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Cent’anni azzurri. Il nostro secolo in contropiede

Cent'anni azzurri il nostro secolo in contropiedeErano quattromila gli spettatori all’Arena di Milano per la prima partita della Nazionale allenata da Umberto Meazza (nessuna parentela con Peppin). Otto milanesi in squadra, più il doriano Calì, capitano coi baffoni a manubrio, e i torinisti Capello e Debernardi. Italia-Francia finisce 6-2, il primo gol in azzurro è del milanista Lana. In bianco, anzi, perché in azzurro sono i francesi. Le prime due gare (la seconda è un pesante 1-6 a Budapest) l’Italia le gioca in maglia bianca e solo alla terza e definitivamente la Federcalcio sceglie l’azzurro di casa Savoia, con tanto di stemma sul cuore. Di Umberto Meazza, ct e giornalista, va ricordata la definizione del portiere Faroppa, dopo un 3-4 con la Francia a Torino, quattro gol su errori del portiere. “Era lì goffo, coi piedi larghi, sembrava una papera”. È da allora, pare, che si chiama papera lo svarione del portiere.

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di Gianni Mura da la Repubblica.it

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E veniamo a Vittorio Pozzo. Durante la guerra era stato capitano degli alpini e si racconta che caricasse la squadra con canzoni patriottiche. No, secondo lui. Solo una volta aveva portato la squadra tra le lapidi di Gorizia e Redipuglia. Parlava cinque lingue, era impiegato alla Pirelli e dalla Federcalcio non volle mai una lira. Era anche giornalista alla Stampa e dai mondiali (cosa oggi impensabile) dettava i suoi pezzi. Mezzora dopo la partita si metteva a scrivere, poi dettava.
Pozzo è una figura fondamentale del vecchio calcio, quello raccontato da Nicolò Carosio (cominciò nel ’32). Fu in panchina dal 1929 al 1948, e nel primo decennio vinse due mondiali (’34 e ’38), un’olimpiade (’36) e due coppe internazionali (’30 e ’35). Parlano i numeri: 87 partite, 60 vittorie, 16 pareggi e 11 sconfitte.
Calcisticamente, Pozzo non inventò nulla (giocava secondo il “metodo”, non si adeguò al “sistema”) ma conosceva bene i suoi calciatori, il suo gruppo, e si fidava molto della vecchia guardia. In particolare, di calciatori piemontesi, veneti e lombardi, anche se uno dei suoi pupilli, Attilio Ferraris, era romano. Andò a ripescarlo in un bar alla vigilia dei mondiali del ’34. Fumava quaranta sigarette al giorno. Promise di scendere a tre, lo fece e Pozzo lo convocò. Sempre in un bar, ma di Torino, era andato a convincere il portiere Combi, che aveva cessato l’attività.
Sul titolo conquistato in casa, storia vecchia, pesa l’ombra della vittoria di regime. Dopo l’1-1 e i supplementari con la Spagna del grande Zamora, che con le sue parate evitò la sconfitta, c’era da rigiocare il giorno dopo. L’Italia cambiò solo tre giocatori, la Spagna sette, compreso Zamora. Mano dolorante, fu la spiegazione ufficiale, ma sembra più probabile un favore all’Italia di Mussolini. Nell’Italia, titolari tre oriundi (Monti, Guaita e Orsi, suonatore di violino che giocava con un jolly tra calzettone e parastinchi) e saltuariamente De Maria.
Esordio largo, nel ’34, con un 7-1 agli Usa, poi 1-1 e 1-0 con la Spagna, 1-0 all’Austria e finale da crepacuore con la Cecoslovacchia che va in vantaggio al settantesimo, Orsi pareggia all’ottantesimo e gol decisivo di Schiavio al quinto pts. I cechi hanno colpito tre pali. I giocatori pensano di chiedere a Mussolini, come premio-vittoria, una tessera per viaggiare gratis sui treni, ma il terzino Monzeglio, fascista al cento per cento, s’impone: compiuta la missione, il premio sarà una foto con dedica del Duce. Mai arrivata.
