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Italia coloniale

Italia e Africa: a Torino una mostra faziosa ricca di approssimazioni ed errori

Una società equa e realmente libera dovrebbe passare anche attraverso la restituzione della storia in modo corretto e onesto. Solo includendo nella nostra visione e conoscenza della storia tutte quelle opere e persone che sono state cancellate o dimenticate potremo cambiare il nostro modo di guardare il presente e soprattutto il nostro futuro. Dovrebbe…

Infatti visitando a Torino la mostra “Africa. Le collezioni dimenticate” definita dalla direttrice dei Musei Reali Enrica Pagella “una mostra di storia” si rimane sconcertati dagli innumerevoli errori, dalle dimenticanze partigiane e dalle omissioni ideologiche. Un’esposizione totalmente da rivedere. Da chiudere.

L’intero percorso espositivo nega totalmente il quadro generale di un fenomeno complesso come quello del colonialismo liquidandolo semplicisticamente come “un secolo di violenza, di razzismo, di sfruttamento e di spoliazione”. La colonizzazione dell’Africa viene presentata, quasi con un sorte di compiacimento imbarazzante, come un’opera sanguinaria di invasori e sfruttatori. Nessuna ricerca ma il solito cliché antistorico che per decenni ci ha imposto una visione estremamente manipolata. Innumerevoli nomi, opere ed eventi sono stati cancellati dalla mostra. Documenti storici fondamentali sono stati alterati quando non nascosti.

Lo speciale di Storia in Rete sul colonialismo italiano è disponibile in pdf (da scaricare subito) cliccando qui

All’entrata il pannello Contro l’oblio ci introduce alla “mostra che affronta il tema della colonizzazione italiana dell’Africa” specificando che fu “per i popoli africani, un secolo di violenza, di razzismo, di sfruttamento e di spoliazione”. Le solite esagerazioni tipiche di chi non desidera informare ma convincere. La prima parte della messa in scena infatti è dedicata al Congo belga, che mai fu colonia italiana, ma… belga appunto. Dal 1908, anche se un pannello riporta erroneamente “1906”.

Le barbarie belga: “donne e bambini con le mani mozzate”, “atroci violenze” e “lavoro forzato” vengono utilizzate come transfert tra il pannello introduttivo e l’esposizione di foto e storie di tecnici italiani (Gariazzo, Sesti e Ravotti) che prestarono la loro professionalità nel campo ferroviario al Belgio, non al Regno d’Italia. Invece che essere presentati come un’eccellenza esportata vengono associati a soprusi come si legge in un altro pannello: “un sistema di spoliazione delle risorse umane e naturali tra i più crudeli e violenti dell’epoca, fondato sul lavoro forzato […]. Numerosi furono gli italiani impiegati nell’amministrazione belga…”. Una presentazione decisamente poco equilibrata.

Si prosegue con la sezione Esploratori, avventurieri e consoli. Nel pannello dedicato a Vincenzo Filonardi: “iniziatore della penetrazione economica e politica dell’Italia dell’Oceano Indiano” nel quale si dimentica di precisare che i “diversi accordi di protettorato sulla costa della Somalia” furono sottoscritti dietro pagamento di un canone annuo con i sultani locali. Si dimentica anche di informare i visitatori che Filonardi liberava in Somalia i primi schiavi già nel 1893. Non si precisa nemmeno che “i porti somali del Benadir, sulla costa meridionale della Somalia” vennero anch’essi dati in locazione all’Italia non dai somali ma dal Sultano di Zanzibar, proprietario della regione.

Colonizzare la montagna: “Il Rwenzori” è il titolo del pannello successivo. Imbarazzante: la spedizione del 1906 del Duca degli Abruzzi viene trasformato in colonialismo virtuale. Siamo al colonialismo simbolico ora.

Dalla spartizione dell’Africa all’aggressione coloniale. Il titolo contrasta ridicolamente con la seconda riga: “con l’acquisto della baia di Assab (1882) e della città portuale di Massawa (1885)”. I noti acquisti aggressivi! Come le locazioni prepotenti del Filonardi. Non indaga minimamente la storia e le teoria della legittimità del possesso coloniale.

