 la FIAT donò l’edificio all’Ente EUR.

Viene completato nel dopoguerra anche il pezzo forse più pregevole – e di sicuro il più famoso – del museo: il plastico di Roma al tempo di Costantino in scala 1:250 realizzato con un lavoro ultratrentennale dall’architetto Italo Gismondi (1887-1974). Iniziata nel 1935, l’opera verrà completata solo nel 1971 e diventerà una delle icone del turismo romano, rappresentata su migliaia di poster e cartoline. Il Museo riceverà in donazione anche un’altra collezione di grande pregio, quella dei calchi della Colonna Traiana al Foro Romano: 125 pezzi fatti realizzare a metà Ottocento da Napoleone III e donati a papa Pio IX. Pio XII ne farà omaggio al Museo della Civiltà Romana, rendendo così possibile ai visitatori vedere da vicino quello straordinario «fumetto» che sono i bassorilievi della colonna e che da quando non esistono più i ballatoi della biblioteca che la circondava è possibile guardare solo col binocolo dal basso verso l’alto. Eppure, proprio l’apertura negli anni Cinquanta segna il canto del cigno del Museo. Scrive Anna Pasqualini, ordinaria di Antichità romane all’Universita di Tor Vergata: «Da allora il museo ha sofferto di un lento ma inesorabile declino». Il museo didattico, in Italia, non tira. Succubi dell’idea stessa del museo-raccolta d’antiquariato i visitatori italiani snobbano quel capolavoro di didattica e disprezzano le sue «copie in gesso». Quelli stranieri non vi arrivano se non in minima parte, vista l’eccentricità del Museo rispetto al centro storico di Roma e il fatto che l’architettura del Novecento non è ancora considerata come uno dei tesori artistici della capitale. Il Museo della Civiltà Romana dunque non era concepito come esposizione di belle arti ma come esposizione didattica: due percorsi – uno cronologico, l’altro tematico – dovevano illustrare la storia di Roma dagli albori a Giustiniano nel tempo e per argomenti (l’esercito, le terme e gli acquedotti, la scuola, la domus, la religione etc.). Cinquantanove sezioni, pensate da Giglioli per diventare l’enciclopedia universale della civiltà di Roma antica.

Un’idea all’avanguardia allora e tutt’ora validissima, ma lasciata cadere nella polvere. Ben lungi dall’essere solo raccolte di pezzi originali, i migliori musei del mondo sono oggi impostati proprio con il criterio della didattica, basti pensare a come i celebri Musei Smitsoniani di Washington accostano alle loro sterminate collezioni di reperti e opere un impianto educativo e divulgativo – oltre che di alti studi – in grado di coinvolgere ciascuno dei quasi trenta milioni di visitatori annuali, dagli studenti, che vi affluiscono anche fuori dagli obblighi scolastici, ai turisti fino a ricercatori e scienziati. Ma a Roma le cose sono andate storte. «Il museo è vittima di una certa disattenzione – continua la Pasqualini – la cui origine va probabilmente imputata a una politica culturale, se non programmata, almeno perseguita nei fatti, miope e sospettosa nei confronti di un campo di studi troppo coltivato prima e ora mal sopportato». Già dopo l’apertura il museo aveva dovuto fare i conti coi problemi: le termiti, all’inizio, che avevano attaccato le strutture in legno. Poi man mano l’incuria. Decine e decine di opere erano finite nelle cantine, molte sale erano vuote, tanto che vi si potevano tenere dentro altri eventi temporanei del tutto scollegati (come le mostre «Militaria» negli anni Ottanta e Novanta). Gli apparati didattici lacunosi e per nulla aggiornati, cosa tanto più colpevole pensando che attorno al Museo orbitava uno stuolo di studiosi di primo livello che avevano realizzato per la casa editrice Quasar una serie di trenta volumi sui vari aspetti della vita romana che univano al rigore accademico una veste divulgativa adatta anche al pubblico degli studenti. E se le sale divennero «sorde e grigie», veramente ridotte a una raccolta di copie in gesso con qualche punto più interessante dove ancora si potevano ammirare le ricostruzioni a grandezza naturale delle macchine da guerra romane o i plastici delle battaglie e delle grandi architetture di Roma, finì nel dimenticatoio anche l’altra parte del Museo, quella meno famosa ma non meno importante: l’archivio. Giglioli infatti non aveva concepito il progetto solo come esibizione per il vasto pubblico, ma anche come centro di studi accademici.