Il simbolo della squadra era Meazza, capelli imbrillantinati e occhio languido, classe 1910, figlio di una fruttivendola, padre morto in guerra. Nell’Inter, che poi dovrà chiamarsi Ambrosiana, esordisce non ancora diciassettenne. “Cos’è, oggi giocano anche i bambini?”, brontola in spogliatoio Gipo Viani. “Sì”, dice l’allenatore Arpad Weisz, e manda Viani in tribuna e Meazza in campo. La sua specialità è il tocco sornione in porta sull’uscita del portiere. Non è alto, ma segna anche di testa. Non è un armadio come Piola ma sa farsi rispettare. E col pallone fa quello che vuole.
Tra i due mondiali l’Italia vince l’olimpiade a Berlino ed è una squadra tutta nuova, formata da studenti anche delle serie minori, che Pozzo manda in campo. E nel ’38, in Francia, ha con sé solo due dei campioni di quattro anni prima: Meazza e Ferrari, il cervello della squadra. “Dove arriva lui, l’equilibrio è assicurato”, scrisse Brera. “Un grande giocatore e un grande maestro”, lo definì Bearzot. In Francia l’Italia non trova folle osannanti, ma un tifo contro compatto: oltre ai francesi, le migliaia di fuorusciti italiani che non si riconoscono in quella squadra irrigidita nel saluto romano a centrocampo. Sofferto esordio con la Norvegia a Marsiglia, Piola firma il 2-1 nei supplementari. Clima ostile e squadra tesa. Meazza sa perché e va a dirlo a Pozzo, in albergo, quasi in un orecchio. Pozzo fa segno che va bene e dei giocatori chi vuole va a sciogliere la tensione in una casa chiusa. Ci tocca la Francia, i bleus, che provocatoriamente propongono agli azzurri una maglia rossa. Giammai: divisa nera e 3-1 facile, e stavolta i francesi applaudono perché il dominio italiano è nettissimo. E di oriundi Pozzo ne ha uno solo, Andreolo, di genitori cilentani.
Erano mondiali strani, nel ’38. Senza Argentina e Uruguay, con la Germania hitleriana che aveva assorbito l’Austria (ma perse con la Svizzera). La Spagna era in ginocchio dopo la guerra civile, l’Inghilterra preferiva stare nel suo isolamento. Tra i risultati strani, un Cuba-Romania 2-1 e un Brasile-Polonia 6-5 (ai supplementari). Il sogno di ogni attaccante (segnare un gol al Brasile) Willimoski lo moltiplicò per cinque, ma non fu sufficiente. I brasiliani erano così sicuri di vincere che avevano prenotato tutti i posti sull’unico volo Marsiglia-Parigi, sede della finale. Erano così sicuri che lasciarono a riposo i due attaccanti più bravi, Tim e Leonidas. Finì 2-1 per l’Italia, prima Piola poi Meazza su rigore, tenendosi con la sinistra l’elastico spezzato delle braghette e spiazzando, come al solito, il portiere. I brasiliani si tengono i biglietti aerei, gli azzurri trovano solo cinque posti a sedere sul treno per Parigi. Dormiranno a turno. “Prima i più stanchi”, raccomanda Pozzo. In finale, l’Ungheria è forte, ma l’Italia di più: 4-2. Calano le contestazioni, forti al momento del saluto romano, poi zitti davanti allo spettacolo. Dal commento di Bruno Roghi, direttore della Gazzetta: “C’è qualcosa di più della vittoria sportiva conquistata a prezzo di muscoli e intelligenza in un torneo faticosissimo e insidiosissimo. Al di là della vittoria atletica risplende la vittoria della razza”. Con le veline del Minculpop non si scherzava.
