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Le Guardie Svizzere nella storia d’Italia e d’Europa

di Luciano Garibaldi da Storia in Rete n. 174

La massa, ma soprattutto i giovani, considera in genere le guardie svizzere che accompagnano il Papa nei suoi spostamenti come qualcosa di folcloristico, una tradizione più spettacolare che storicamente rilevante. Si tende infatti ad ignorare che i soldati svizzeri al servizio della Chiesa cattolica hanno avuto un ruolo non secondario nella storia non solo italiana. Dovendo ora affrontare questo argomento storico, la prima cosa che mi sovviene è un mio lontano viaggio di gioventù fatto appositamente per rendere omaggio al «Monumento al Leone» che sorge a Lucerna, in Svizzera, per ricordare l’eroico sacrificio delle guardie di re Luigi XVI che caddero alle Tuileries, a Parigi, durante le infuocate e sanguinose giornate della Rivoluzione francese. E penso, con non minore nostalgia, ai coraggiosi soldati svizzeri che caddero durante la battaglia di Mentana, nel 1867, e a Roma, il 20 settembre 1970, per difendere lo Stato della Chiesa e il Papa Pio IX dall’assalto degli italiani (o dei «piemontesi»?). Sì, l’Italia, la giovanissima Italia appena costituitasi sotto il dominio dei Savoia, avrebbe forse potuto ricorrere ad altri sistemi, non certo ai cannoni, per trovare un modus vivendi con la Chiesa cattolica.

La storia di Roma capitale del Cattolicesimo è sterminata, ma, se vogliamo limitarci agli eventi a noi più vicini, dobbiamo ricordare innanzitutto l’aggressione alla Chiesa e a papa Pio VI portata dai soldati francesi di Napoleone Bonaparte che scorrazzavano per l’Italia piantando nelle piazze delle città gli «arbres de la libérté», incendiando i conventi, violentando le suore, decapitando i frati e defecando sulle ostie consacrate (un episodio per tutti: la strage nell’Abbazia di Casamari). Nei decenni seguenti, il Papa e la Chiesa dovettero sottostare a tutta una serie di attacchi armati, a partire dalla cosiddetta «Repubblica Romana» del 1848, fondata dal triumvirato massonico Mazzini-Armellini-Saffi e sostenuta delle bande armate di Giuseppe Garibaldi, in parte formate da ex terroristi carbonari degli anni Venti e Trenta. Ancora Giuseppe Garibaldi, che non era riuscito nel suo intento di occupare Roma e cacciare il Papa a conclusione della spedizione dei Mille del 1960, vi riprovò sette anni dopo. È del 22 ottobre 1867 il suo discorso ai fiorentini pronunciato in piazza Santa Maria Novella (una targa lo ricorda ancora) nel corso del quale gridò la celebre frase: «O Roma o morte!» (che non pare poi molto diversa da quella detta non molto tempo fa da non ricordo più quale mujaheddin dell’Isis). Organizzato il suo quartier generale a Vinci, in due ville messe a sua disposizione da ricchi miliardari massoni fiorentini (Firenze è da sempre la capitale della massoneria italiana al servizio dell’Inghilterra), nel giro di un mese, coadiuvato dai figli Ricciotti e Menotti, mise in piedi un’armata che doveva, appunto, conquistare Roma e cacciare definitivamente il Papa (proprio come hanno in programma, ai tempi nostri, l’Isis e Al Qaeda).

Ma, ahimè, il 3 novembre di quel 1867, a Mentana, trovò la strada sbarrata dalle guardie svizzere al servizio del Papa e dai francesi, che, armati dei modernissimi fucili «Chassepots», ovviamente facevano i loro interessi (interessi, all’epoca, antibritannici). Fu un combattimento durissimo e vinsero i «papalini». Altri tempi, certamente. Il Papa poteva contare, in quell’occasione, su diecimila soldati svizzeri, mercenari in quanto stipendiati, ma, da che mondo è mondo, la parola «soldato» non ha altro significato che «assoldato», cioè compensato con i soldi. Fu solo la Rivoluzione Francese, non dimentichiamolo mai, a inventare la «leva» obbligatoria, spaventosa moltiplicatrice di guerre. Per fortuna, dopo oltre due secoli, siamo usciti da quella follia criminale e, grazie a Dio, almeno nel mondo occidentale, sono tornati i soldati pagati. E pagati bene. Per combattere, per vincere e, se occorre, per morire. Sempre per ripercorrere a grandi linee la storia recente dei soldati del Papa (lasciamo stare i secoli passati, altrimenti non la finiremmo più), ricordo che, durante l’assalto a Roma del 20 settembre 1870, il Papa poteva contare su 15 mila svizzeri, che tuttavia – per un preciso ordine giunto dall’alto allo scopo di evitare uno spaventoso spargimento di sangue – non fermarono i soldati di Cadorna, diversamente da quanto aveva fatto il generale Kanzler tre anni prima a Mentana.

Ma torniamo a Napoleone e ai soldati svizzeri che prima avevano difeso la monarchia francese e poi difesero la Chiesa. Scrivo queste righe non per tessere i loro elogi, ma per dare loro ciò che loro spetta: cioè la verità storica. La Rivoluzione francese e le successive guerre napoleoniche cambiarono la faccia dell’Europa. L’invasione di Napoleone fu un momento decisivo anche nella storia della Svizzera. La Francia e la Confederazione Elvetica avevano coltivato rapporti molto stretti durante quasi tre secoli. In quei trecento anni, i cantoni svizzeri fornivano mercenari per difendere la monarchia francese. Molte guardie svizzere furono uccise al Palazzo delle Tuileries nell’agosto del 1792 quando cercarono d’impedire l’arresto della famiglia reale. Il massacro provocò orrore e costernazione in Svizzera e in memoria delle guardie fu successivamente eretto a Lucerna il monumento in loro onore di cui ho parlato all’inizio. Sul sito svizzero swissword.org ho trovato questa drammatica testimonianza di un ufficiale svizzero, J. B. Good, scampato al massacro. Si tratta di una lettera scritta ai suoi fratelli il 3 settembre 1792. Vale la pena leggerla: «Delle persone dissero che sulla piazza fuori dalle Tuileries si era radunata una folla. Poi ci giunse la notizia che le guardie svizzere avevano aperto il fuoco contro le masse. Le donne nella casa erano le nostre messaggere. Una ci informò che il palazzo reale stava bruciando. Poi mia moglie, tornata dal mercato, mi raccontò che la gente stava trascinando per le strade i corpi mutilati degli svizzeri. Tutte le volte che qualcuno passava con il corpo mutilato di una guardia svizzera, la gente esclamava: “Bravo! bravo!”… Non so cosa fare. Mi raccomando a Dio onnipotente. Dubito, cari fratelli e care sorelle, che possiate un giorno leggere questa lettera. Non posso mandarla per posta e quando sarò morto nessuno sarà in grado di portarvela. Pregate Dio per noi! Addio e non addoloratevi troppo».

Good riuscì a salvarsi. Ovviamente, le guardie svizzere di papa Francesco, così come quelle dei pontefici che lo hanno preceduto, sono tutt’altra cosa rispetto al passato. Hanno ricevuto una formazione e un’educazione diverse. Non sono armate di mitra a canna corta ma di pittoresche e teatrali alabarde. E non seguono il Papa nei suoi viaggi all’estero. Quei viaggi, i romani pontefici li fanno perché amano la pace e amano l’umanità.

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