Segue la sala con le foto che “potrebbero urtare la vostra sensibilità”, avverte un cartello all’accesso di un ambiente con pannelli totalmente neri, prima erano verdi come le rigogliose lande africane, ora neri come la morte.

Schiavitù e tratta degli schiavi. Quella degli africani ai danni di altri africani. Ma ci si deve soffermare a leggere l’intero pannello, per scoprire solo in fondo che questa pratica disumana venne abolita dai paesi europei “in concomitanza con l’avvento del colonialismo”. Ma non era stato “un secolo di violenza?”

Unioni e collaborazioni. Si denigrano gli africani che collaborarono con i colonizzatori perché avidi, erano cioè “mossi da interessi legati al prestigio e all’ascesa sociale”, un simpatico giro di parole perché scrivere “negro da cortile” di malconiana X memoria pareva brutto. Il pannello conclude senza spiegare come il “madamato” fosse un’antica tradizione consuetudinaria etiope: il matrimonio per mercede, il dämòz (affitto), una forma di unione regolata e retribuita con un assegno annuo con divorzio previo pagamento di tanti dodicesimi dell’assegno annuo quanti erano stati i mesi di convivenza della donna con il marito. Un TFR cioè.

Le armi chimiche. Il pannello descrive l’impiego delle armi chimiche durante la Guerra d’Etiopia. Onta grave, senza dubbi. Impiego autorizzato però dopo la morte del pilota Tito Minniti che, abbattuto dalla contraerea etiope, fu catturato evirato e decapitato. Ma questo non lo si scrive perché potrebbe “urtare la vostra sensibilità” e perché, in fondo (ma non troppo), se lo meritava l’invasore. Giusto? E poi l’Etiopia mica aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra sul trattamento umanitario dei prigionieri di guerra. Così come non aveva sottoscritto la convenzione del 1928 per la messa al bando delle armi chimiche.

Violenze in Libia. “Nei campi di concentramento muoiono migliaia di civili, deportati dalle zone fertili della Cirenaica per garantire terre ai coloni italiani”.

Il pannello non precisa che l’istituzione dei campi di concentramento, per ribelli e non certo per contadini come riportano, risale ad un Regio Decreto del 17 luglio 1922 (tre mesi prima dell’avvento del fascismo) firmato da Giovanni Amendola ministro delle Colonie del governo Facta, liberaldemocratico, già socialista e repubblicano e padre del futuro leader comunista Giorgio. Fu Amendola a imporre il pugno di ferro per la riconquista e pacificazione della Libia in due suoi discorsi in Senato (1/4/22 e 22/6/22).

La macabra immagine ha il chiaro intento di essere archetipica del colonialismo, dimenticando che all’epoca anche in Italia le manifestazioni di dissenso venivano represse nel sangue: Bava Beccaris prese a cannonate i milanesi che chiedevano pane mentre gli operai che lavorarono al traforo del Gottardo vennero presi a fucilate perché scioperarono.

Haile Selassie e il panafricanismo. Sotto l’immagine dell’Imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè si riporta che “il movimento panafricanista promuove l’unità e la solidarietà tra afrodiscendenti e africani del continente, accomunati dall’esperienza della schiavitù, della colonizzazione e del razzismo”. Però i curatori della mostra si sono ben guardati dal precisare che in Etiopia lo schiavismo fu abolito nel 1935 dai fascisti (e colonialisti), mentre fu proprio Selassiè ad essere uno schiavista, come denunciato da più voci internazionali.

Ad esempio l’ 8/4/1932, il Segretario Parlamentare John H. Harris osservò che: “Non credo che il nuovo Imperatore sia in grado di conoscere il numero degli schiavi che possiede. A centinaia essi si contano dentro i recinti delle sue terre”. Mentre il 9/4/1932, Lord Noel Buxton disse: “La schiavitù in Etiopia va di pari passo con l’assenza di ciò che noi chiamiamo un regime di governo”. Da ricordare anche quanto scritto nel 1933 da Katleen Simon, in “Slavery”: “L’Etiopia è la regione più arretrata del mondo e colà il problema della schiavitù è urgente”. Infine, il 17/7/1935, ancora Buxton: “l’Etiopia è ancora il principale centro della schiavitù del mondo”.