La guerra. Il dopoguerra. Pozzo lascia la panchina dopo le olimpiadi del ’48. Il Grande Torino si schianta a Superga. Anche per via di questa tragedia, nel ’50 in Brasile l’Italia va in nave (due settimane di viaggio). Persi via via in mare i palloni per gli allenamenti, mezza squadra scossa dal mal di mare, subito eliminati dalla Svezia. Mesto ritorno in aereo (trentacinque ore). Nel ’54 allena l’ungherese Czeizler e c’è la televisione. Italia subito fuori (1-4 dalla Svizzera, padrona di casa). Sono gli anni bui, di calcio autarchico (Andreotti ha chiuso le frontiere nel ’53). Non va meglio riaprendo agli oriundi e cambiando ct. Nel ’58 è Foni e ai mondiali in Svezia (quelli che riveleranno Pelé) l’Italia nemmeno ci arriva, eliminata dall’Irlanda del Nord. Ed era un’Italia che schierava Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa. Così come c’erano Maschio, Altafini, Sivori e Sormani nel ’62 in Cile, ct Giovanni Ferrari. Arbitraggio molto casalingo di Aston, espulsi Ferrini e David, azzurri in nove che resistono fino al 74′, poi finisce 2-0, a casa.
Anche peggio nel ’66, ct Fabbri, a Middlesbrough la fatal Corea (del Nord). Ce ne sarà un’altra (ma del Sud) a eliminarci nel 2002, capro espiatorio l’arbitro Moreno. Tra il ’60 e il ’70, mentre i club di Milano s’impongono a livello europeo e mondiale, solo due soddisfazioni per gli azzurri: l’oro nell’olimpiade del ’60 e il titolo europeo nel ’68, annuncio di una crescita che porta gli azzurri alla finale di Mexico ’70. Si parla ancora molto della semifinale, 4-3 alla Germania dopo l’1-1, partita brutta assai ma emozionante nei supplementari. Con il Brasile finisce 4-1 per loro ed è un fiorire di polemiche (la staffetta Mazzola-Rivera, soli sei minuti giocati da Rivera). Un secondo posto dopo tante angustie non è festeggiato con l’allegria prevista. Contrappasso: nel 1974 subito a casa dalla Germania, per mano della Polonia.
Da Valcareggi la Nazionale passa a Bearzot, uomo di frontiera, solidi principi, cuore-Toro che s’affida al blocco Juve. Nel ’78 è una bella squadra davvero, ringiovanita dall’innesto di Cabrini e Rossi, e orgogliosa: già qualificata, non intorta la gara con l’Argentina dei generali, anzi la batte, poi finisce al quarto posto. Con Olanda e Brasile Zoff è incerto sui tiri da lontano e viene massacrato. Diventerà uno degli eroi dell’82, unico a parlare, è il capitano, degli azzurri in silenzio-stampa. Bearzot, appassionato di jazz, ama i solisti, ma nel contesto dell’orchestra. Dopo un avvio stentato la squadra cresce, elimina Argentina, Brasile e Polonia e batte in finale la Germania. Foto-simbolo: l’urlo di Tardelli e l’esultanza di Pertini in tribuna. Giocatori-simbolo: Zoff, Rossi reduce dalla squalifica del calcioscommesse, Gentile (che ferma Maradona e Zico in modi non sempre ortodossi). Nell’86 in Messico Bearzot sconta la gratitudine verso i campioni dell’82 e due anni senza partite vere: la Francia di Platini ci elimina negli ottavi.
Bearzot lascia ed esce dal calcio, come Cincinnato, dando una lezione di serietà. Al suo posto Vicini. Allestisce una nazionale molto tecnica e votata all’offensiva. In Italia, l’Argentina di Maradona (a Napoli) vince ai rigori in semifinale. Per gli azzurri il terzo gradino del podio, che diventerà secondo a Usa ’94, con Sacchi in panchina. Brutta finale, col Brasile, e ancora rigori. Sbagliano Baresi, Massaro e Roberto Baggio. Come nel ’70, al ritorno più fischi che applausi. E ancora rigori nel ’98 in Francia, con la Francia che poi avrebbe vinto il titolo. Nei quarti, sulla traversa colpita da Di Biagio si fanno le valigie. Non può andar sempre male, ai rigori. Difatti nel 2006 va bene: con la Francia, dopo l’espulsione di Zidane per testata a Materazzi, la traversa è per Trezeguet e il titolo mondiale per l’Italia di Lippi. Sembra ieri. Ed è ancora Lippi a guidare gli azzurri in Sudafrica: manca poco, ormai.

