Il numero di agosto del mensile “Focus Storia” dedica copertina e dossier centrale ad un tema evergreen: “Chi ha ucciso Mussolini?”. Dopo essersi fatta la domanda, la giornalista che cura il servizio principale, Maria Leonarda Leone, si affida, per la risposta, ad uno storico. Deve aver cercato con cura perché è andata a scovare Amedeo Osti Guerrazzi, «storico del fascismo, saggista e docente all’Università di Padova». Guerrazzi ha il “pregio” di non aver probabilmente mai scritto una sola riga sui fatti di Dongo e dintorni, fatti sui quali dimostra una conoscenza decisamente approssimativa. Per di più inquinata da pregiudizi come quello secondo il quale chi si voglia allontanare dalla cosiddetta “versione ufficiale” è un negazionista e/o un “ex fascista” pronto a «creare miti e contraddizioni sulla morte del duce, per difendere la sua immagine e il retaggio storico del fascismo». Ora, sarebbe bello che qualcuno riuscisse a spiegare il filo logico di certe affermazioni: dire che Mussolini fu ucciso in un posto piuttosto che in un altro, ad una certa ora piuttosto che ad un’altra, significa davvero non solo “difendere” la sua immagine ma anche riabilitare oltre vent’anni di governo dittatoriale? Passando dai ragionamenti iperbolici alla basicità assoluta Osti Guerrazzi poi porta indietro di decenni le ricerche e gli studi sulla fine di Mussolini sentenziando che «la verità è che a uccidere Mussolini fu il “colonnello Valerio”, l’uomo inviato da Milano a prelevare Mussolini e la Petacci per fucilarli». Una Petacci, tra l’altro, uccisa non per caso ma in base ad una “precisa sentenza”, come ha scritto in un recente libro Mirella Serri (di cui ci siamo già occupati tempo fa). La tesi, risibile, della Serri che “Focus” cita in un articolo di Federica Campanelli, è che i partigiani vollero la morte di Claretta per «la sua intensa collaborazione con i politici e i militari del Reich». Una “collaborazione” che ci fu ma che all’epoca i partigiani del comasco non potevano certo conoscere.
Impossibile qui ricostruire un quadro complesso come quello dei fatti avvenuti tra Dongo e Giulino di Mezzegra tra il 27 e il 28 aprile 1945: del resto l’abbiamo già fatto in uno Speciale di “Storia In Rete” proprio dedicato a “Gli ultimi giorni di Mussolini”. Lì sono indicati molti dei motivi che inducono a ritenere che l’intera narrazione sull’arresto, la detenzione e l’uccisione del dittatore vada rivista alla luce di testimonianze e riscontri emersi nel corso degli anni e che sovente vengono trascurati o ignorati da chi si avventura in una storia molto complessa che non fa sconti al dilettantismo. La riprova la si ha quando Osti Guerrazzi “liquida” la teoria della “doppia fucilazione” (Mussolini ucciso nella casa dove era detenuto, Casa De Maria, e poi rivestito e trasportato cadavere davanti a Villa Belmonte per una sceneggiata che doveva coprire le imbarazzanti circostanze in cui era morto) rifacendosi indirettamente – così suggerisce l’autrice dell’articolo – ad un libro del noto anatomopatologo Pierluigi Baima Bollone, già titolare di cattedra di Medicina Legale all’Università di Torino. «Che la sparatoria a Villa Belmonte sia stata solo una messinscena è, tra tutte, l’ipotesi meno credibile – nota Osti – Non c’è alcun tipo di prova a confermarla, solo testimonianze raccolte 50 anni dopo i fatti e alcuni aspetti dell’autopsia del duce che sono stati chiariti, più di recente, da analisi scientifiche». In realtà, come scrive Leone a commento delle dichiarazioni di Osti Guerrazzi, gli accertamenti di Baima Bollone riguardavano una vicenda ormai sorpassata e cioè il dibattito sulla presenza o meno di residui di cibo nello stomaco di Mussolini: se fossero stati rinvenuti si avvalorava la versione