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Le monetine della Grande Vergogna

Il caso delle monetine lanciate contro Craxi il 30 aprile 1993, spiegato da Filippo Facci nel suo libro

di Francesco Damato da Start Magazine del 2 maggio 2021

Più si legge il libro di Filippo Facci appena pubblicato da Marsilio sul 30 aprile 1993, la giornata delle monetine, e di tutto il resto, lanciate contro Bettino Craxi per un linciaggio per niente improvvisato, visto il contesto ben ricostruito dall’autore, ben al di là degli spiccioli metallici forniti per una ventesima parte dal missino Teodoro Buontempo, e più sconcerta quell’ondata di odio che attraversò il Paese. E che in parte continua ancora a imprigionarlo, a 28 anni di distanza. E a ventuno dalla morte del leader socialista che aveva osato sfidare, più che le leggi sul finanziamento dei partiti, peraltro in buona compagnia, l’onnipotente autoreferenzialità del Pci neppure del già defunto Palmiro Togliatti, ma di Enrico Berlinguer e dei suoi epigoni come Massimo D’Alema e Achille Occhetto.

30 aprile 1993. Bettino Craxi. L'ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica - Filippo Facci - copertina

Mi chiedo ancora come avesse mai potuto tanta gente tutta insieme e per tanto tempo perdere letteralmente la testa per pentirsene solo in parte e dopo molto, a livelli anche altissimi. Come fu quello istituzionale di Giorgio Napolitano: il presidente della Camera che gestì con freddezza burocratica le famose sei votazioni sulle autorizzazioni a procedere contro il leader socialista, di risultati alterni, e attese dieci anni dopo la morte di Bettino per scrivere una lettera su carta intestata del presidente della Repubblica in cui certificare, diciamo così, la “durezza senza uguali” del trattamento riservato giudiziariamente, politicamente e mediaticamente a Craxi. Quelle monetine e tutto il resto della serata del 30 aprile, dopo un’intera giornata contrassegnata in varie parti d’Italia dalla intossicazione del dibattito politico e persino dei rapporti sociali, e un comizio di Occhetto a Piazza Navona come in un avamposto quasi con vista sull’albergo-residenza romana del leader socialista, furono solo l’aspetto più fotografato o ripreso televisivamente, e curiosamente non ritrovato -come ha osservato e documentato Facci- sulla generalità delle prime pagine dei giornali della mattina seguente.

Perché quella omissione, reticenza, autocensura e simili? In un attimo di generosità immeritata dai miei colleghi ho pensato ad un disagio per avere così abbondantemente e incivilmente partecipato alla creazione del clima necessario a quel monumento al linciaggio che fu metaforicamente innalzato la sera del 30 aprile davanti all’hotel Raphael.

Facci ha scritto, fra l’altro, che quella sera “morì la politica”, al minuscolo e non a torto, perché essa aveva già perduto molta della sua lucentezza da tempo: almeno dal 1978 con la gestione del sequestro di Aldo Moro. In difesa della cui vita non a caso quella di Bettino Craxi era stata la sola o la voce più alta levatasi: persino più di Papa Montini. Che aveva pregato “in ginocchio” quei macellai delle brigate rosse di rinunciare all’epilogo tragico del sequestro “senza condizioni”, come forse gli aveva suggerito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e avrebbe desolatamente commentato lo stesso Moro in una delle ultime lettere dal covo in cui era rinchiuso.

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La politica sopravvisse per 15 anni, sino al 1993, solo grazie a Craxi. Che l’anno dopo la morte di Moro, scongelando il Psi dal freezer in cui l’aveva rinchiuso nel 1976 Francesco De Martino, liberò la Dc dalla catena del rapporto col Pci diventato asfissiante proprio con la tragedia Moro. E tornò a garantire in qualche modo la governabilità del Paese, guidandolo personalmente per quattro, faticosissimi anni, dal 1983 al 1987. La fermezza lui l’adottò non per lasciare uccidere un leader indifeso, anzi così mal difeso da poter essere rapito e diventare ostaggio delle brigate rosse, ma per difendere -per esempio- il valore reale dei salari dall’inflazione galoppante che li divorava fra l’indifferenza dei tutori a parole della classe operaia o. più in generale, delle classi più deboli.

L’Italia impazzita del 1993 era quella, fra l’altro, con larghissimo anticipo rispetto ai tempi di Beppe Grillo, che lasciava dire impunemente ad un professore dell’Università Cattolica e “ideologo” della Lega come il senatore Gianfranco Miglio che “il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola”. E il suicidio di un indagato o di un imputato -in sintonia con un magistrato come Gerardo D’Ambrosio- la forma quasi più alta di pentimento, o rimorso.

Aldo Moro nel 1959 aveva trovato Miglio nell’elenco dei consulenti del suo predecessore alla segreteria della Dc, Amintore Fanfani. Egli volle pertanto conoscerlo e rimase tanto scioccato dalle sue proposte di modifica della Costituzione in vigore da soli 11 anni, con tutti i suoi meccanismi di garanzia, che rinunciò ad avere con lui altri incontri. Immagino che nei giorni del sequestro del leader democristiano anche Miglio fosse per la linea della fermezza contestata dal segretario socialista.

Moro e Craxi, come vedete, ancora una volta abbinati, come Facci nel suo libro fa riferendo di quando il premier inglese Blair chiese a Marcello Sorgi perché mai in Italia avessero lasciato morire in quel modo Craxi all’estero, senza permettergli di curarsi libero in Italia. L’ex direttore della Stampa gli rispose che i governi italiani avevano trattato su tutti e con tutto “fuorché con le brigate rosse per Moro e con la magistratura per Craxi”. E’ vero.

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