rano quattromila gli spettatori all’Arena di Milano per la prima partita della Nazionale allenata da Umberto Meazza (nessuna parentela con Peppin). Otto milanesi in squadra, più il doriano Calì, capitano coi baffoni a manubrio, e i torinisti Capello e Debernardi. Italia-Francia finisce 6-2, il primo gol in azzurro è del milanista Lana. In bianco, anzi, perché in azzurro sono i francesi. Le prime due gare (la seconda è un pesante 1-6 a Budapest) l’Italia le gioca in maglia bianca e solo alla terza e definitivamente la Federcalcio sceglie l’azzurro di casa Savoia, con tanto di stemma sul cuore. Di Umberto Meazza, ct e giornalista, va ricordata la definizione del portiere Faroppa, dopo un 3-4 con la Francia a Torino, quattro gol su errori del portiere. “Era lì goffo, coi piedi larghi, sembrava una papera”. È da allora, pare, che si chiama papera lo svarione del portiere.
E veniamo a Vittorio Pozzo. Durante la guerra era stato capitano degli alpini e si racconta che caricasse la squadra con canzoni patriottiche. No, secondo lui. Solo una volta aveva portato la squadra tra le lapidi di Gorizia e Redipuglia. Parlava cinque lingue, era impiegato alla Pirelli e dalla Federcalcio non volle mai una lira. Era anche giornalista alla Stampa e dai mondiali (cosa oggi impensabile) dettava i suoi pezzi. Mezzora dopo la partita si metteva a scrivere, poi dettava.
Pozzo è una figura fondamentale del vecchio calcio, quello raccontato da Nicolò Carosio (cominciò nel ’32). Fu in panchina dal 1929 al 1948, e nel primo decennio vinse due mondiali (’34 e ’38), un’olimpiade (’36) e due coppe internazionali (’30 e ’35). Parlano i numeri: 87 partite, 60 vittorie, 16 pareggi e 11 sconfitte.

Calcisticamente, Pozzo non inventò nulla (giocava secondo il “metodo”, non si adeguò al “sistema”) ma conosceva bene i suoi calciatori, il suo gruppo, e si fidava molto della vecchia guardia. In particolare, di calciatori piemontesi, veneti e lombardi, anche se uno dei suoi pupilli, Attilio Ferraris, era romano. Andò a ripescarlo in un bar alla vigilia dei mondiali del ’34. Fumava quaranta sigarette al giorno. Promise di scendere a tre, lo fece e Pozzo lo convocò. Sempre in un bar, ma di Torino, era andato a convincere il portiere Combi, che aveva cessato l’attività. Sul titolo conquistato in casa, storia vecchia, pesa l’ombra della vittoria di regime. Dopo l’1-1 e i supplementari con la Spagna del grande Zamora, che con le sue parate evitò la sconfitta, c’era da rigiocare il giorno dopo. L’Italia cambiò solo tre giocatori, la Spagna sette, compreso Zamora. Mano dolorante, fu la spiegazione ufficiale, ma sembra più probabile un favore all’Italia di Mussolini. Nell’Italia, titolari tre oriundi (Monti, Guaita e Orsi, suonatore di violino che giocava con un jolly tra calzettone e parastinchi) e saltuariamente De Maria.
Esordio largo, nel ’34, con un 7-1 agli Usa, poi 1-1 e 1-0 con la Spagna, 1-0 all’Austria e finale da crepacuore con la Cecoslovacchia che va in vantaggio al settantesimo, Orsi pareggia all’ottantesimo e gol decisivo di Schiavio al quinto pts. I cechi hanno colpito tre pali. I giocatori pensano di chiedere a Mussolini, come premio-vittoria, una tessera per viaggiare gratis sui treni, ma il terzino Monzeglio, fascista al cento per cento, s’impone: compiuta la missione, il premio sarà una foto con dedica del Duce. Mai arrivata.