dei coniugi De Maria che asserirono di aver dato da mangiare latte, pane, polenta e salame ai due prigionieri la tarda mattina del 28. Poche ore dopo sarebbe sopraggiunto Valerio con i suoi uomini e avrebbe proceduto all’esecuzione alle 16,10 davanti al cancello della non lontana Villa Belmonte. Se invece, come pare, quei residui di cibo non si sono trovati ecco che la tesi di una morte avvenuta ben prima dell’orario riferito da “Valerio” può trovare un importante riscontro. Ma tutto questo – dopo anni di dibattiti – è stato definitivamente superato dalla perizia (che Baima Bollone non poetva conoscere quando pubblicò, a inizio 2005, il suo “Le ultime ore di Mussolini”, Mondadori) curata tra il 2005 e il 2006 da un anatomopatologo non meno titolato di Baima Bollone: il professor Giuseppe Pierucci dell’Università di Pavia. Il gruppo di ricerca guidato da Pierucci, avvalendosi di tecniche di analisi digitali avanzatissime, ha stabilito che Mussolini fu ucciso mentre era svestito, con solo una maglia di lana e i pantaloni. E poiché gli indumenti che indossava a Piazzale Loreto non presentavano fori di proiettile è facile dedurre che il suo cadavere fu rivestito prima di essere spostato da Casa De Maria. Da qui l’ipotesi di una “doppia fucilazione” inscenata successivamente da un “Valerio” evidentemente costretto a mettere una pezza ad una situazione imprevista. Un’ipotesi già avanzata negli anni Cinquanta – altro che testimonianze di 50 anni dopo… – da un giornalista molto ben informato che si chiamava Bruno Spampanato e poi corroborata da testimonianze e riscontri all’inizio degli anni Settanta dal giornalista-storico Franco Bandini. Successivamente le intuizioni di Bandini sono state suffragate da varie testimonianze – “Focus” accenna solo ad un memoriale emerso nel 2002 che attribuisce al partigiano Alfredo Mordini l’uccisione, forse involontaria, di Mussolini durante una collutazione. Ipotesi avanzata anche questa in precedenza da un altro medico legale di grande esperienza, il romano dottor Aldo Alessiani, che già a fine anni Ottanta aveva consegnato a Renzo De Felice un dettagliato studio nel quale aveva condensato anni di ricerche. Negli anni altre testimonianze sono emerse, tutte concordi nell’indicare un gran trambusto, via vai di molte persone, urla e colpi d’arma da fuoco intorno e dentro Casa De Maria fin dal primo mattino del 28 aprile 1945. Tra le rivelazioni più importanti sicuramente la testimonianza di Dorina Mazzola (vicina di casa dei De Maria) raccolta a inizio anni Novanta da Giorgio Pisanò e il memoriale inedito (ne abbiamo parlato diffusamente su “Storia In Rete” n. 195, novembre-dicembre 2022) di un partigiano protagonista indiscusso di quelle ore: Luigi Canali alias “Capitano Neri”. Tutte cose – insieme a molte altre – che chi viene chiamato a parlare di quel tema dovrebbe conoscere. Così come chi vuol fare della divulgazione giornalistica di buon livello.
Gentile Fabio Andriola, buongiorno. Sono Federica Campanelli, giornalista di Focus Storia, da te “tirata in ballo” nel pezzo “Focus Storia si sopravvaluta e inciampa su Dongo e dintorni”, pubblicato su storiainrete lo scorso 9 agosto (https://storiainrete.com/focus-storia-si-sopravvaluta-e-inciampa-su-dongo-e-dintorni/). Ebbene, in tale tuo (ti do del tu in qualità di collega) articolo, appare scritto:
Una Petacci, tra l’altro, uccisa non per caso ma in base ad una “precisa sentenza”, come rivela in un altro articolo Federica Campanelli che si rifà ad un recente libro di Mirella Serri di cui ci siamo già occupati tempo fa. La tesi, risibile, della Serri che “Focus” riprende è che i partigiani vollero la morte di Claretta per «la sua intensa collaborazione con i politici e i militari del Reich».