Col nuovo millennio per il Museo della Civiltà Romana arriva il declino inesorabile. Nessuno vuole compromettersi coll’ingombrante eredità del Fascismo, e così nel 2004 gli spazi una volta dedicati al salone d’onore e le sale vicine (per le mostre temporanee) è stato occupato dal Planetario. Un riuscitissimo tentativo di far apparire ancora più cadaverico il Museo, accostandolo al vivace – ancorché decontestualizzato – centro di divulgazione astronomica, che per giunta staccava molti più biglietti ed era voce in attivo (rara avis) per le casse comunali. Nel 2005 si lancia anche come ballon d’essai l’ipotesi di smantellare del tutto la creatura di Giglioli e spostarla al Foro Boario, da dove era partita 80 anni prima. Fu un grido d’allarme lanciato su «Il Messaggero» dallo storico Andrea Giardina che tutt’ora definisce il Museo un «gioiello mondiale» abbandonato e dimenticato. Lo spostamento del Museo, tuttavia, per fortuna restò lettera morta, ma l’istituzione rimaneva uno scatolone vuoto dove i visitatori – quasi tutti studenti delle scolaresche, non paganti – erano appena 12 mila l’anno. Come stupirsi che l’appalto per l’affidamento della libreria museale sia andato deserto due volte di seguito? Negli anni successivi si è cercato di restituire un senso al Museo, ospitando poche iniziative nel solco dell’idea originaria, come la ricostruzione di un giardino romano affidata a un gruppo di ragazzi di un riformatorio e lezioni agli studenti di elementari e medie per imparare a fare i calchi. Poi di nuovo il buio. Fino all’orrendo capitolo della chiusura alla vigilia del Giubileo di Augusto: il 28 gennaio 2014 infatti, il Museo è stato chiuso. Un’ispezione del ministero del Lavoro aveva riscontrato che gli adeguamenti richiesti in un sopralluogo dell’ottobre precedente non erano stati eseguiti. Eppure solo pochi anni prima si era già iniziato a discutere dell’impianto antincendio, che – ci informa il curriculum vitae dell’allora Responsabile Unico del Procedimento (RUP) che è visionabile sul sito istituzionale del Comune di Roma – fu oggetto nel 2010 di un «affidamento per l’allestimento sistema antincendio sale» (Codice Identificativo Gara 0706633bfc – Codice Unico di Progetto J89g10000130004). Cosa sia stato di quell’allestimento è un mistero, visto che a quattro anni di distanza l’adeguamento del sistema antincendio è ora l’oggetto principale del bando di concorso emesso dalla Sovrintendenza Capitolina nel marzo del 2014 e oggetto, more solito, di contestazioni e ricorsi al TAR. Caso curioso, per il Planetario si era proceduto a realizzare impianti dedicati perfettamente a norma (come dichiarato nella risposta del 26 maggio 2015 della Sovrintendenza Capitolina alla citata interrogazione in consiglio comunale presentata dal consigliere Sveva Belviso). Uno strano caso di struttura «a norma» contenuta in una «non a norma» che cozza con la legge (si pensi alla famosa 46\90 che ha imposto lavori d’adeguamento a milioni di condomini in tutto il paese) e che pone seri interrogativi meritevoli di approfondimento. Anche perché comunque anche il Planetario ha avuto bisogno di interventi, come spiega Laura Larcan su «Il Messaggero» del 24 gennaio 2014 a proposito della chiusura del Museo: «Gli ispettori hanno così verbalizzato che le violazioni riscontrate nei mesi scorsi non sono state sanate, ad eccezione dei correttivi al Planetario (tra uscite d’emergenza e segnaletica). Risultato, chiusura del Museo (tranne la sala del plastico) e apertura del Planetario. E c’è già chi scommette che si sia intervenuti per favorire solo il Planetario (visto che fa i numeri) a scapito del museo».