Il simbolo della squadra era Meazza, capelli imbrillantinati e occhio languido, classe 1910, figlio di una fruttivendola, padre morto in guerra. Nell’Inter, che poi dovrà chiamarsi Ambrosiana, esordisce non ancora diciassettenne. “Cos’è, oggi giocano anche i bambini?”, brontola in spogliatoio Gipo Viani. “Sì”, dice l’allenatore Arpad Weisz, e manda Viani in tribuna e Meazza in campo. La sua specialità è il tocco sornione in porta sull’uscita del portiere. Non è alto, ma segna anche di testa. Non è un armadio come Piola ma sa farsi rispettare. E col pallone fa quello che vuole.Tra i due mondiali l’Italia vince l’olimpiade a Berlino ed è una squadra tutta nuova, formata da studenti anche delle serie minori, che Pozzo manda in campo. E nel ’38, in Francia, ha con sé solo due dei campioni di quattro anni prima: Meazza e Ferrari, il cervello della squadra. “Dove arriva lui, l’equilibrio è assicurato”, scrisse Brera. “Un grande giocatore e un grande maestro”, lo definì Bearzot. In Francia l’Italia non trova folle osannanti, ma un tifo contro compatto: oltre ai francesi, le migliaia di fuorusciti italiani che non si riconoscono in quella squadra irrigidita nel saluto romano a centrocampo. Sofferto esordio con la Norvegia a Marsiglia, Piola firma il 2-1 nei supplementari. Clima ostile e squadra tesa. Meazza sa perché e va a dirlo a Pozzo, in albergo, quasi in un orecchio. Pozzo fa segno che va bene e dei giocatori chi vuole va a sciogliere la tensione in una casa chiusa. Ci tocca la Francia, i bleus, che provocatoriamente propongono agli azzurri una maglia rossa. Giammai: divisa nera e 3-1 facile, e stavolta i francesi applaudono perché il dominio italiano è nettissimo. E di oriundi Pozzo ne ha uno solo, Andreolo, di genitori cilentani.
Erano mondiali strani, nel ’38. Senza Argentina e Uruguay, con la Germania hitleriana che aveva assorbito l’Austria (ma perse con la Svizzera). La Spagna era in ginocchio dopo la guerra civile, l’Inghilterra preferiva stare nel suo isolamento. Tra i risultati strani, un Cuba-Romania 2-1 e un Brasile-Polonia 6-5 (ai supplementari). Il sogno di ogni attaccante (segnare un gol al Brasile) Willimoski lo moltiplicò per cinque, ma non fu sufficiente. I brasiliani erano così sicuri di vincere che avevano prenotato tutti i posti sull’unico volo Marsiglia-Parigi, sede della finale. Erano così sicuri che lasciarono a riposo i due attaccanti più bravi, Tim e Leonidas. Finì 2-1 per l’Italia, prima Piola poi Meazza su rigore, tenendosi con la sinistra l’elastico spezzato delle braghette e spiazzando, come al solito, il portiere. I brasiliani si tengono i biglietti aerei, gli azzurri trovano solo cinque posti a sedere sul treno per Parigi. Dormiranno a turno. “Prima i più stanchi”, raccomanda Pozzo. In finale, l’Ungheria è forte, ma l’Italia di più: 4-2. Calano le contestazioni, forti al momento del saluto romano, poi zitti davanti allo spettacolo. Dal commento di Bruno Roghi, direttore della Gazzetta: “C’è qualcosa di più della vittoria sportiva conquistata a prezzo di muscoli e intelligenza in un torneo faticosissimo e insidiosissimo. Al di là della vittoria atletica risplende la vittoria della razza”. Con le veline del Minculpop non si scherzava.