… solo che io non mi rifaccio affatto alla tesi di Serri, ma semplicemente la riporto tra le altre, definendola tra l’altro “controversa” (e quindi implicitamente non abbracciandola). Ecco quel che scrivo:
Una biografia del 2021 a firma della giornalista Mirella Serri,[…] sostiene infatti la controversa tesi per cui l’amante numero uno del duce fosse invischiata fino al collo con i tedeschi.
Nel tuo pezzo riporti anche un virgolettato (“precisa sentenza”) che io non ho mai scritto.
Per tutto questo, ti chiedo di rettificare tempestivamente il testo in questione, in modo tale che il lettore non confonda le opinioni di Serri con le mie (opinioni che, da brava giornalista, tengo per me, limitandomi appunto nel pezzo a riportare le ipotesi di altri, Serri inclusa). Altrimenti, è evidente che stai subdolamente (seppure magari non volontariamente) mettendomi in bocca parole non mie, denigrando così il mio lavoro. Cosa non corretta.
In attesa di riscontri (e di dovute correzioni),
Gentile Collega, ho preso atto della tua precisazione e ho corretto il testo in modo che sia ben chiaro che il concetto di “chiara sentenza” era in realtà la “sintesi” di un passaggio del libro di Mirella Serri – ripreso nel tuo articolo tra virgolette – e non “farina del tuo sacco”. Vale sempre la vecchia regola che quando un testo non viene inteso correttamente è più probabile che la colpa sia di chi scrive e non di chi legge.
Detto questo, vengo all’altra questione che poni e cioè l’uso della forma “si rifà” che tu contesti osservando che “io non mi rifaccio affatto alla tesi di Serri, ma semplicemente la riporto tra le altre, definendola tra l’altro “controversa” (e quindi implicitamente non abbracciandola)”.
Per essere precisi tu definisci “controversa” la tesi secondo la quale “l’amante numero uno del duce fosse invischiata fino al collo con i tedeschi”. In realtà questa tesi non è assolutamente controversa ma pienamente condivisibile e stra-provata da lettere e intercettazioni telefoniche. Quella che io contesto a Serri (nel suo libro a pag. 12) è la asserzione che quei rapporti con i tedeschi fossero “uno dei capi di imputazione formulati dai partigiani quando le ordinarono di mettersi vicino al muro di Villa Berlmone”. Quasi si fosse trattatato di una esecuzione normale con tanto di sentenza pronunciata e non di una sparatoria a bruciapelo, magari avvenuta altrove e in altro momento. Senza contare che per i partigiani Clara non era così famosa e fece la fine che fece solo perché era con Mussolini (che avrebbe volentieri fatto a meno della sua presenza già nei giorni precedenti). Il punto comunque è che tu precisi di aver riportato le parole della Serri insieme ad altre versioni. In realtà – a proposito della morte (che il punto sul quale stiamo dibattendo) – tu citi diffusamente solo le parole della Serri (sei righe tra caporali) mentre in precedenti accenni solo alla tesi del nipote di Claretta che ha sostenuto (senza nessuna prova concreta e nessun seguito) che la zia era stata uccisa dagli inglesi (due righe scarse). Per il resto di altre versioni sulla morte della donna nel tuo pezzo non ne ho lette eccezion fatta per la “versione ufficiale” di Valerio/Audisio citata in testa all’articolo. Ora, tu mi insegni che se in un articolo si dà particolarmente rilievo ad una testi a scapito di altre può significare che chi scrive la ritiene più interessante e meritevole di particolare considerazione. Questo spiega il passaggio che ti ha infastidit0. Ho sbagliato ad interpretare le tue parole? Forse. Ma qui torniamo alla regola che citavo prima e che vale per tutti, inclusi i “bravi giornalisti”: “quando un testo non viene inteso correttamente è più probabile che la colpa sia di chi scrive e non di chi legge”.