HomeIn primo pianoCon la cultura si mangia ovunque. Tranne che in Italia

Con la cultura si mangia ovunque. Tranne che in Italia

«Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia», disse Giulio Tremonti quando era ancora ministro dell’Economia. Eppure nel resto del mondo la situazione è ben diversa. Dai paesi emergenti, come Cina o Qatar, dove il mercato dell’arte è florido, all’Europa del Louvre o il Prado di Madrid. E l’Italia? Non riesce a fare sistema, scrive l’archeologo Manlio Lilli, nonostante lo sterminato patrimonio che amministriamo.
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di Manlio Lilli da Linkiesta del 7 marzo 2012 Home
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Ci sono soldi, artisti, collezionisti, aste, intermediari e fiere. E, naturalmente, i musei ma vuoti o quasi. È la Cina. Il paese ha un mercato dell’arte molto vivace e sembra vivere una condizione opposta rispetto a quella dell’Occidente, dove i musei raccolgono le opere, le ordinano e le preservano, offrendo al visitatore narrazioni e modelli. Nella Repubblica Popolare si registra un paradosso. I musei si moltiplicano, ma inseguono ancora formule per diventare realtà significative, pur continuando a scontare una crescita poco spontanea: sono prodotti di un boom edilizio ed urbanistico che ha sostenuto la rapida crescita cinese.

Sono anche strumenti del potere esercitato dalle leadership locali per disegnare nuovce città: dal museo di Ordos, nella Mongolia interna, a quello di Suzhou, dal progetto di Qingchengshan, in Sichuan, al museo del Jiangsu a Nanchino. Il punto di partenza é: “i musei pubblici non hanno denaro. Non potranno mai mettere insieme una vera collezione”. Proprio per questo hanno trovato spazio forme ibride fra mecenatismo e investimento come l’Art Museum fondato dalla Banca Minsheng a Shanghai. Se però in Cina sembra mancare un’idea complessiva per i grandi spazi espositivi, dato che molti non hanno collezioni proprie ma si limitano ad ospitare mostre, in Qatar, esteso quanto l’Abruzzo, l’anno scorso si è registrato il maggior numero di acquisti di arte contemporanea al mondo.

Musei che hanno lo skyline di sculture, realizzati dai più autorevoli progettisti mondiali. Sono spazi espositivi che contribuiscono a definire l’identità urbana del Qatar. Primo fra tutti il museo d’arte islamica, gratuito ed aperto dal giovedì al sabato fino a sera. Disegnato da I. M. Pei a forma di ziggurat, su un’isola artificiale nella Baia di Doha, a 60 metri dalle Corniche, con un’estensione di circa 35 mila metri quadri, custodisce manoscritti, ceramiche, tessuti, provenienti da Spagna, Iran, Turchia e Cina. Intorno al Museo un parco concepito come un’estensione dello spazio espositivo, nato per ospitare sculture.

Mentre Cina e Qatar costruiscono spazi espositivi che sono di per sé monumenti, non semplici luoghi per raccogliere e presentare opere d’arte, negli Stati Uniti é in crescente espansione il fenomeno delle home galleries. Si tratta di case, town-house e loft che vengono trasformati in spazi espositivi con l’intento di tagliare i costi di affitto. Location nelle quali si supera ogni confine tra dimensione estetica e sfera privata.

Problemi uguali, ma differenti s’incontrano nella vecchia Europa dove, al contrario di Cina e Qatar, non mancano opere da esporre, ma semmai, ci si trova ad affrontare il problema opposto, quello della grandissima quantità di opere, con il rischio, spesso, di non riuscire a dargli la giusta collocazione. Soprattutto, in Europa i costi di gestione nella gran parte dei casi non trovano copertura nel ricavato degli ingressi. Nonostante nuove strategie, in controtendenza rispetto a quanto si potrebbe pensare in tempi di crisi, abbiano permesso un incremento delle cifre.

Dai numeri diffusi a fine 2011, forse l’arte non darà da mangiare, ma sembra essere più “nutriente”. Se il Louvre raggiunge il record degli 8,8 milioni di visitatori e diventa il museo più frequentato, gli Uffizi di Firenze toccano 1 milione e 700 mila biglietti d’ingresso. E persino la Grecia, in dificoltà per la crisi finanziaria, ha registrato un incremento del turismo culturale del 10% rispetto al 2010. Sembra un paradosso ma non lo é: sono proprio i Paesi più colpiti dalla crisi che riempiono i musei. Come la Spagna, ad esempio, che ha visto crescere i visitatori del Thyssen-Bornemisza del 30% e al Prado si sono raggiunti i 3 milioni. Un trend rilevabile non soltanto nei grandi Musei ma anche negli altri. Come il Museo Van Gogh di Amsterdam dove sono stati venduti, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente, 1 milione e 500 mila biglietti. Oppure come a Palazzo Vecchio di Firenze dove gli ingressi sono stati 500mila. Fino al più piccolo Museo archeologico del Chianti Senese dove comunque sono stati superati i 10mila ingressi.

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A questa rivitalizzazione del settore é più che probabile che abbia contribuito l’organizzazione di mostre e iniziative collaterali, che danno visibilità alle opere anche quando non sono parte di esposizioni proibitive, con allestimenti milionari. All’inizio del 2011, presso la Fondazione Antonio Ratti di Como, sono state presentate le ricerche fatte dal centro Ask dell’Università Bocconi nel corso degli ultimi cinque anni. La sintesi è chiara e preoccupante. Le realtà museali contemporanee non possono dare utili: che sia pubblico o privato, il sostegno é necessario. Un visitatore non rende, per quanto alto sia il biglietto d’ingresso. Alla Tate Modern, il posto dove probabilmente il visitatore costa meno, non si superano i 16 euro (di conti in rosso) a persona, e ciò consente di coprire quasi interamente gli oneri di gestione del museo, che nel 2007 ha avuto ben 5 milioni 236mila 702 ingressi. Ma non certo di guadagnarci. Alla Triennale di Milano saliamo a 41 euro a visitatore, nonostante le grandi mostre della gestione Rampello, che ha condotto nello stesso anno a 472mila 026 presenze.

Il duplice esempio serve anche a sottolineare la differenza fra le realtà economiche di musei che si rivolgono a metropoli in cui abitano venti milioni di persone e quelle che toccano le nostre città, dove soltanto Roma supera i 2 milioni. Dati che riguardano i vasti flussi che occupano il Maxxi e il Macro della capitale, ma risulta difficile pensare che possano giungere ai numeri della Tate. Nonostante Roma sia ben altra cosa rispetto a Londra.

Una conseguenza evidente è che le realtà piccole e spesso propositive soffrano ancora di più questa situazione. Peraltro aggravata da altro: la maggior parte dei musei italiani non ha la fiducia degli operatori stranieri, che non prestano volentieri, né mostre, né opere singole. La ragione non sta nella mancanza o carenza di requisiti delle strutture. Piuttosto nel fatto, che spesso manca un rapporto di fiducia con le strutture italiane.

Oltre a questo e a molte altre ragioni di piccolo e grande respiro, la nostra arretratezza, la nostra scarsa competitività, nonostante lo sterminato patrimonio del quale siamo amministratori, é nell’incapacità di costruire un “distretto culturale evoluto”. Un investimento, nel quale non siano prioritari né i conti di breve termine e nemmeno l’auto-mantenimento dei nostri beni, e che non veda la cultura come un costo.

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Inserito su www.storiainrete.com il 7 marzo 2012

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