La guerra. Il dopoguerra. Pozzo lascia la panchina dopo le olimpiadi del ’48. Il Grande Torino si schianta a Superga. Anche per via di questa tragedia, nel ’50 in Brasile l’Italia va in nave (due settimane di viaggio). Persi via via in mare i palloni per gli allenamenti, mezza squadra scossa dal mal di mare, subito eliminati dalla Svezia. Mesto ritorno in aereo (trentacinque ore). Nel ’54 allena l’ungherese Czeizler e c’è la televisione. Italia subito fuori (1-4 dalla Svizzera, padrona di casa). Sono gli anni bui, di calcio autarchico (Andreotti ha chiuso le frontiere nel ’53). Non va meglio riaprendo agli oriundi e cambiando ct. Nel ’58 è Foni e ai mondiali in Svezia (quelli che riveleranno Pelé) l’Italia nemmeno ci arriva, eliminata dall’Irlanda del Nord. Ed era un’Italia che schierava Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa. Così come c’erano Maschio, Altafini, Sivori e Sormani nel ’62 in Cile, ct Giovanni Ferrari. Arbitraggio molto casalingo di Aston, espulsi Ferrini e David, azzurri in nove che resistono fino al 74′, poi finisce 2-0, a casa.
Anche peggio nel ’66, ct Fabbri, a Middlesbrough la fatal Corea (del Nord). Ce ne sarà un’altra (ma del Sud) a eliminarci nel 2002, capro espiatorio l’arbitro Moreno. Tra il ’60 e il ’70, mentre i club di Milano s’impongono a livello europeo e mondiale, solo due soddisfazioni per gli azzurri: l’oro nell’olimpiade del ’60 e il titolo europeo nel ’68, annuncio di una crescita che porta gli azzurri alla finale di Mexico ’70. Si parla ancora molto della semifinale, 4-3 alla Germania dopo l’1-1, partita brutta assai ma emozionante nei supplementari. Con il Brasile finisce 4-1 per loro ed è un fiorire di polemiche (la staffetta Mazzola-Rivera, soli sei minuti giocati da Rivera). Un secondo posto dopo tante angustie non è festeggiato con l’allegria prevista. Contrappasso: nel 1974 subito a casa dalla Germania, per mano della Polonia.
Da Valcareggi la Nazionale passa a Bearzot, uomo di frontiera, solidi principi, cuore-Toro che s’affida al blocco Juve. Nel ’78 è una bella squadra davvero, ringiovanita dall’innesto di Cabrini e Rossi, e orgogliosa: già qualificata, non intorta la gara con l’Argentina dei generali, anzi la batte, poi finisce al quarto posto. Con Olanda e Brasile Zoff è incerto sui tiri da lontano e viene massacrato. Diventerà uno degli eroi dell’82, unico a parlare, è il capitano, degli azzurri in silenzio-stampa. Bearzot, appassionato di jazz, ama i solisti, ma nel contesto dell’orchestra. Dopo un avvio stentato la squadra cresce, elimina Argentina, Brasile e Polonia e batte in finale la Germania. Foto-simbolo: l’urlo di Tardelli e l’esultanza di Pertini in tribuna. Giocatori-simbolo: Zoff, Rossi reduce dalla squalifica del calcioscommesse, Gentile (che ferma Maradona e Zico in modi non sempre ortodossi). Nell’86 in Messico Bearzot sconta la gratitudine verso i campioni dell’82 e due anni senza partite vere: la Francia di Platini ci elimina negli ottavi.
Bearzot lascia ed esce dal calcio, come Cincinnato, dando una lezione di serietà. Al suo posto Vicini. Allestisce una nazionale molto tecnica e votata all’offensiva. In Italia, l’Argentina di Maradona (a Napoli) vince ai rigori in semifinale. Per gli azzurri il terzo gradino del podio, che diventerà secondo a Usa ’94, con Sacchi in panchina. Brutta finale, col Brasile, e ancora rigori. Sbagliano Baresi, Massaro e Roberto Baggio. Come nel ’70, al ritorno più fischi che applausi. E ancora rigori nel ’98 in Francia, con la Francia che poi avrebbe vinto il titolo. Nei quarti, sulla traversa colpita da Di Biagio si fanno le valigie. Non può andar sempre male, ai rigori. Difatti nel 2006 va bene: con la Francia, dopo l’espulsione di Zidane per testata a Materazzi, la traversa è per Trezeguet e il titolo mondiale per l’Italia di Lippi. Sembra ieri. Ed è ancora Lippi a guidare gli azzurri in Sudafrica: manca poco, ormai.

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Inserito su www.storiainrete.com l’11 maggio 2010

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