Sui dettagli della gestione degli ultimi 10 anni, durante i quali si sono succedute ben tre diverse amministrazioni (Veltroni, Alemanno, Marino) è il buio. La Soprintendenza capitolina risponde ufficialmente che il sovrintendente Claudio Parisi Presicce «non aggiungerebbe molto alle dichiarazioni» rilasciate al «Corriere della Sera» lo scorso 20 ottobre e dunque non rilascia altre interviste. Vediamole dunque queste dichiarazioni al «Corriere della Sera»: «Sono lavori importanti – ha detto Parisi Presicce a Maria Rosaria Spadaccino – che coinvolgeranno una struttura di oltre 35 mila metri quadrati. Ci vorranno almeno due anni per terminarli dal momento in cui cominciano. In ogni caso stiamo pensando ad una soluzione alternativa per non privare completamente i visitatori del patrimonio museale, ovviamente in un’altra struttura». Questo è quanto. Impossibile dunque conoscere lo stato delle collezioni del Museo, impossibile sapere se i suoi plastici sono stati già dispersi in altre sedi o se i reperti conservati nei suoi giganteschi scantinati (si parla di oltre 600 casse) vengono attualmente messi a disposizione per la digitalizzazione del Google Art Project, come annunciato dall’ex sindaco Ignazio Marino la scorsa estate dopo un incontro a Londra coi vertici dell’azienda. Di sicuro uno dei plastici – quello dello Stadio di Domiziano – è stato già spostato nella sede museale alle spalle di Piazza Navona e comunque è lo stesso Sovrintendente a dichiarare in risposta a un’altra interrogazione sempre presentata dalla Belviso, il 2 aprile scorso, che è stato effettuato «il trasferimento di una serie di reperti e di attrezzature tecniche in altre sedi». Ma di più non è dato sapere. Anche l’ex direttrice, contattata per telefono e poi via email (come espressamente richiesto, perché le domande potessero essere valutate prima di concedere qualunque intervista), non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

E se la Sovrintendenza è laconica, peggio ancora va con gli altri uffici del Comune di Roma. Al Campidoglio – sarà per l’inchiesta «Mafia Capitale», sarà per l’ukase che impone ai dipendenti comunali di evitare qualunque dichiarazione sui media e i social network, sotto pena di sanzioni pesantissime – aleggia un vero e proprio clima di terrore e anche informazioni elementari come quelle sullo spostamento – già effettuato o solo programmato – dei pezzi della collezione diventano una sorta di segreto di Stato su cui nessun dipendente, funzionario o dirigente è disposto a rilasciare informazioni. Neppure nel caso del citato plastico dello Stadio di Domiziano, che chiunque può vedere esposto negli scavi semplicemente passeggiando a piazza di Tor Sanguigna, dietro Piazza Navona, si riesce a sapere più di ciò che è tautologico: «sì, è quello del Museo della Civiltà Romana». Né è possibile avere alcuna informazione circa l’ipotesi di spostamento del preziosissimo plastico di Gismondi, pezzo celeberrimo riprodotto su cartoline e poster, dalla sede attuale al Punto informazioni turistiche (o «Visitor Center» come si dice ora nell’epoca in cui l’ex sindaco Marino ha introdotto un nuovo logo della Capitale con la dicitura in inglese «Rome&You») che deve essere realizzato a piazza Madonna di Loreto, accanto a piazza Venezia, nei locali che prima ospitavano l’Ufficio relazioni col pubblico della Provincia. Una allarmante notizia che è stata data da «Il Messaggero» del 23 gennaio 2015 e su cui non è possibile avere ulteriori informazioni dai responsabili. L’articolo di Laura Larcan cita un promemoria in cui la Giunta dà mandato «alla Sovrintendenza capitolina di attivare le procedure e le iniziative necessarie per l’allestimento del plastico all’interno dell’attuale Visitor Center dei Fori imperiali». Quel che è certo è che facendo capolino nelle sedi aperte al pubblico c’è una vera e propria processione di turisti che chiedono lumi sulla sorte del famoso plastico, per scoprire tristemente che esso è murato in un museo chiuso.