L’Indipendenza. Una bella foto di un colonizzato italiano? D’altronde la mostra “affronta il tema della colonizzazione italiana” dicono all’entrata. E invece no: “Patrice Lumumba primo ministro del Congo, 1960”. Ancora il Congo che non fu mai una colonia italiana. “Il 1960 è identificato – si legge – con l’anno dell’Africa perché diciassette paesi dichiarano l’indipendenza”. Un veloce accenno alla lotta che fu solo “talvolta armata dei movimenti nazionalisti” nelle colonie inglesi, francesi e portoghesi dimenticano che invece il decolonialismo fu contrassegnato da eccidi, rappresaglie e barbarie inenarrabili.

E l’Italia? Non pervenuta! Nemmeno un accenno all’AFIS “Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia”  (1950-1960). In Somalia la decolonizzazione avvenne in maniera assolutamente pacifica  tant’è che gli italiani vi rimasero a lavorare e vivere fino alla guerra civile del 1991. L’AFIS fu l’unico caso di amministrazione fiduciaria assegnata dalle Nazione Unite ad uno stato sconfitto nella seconda guerra mondiale e per di più su richiesta specifica del popolo somalo.

Proiezione video. Tra i classici video dell’Istituto Luce emerge un documentario sulla ferrovia somala (nessun accenno sulla sua costruzione ed esercizio) e il Villaggio Duca degli Abruzzi, realizzato in Somalia da Carlo Pedrini. Chi scrive, per motivi di ricerca questo video lo ha visionato interamente ed ha potuto notare come per la mostra sia stata tagliata la parte in cui il Duca degli Abruzzi paga i dipendenti somali, impiegati con regolari contratti.

Segue un’immagine a tutta parete del Principe Umberto in vista in Libia. In piccolo un minestrone tra la guerra italo-turca (1911-1912), i campi di concentramento (1922), le varie fasi della riconquista, pacificazione e operazioni di polizia coloniale (1921-1932), per giungere poi al governatorato di Italo Balbo dal 1934 con la chiusura dei campi di concentramento (ma non si dice). Il pannello non ha spazio a sufficienza per riassumere più di trent’anni di storia coloniale della Libia, quindi semplifica: “brutale repressione – muoiono migliaia di civili – deportati – violenta eredità”. Chiuso. Non perdiamo tempo, mica con una mostra si vorrà fare come i fascisti nei “campi di rieducazione”: educare (chi ha pagato il biglietto).

Sconcertante come l’immagine dell’eroe Omar el Muktar capo della resistenza libica (quello portato sulla divisa da Gheddafi in visita in Italia nel 2009) viene indicato in didascalia come “vecchio arabo”.

Archeologia italiana in Libia. Eccola qui la deprecabile “spoliazione” annunciata all’ingresso della mostra che fa però a pugni con “scavi sistematici” e “adozione di provvedimento di tutela analoghi a quelli vigenti in Italia e volti a impedire gli scavi abusivi e il commercio abusivo dei reperti”. Un fattore positivo? No figurarsi: fu solo propaganda fascista per “alimentare la retorica di un glorioso ritorno alla romanità”. Pensate: una propaganda così retorica che in Italia, e lo dice un altro pannello, fu portata solamente la Venere di Cirene. Null’altro. Per tutti gli altri reperti, lasciati in situ, vennero costruiti musei apposti da Leptis Magna a Sabratha, a Tripoli. Ma di questi musei non v’è traccia nei pannellini. Non c’era spazio. Troppo piccoli.

Somalia. Si, questa fu una nostra colonia. Quella affittata nel 1889 ma nessuno a inizio del percorso ve l’ha detto. La Somalia si caratterizza per “la nascita di forme di colonizzazione agricola: la S.A.I.S. di Luigi Amedeo Duca degli Abruzzi”. La S.A.I.S.  per chi non lo sapesse, e a chi ha scritto il pannello non frega nulla che lo sappia, fu la “Società Agricola Italo-Somala” appunto fondata a diretta dal Duca degli Abruzzi. Fu l’industria più fiorente di tutta la Somalia che sopravvisse fino al 1991. E non interessa, ma lo spazio pannellistico, si sa, è tiranno, che il Duca degli Abruzzi è ricordato soprattutto per aver studiato e applicato un nuovo contratto di lavoro definito “strumento apprezzabile di progresso civile sociale ed economico a beneficio dei lavoratori interessati”  durante la conferenza internazionale sul lavoro di Parigi del 1935. Il pannello riporta successivamente: “l’impianto di Genale di Cesare Maria De Vecchi, gestito ricorrendo a soprusi come le punizioni corporali e il lavoro coatto”. Siamo al limite della calunnia. Le concessioni agricole di Genale non erano di de Vecchi bensì governative, cioè dello stato, suddivise in 83 concessioni assegnate a coloni italiani. E contrariamente agli abusi che definiscono de Vecchi come uno schiavista, il Governatore si spese a contrastare per anni la schiavitù, come da circolare del 14 Giugno 1926: “in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri […] graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba”. Sono testimoniate (non nella mostra ovviamente) le minacce dello Sheikh Hassan Bersane che condannò l’ordine governativo e reclamò il diritto di opporsi all’abolizione della schiavitù: “Tutti i nostri schiavi sono fuggiti e passati dalla sua parte e lei ha dato l’ordine di liberarli. Quest’azione non ci rende felici” (M.I. Trunji, Somalia – The untold history, ‎Looh Press, 2015).

La mostra appena entrata nel clou volge invece quasi al termine, nulla ad esempio sulle splendide architetture italiane di Asmara sito Unesco.

Chiesa etiope. Pannello che illustra succintamente la storia dei cristiani ortodossi in Etiopia. Chiesa che “si mantiene ostile all’occupazione coloniale italiana, subendo brutali rappresaglie culminate nel massacro di centinaia di monaci del convento di Debra Libanos trucidati nel 1937 per ordine del Generale Graziani”. Il numero, ignorato nel pannello, venne comunicato tramite telegramma dello stesso Viceré (che erroneamente viene chiamato qui “Generale”): giustiziati 297 monaci e 23 laici sospetti di connivenza. Nei giorni successivi vennero poi fucilati 129 diaconi. Le vittime di Debra Libanos non sono da confondere con il cosiddetto “massacro di Addis Abeba”, non citato nel pannello,  avvenuto nell’immediatezza dell’attentato sul quale gli storici non sono ancora concordi sull’esatto numero. Ma Graziani ordinò una strage solo per antipatia? Ovviamente no.

Era la mattina del 19 febbraio 1937 quando il Viceré subì un attentato da parte della resistenza locale, durante una manifestazione pubblica per la distribuzione di denaro ai poveri di Addis Abeba. Nell’attentato morirono 7 persone di cui 5 indigeni, i feriti furono una cinquantina, tra cui lo stesso Graziani, l’abuna Cirillo e l’ex ministro etiopico a Roma Ghevre Jesus Afework. Ecco quindi spiegata, non nel pannello, il motivo della dura repressione: gli attentatori erano fuggiti  trovando rifugio nella città conventuale di Debra Libanos dove si nascosero per fuggire alla cattura.

Tra gli ultimi pannelli etiopi troviamo quello sbrigativo Etiopia: l’occupazione militare. Qui Generale De Bono diventa DEL Bono, sul quale ci si affretta a dire che venne sostituito “con Pietro Badoglio” il gasatore, ma si glissa sul fatto che fu il promulgatore il 14 ottobre 1935 del bando di soppressione della schiavitù nel Tigrè, regione dell’Etiopia appena conquistata.

La mostra termina con la suggestiva opera The Smoking Table dell’artista etiope Bekele Mekonnen.

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