Il destino del Museo della Civiltà Romana è dunque nella mente degli Dei. I fondi stanziati nel 2014 sono stati ritirati secondo la procedura di «armonizzazione» del bilancio comunale una volta che la gara d’appalto si è andata a impantanare negli uffici del TAR. Una volta sbloccata, la gara dovrà attendere la progettazione, l’approvazione del progetto, la realizzazione dei lavori, il collaudo e le pratiche dei Vigili del Fuoco. Tempi biblici. Nel frattempo il museo resterà chiuso, buono solo come quinta teatrale per riprese in esterna (d’altronde l’edificio si presta perfettamente per la sua impostazione scenografica, tanto che il Comune l’ha affittato spesso a produttori cinematografici, l’ultima volta per il capitolo «Spectre» della saga di James Bond). Il Museo della Civiltà Romana resterà una cosa morta nel quartiere più controverso di Roma, dove l’ancora incompiuto, gigantesco e contestatissimo progetto dell’archistar Massimiliano Fuksas detto «la nuvola» sta cannibalizzando i veri capolavori architettonici per arrivare alla sua conclusione. «EUR SpA vende l’Archivio di Stato e tre musei per salvare la Nuvola di Fuksas» – titola il «Corriere della Sera» del 15 maggio 2015, a firma di Ernesto Menicucci) – «Saranno ceduti all’INAIL per 297,5 milioni. Nell’operazione Pigorini, Arti e tradizioni popolari, Alto medioevo: serviranno per chiudere il cantiere infinito del centro congressi». Ai tre musei si aggiunge anche l’edificio dell’Archivio Centrale dello Stato, questione di cui già «Storia in Rete» si è occupata nel n. 107.

Il discutibile progetto della «nuvola», infatti, si è gonfiato nel corso degli anni e ha contribuito al buco di bilancio dell’EUR SpA, l’azienda pubblica che si occupa della gestione e della valorizzazione del patrimonio immobiliare del quartiere EUR di Roma, che ha deciso di vendere il «vecchio» per completare il «nuovo»: «Con quei soldi – continua il «Corriere della Sera» – la società di via Ciro il Grande, attraversata negli ultimi anni prima dai tentativi speculativi dell’era Alemanno, poi da Mafia Capitale, infine da una crisi di “abbandono” da parte dello Stato (che ne detiene il 90%) e dal Comune (azionista col 10%, ma Marino vorrebbe uscire), torna alla normalità». Una normalità che costerà un passaggio di mano a tre musei fra cui il «Pigorini», uno dei musei etnologici più importanti del mondo e custode di collezioni uniche e di incalcolabile valore storico e documentario. Ma quella della vendita del patrimonio dell’Ente EUR è un’operazione che sembra sotto una cappa di segretezza inquietante, come scrive il deputato Fabio Rampelli sulla propria pagina facebook: «ho chiesto l’accesso agli atti al MEF [Ministero Economia e Finanza NdR] sull’EUR e il ministro Padoan mi ha risposto che essendo parlamentare ho lo strumento del sindacato ispettivo. Che però rimane senza risposta. È evidente che i ministri hanno scelto scientificamente di ignorare le interrogazioni». Per fortuna tuttavia la vendita del Museo della Civiltà Romana non è per ora stata inclusa nel pacchetto. Motivo? L’edificio che ospita il Museo della Civiltà Romana infatti è appartenente all’Ente EUR ma è dato in comodato d’uso al Comune di Roma. Questo almeno finché il Campidoglio non dovesse decidere di materializzare lo spettro di uno spostamento e smantellamento di un’istituzione destinata a restare comunque chiusa almeno per altri tre-quattro anni, restituendo così l’edificio all’EUR SpA. Anche nell’Italia delle mille contraddizioni e delle centomila inefficienze, che a Roma sia chiuso e resti chiuso proprio il Museo della Civiltà Romana è davvero una cosa che grida vendetta. Eppure, tutto intorno, è solo silenzio…

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