15 aprile 1944: Giovanni Gentile viene assassinato a Firenze dai gappisti comunisti. Per settant’anni il caso è stato liquidato fra sufficienza e imbarazzo come un semplice “eccesso”, uno dei tanti, deprecabili episodi di una guerra civile comunque atroce. Fin quando Luciano Mecacci, di professione psicologo e non storico, ha ripreso in mano fatti, carte e testimonianze ricostruendo nei dettagli l’omicidio e soprattutto il complesso mondo che l’aveva circondato. Giungendo a conclusioni inquietanti condensate in un saggio vincitore dei premi storici di Acqui Terme e Viareggio. «Storia in Rete» l’ha incontrato
di Emanuele Mastrangelo, da Storia in Rete n. 112
Giovanni Gentile fu ucciso il 15 aprile 1944, freddato dai colpi esplosi dai GAP fiorentini mentre rientrava in auto nella sua villa della periferia fiorentina. L’esecutore materiale è stato sempre indicato nel partigiano Bruno Fanciullacci, Medaglia d’Oro al valor Militare, morto pochi mesi dopo l’attentato, mentre il mandante andrebbe individuato nei vertici comunisti del Comitato di Liberazione locale. All’origine dell’esecuzione ci sarebbe invece la nota condanna pronunciata in un celebre articolo di Concetto Marchesi, esule in Svizzera, al quale sarebbero state aggiunte apocrife due righe di “sentenza capitale” da parte dell’esponente comunista Girolamo Li Causi. Un caso apparentemente semplice, deprecato come “eccesso” dalle frange più moderate della Resistenza o liquidato come “giustizia del popolo” da parte di quelle più vicine al PCI. In ogni caso, un episodio da inserire tra quegli episodi atroci di cui ogni guerra civile è ricolma. Ma le cose non andarono esattamente così. E non solo perché, oltre che a vari settori dell’antifascismo, Gentile era inviso da tempo anche in vari ambienti fascisti. Perché le dichiarazioni dei protagonisti e dei testimoni di quel delitto non coincidono fra loro? Perché le indagini condotte dalle autorità fasciste repubblicane furono superficiali e lacunose? Perché esiste traccia di un «Fascicolo Gentile» completamente scomparso dagli archivi fiorentini? E’ possibile che dietro la morte del filosofo ci fossero i servizi segreti inglesi? Luciano Mecacci, livornese, classe 1946, già ordinario di Psicologia generale prima alla “Sapienza” di Roma e ora all’Università di Firenze (di cui è stato anche prorettore dal 1998 al 2006) si è addentrato nel labirinto delle testimonianze, dei dati e della documentazione, ricostruendo non solo i momenti esatti del delitto, ma anche tutto il mondo che circondava il filosofo dell’attualismo in quegli anni.
Mecacci non è uno storico di professione: ha lavorato all’Istituto di Psicologia di Mosca e nel Laboratorio di Psicologia Sperimentale di Parigi. È stato per vari anni consulente dell’Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia (UNICRI) ed è autore di numerose pubblicazioni nel campo della psicologia sperimentale e della storia della psicologia, studi tradotti in inglese, olandese, portoghese, russo, spagnolo e tedesco. Quello su Gentile è il suo primo lavoro di ricerca storica: «La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile» (Adelphi, 2014) gli è valso la vittoria ai premi Acqui Storia e premio Viareggio per la saggistica. «Sono assolutamente contrario alla cosiddetta “psicostoria”» spiega Mecacci, che ha comunque applicato al delitto Gentile un metodo d’indagine storica arricchito dalle tecniche della psicologia: una impostazione che gli ha consentito di raggiungere conclusioni inquietanti su quell’assassinio, conclusioni che aprono nuovi campi di indagine più che risolvere il caso in se stesso.
Professor Mecacci, ha trovato reticenze oppure ostacoli nel raccogliere testimonianze per il suo libro?
«Assolutamente no, anzi ho trovato sempre un’ampia disponibilità. Una delle interviste che ha sorpreso alcuni recensori e lettori è stata quella a Licio Gelli, l’ex Maestro Venerabile della Loggia P2. La sorpresa è stata la mia quando è stato notato: “È andato anche a cercar Gelli? Ma cosa c’entra?”. Ebbene sarebbe bastato leggere il libro e non fermarsi all’indice dei nomi per apprendere che Gelli, all’epoca della morte di Gentile, era un ufficiale di collegamento della milizia fascista con i servizi segreti delle SS, la cui sede era proprio in via Bolognese 67 a Firenze, la “Villa Triste” del reparto di Mario Carità, dove Bruno Fanciullacci fu torturato e morì. Gelli conosceva personalmente tutti gli ufficiali tedeschi di questi servizi che s’impegnarono nella cattura di Fanciullacci, medaglia d’oro della Resistenza».
Per il materiale documentario, invece, ci sono stati problemi? Oltre al «fascicolo Gentile» scomparso le risulta che ci possono essere altre «carte smarrite» che potrebbero fornire elementi nuovi?
«Stando alla ricognizione delle carte conservate all’Archivio di Stato di Firenze, dove in linea teorica doveva trovarsi tutto quello che riguardava le indagini compiute dalla Questura, manca solo questo fascicolo intitolato “delitto Gentile”. L’esistenza di questo fascicolo l’ho dedotta dal ritrovamento di altri fascicoli, ad esempio quello su coloro che furono subito arrestati e poi rilasciati, chi subito, chi dopo un mese come i professori Bianchi Bandinelli, Biasutti e Calasso. Ebbene in questi fascicoli si trovano appunti che fanno riferimento a quel fascicolo scomparso. Altri elementi inediti in effetti possono venir fuori dall’esame di fascicoli relativi a eventi o persone che apparentemente non hanno alcun collegamento con l’esecuzione di Gentile. Ad esempio, nel fascicolo “Ingrassia, Alfredo”, il capo dell’OVRA di Firenze, è inserito un documento a firma di Guido Leto, il capo nazionale dell’OVRA, dove si fa cenno al coinvolgimento dei fascisti nell’uccisione di Gentile. Ovviamente per individuare questi documenti “indiretti” occorre una ricerca molto scrupolosa, a tappeto, e per questo mi è stata indispensabile la competente collaborazione del dottor Salvatore Favuzza».
Ammesso che il “fascicolo Gentile” esista ancora, lei dove lo cercherebbe?
«Questa domanda implica immediatamente una considerazione dalla quale parto. Se il fascicolo esistesse ancora, vuol dire che vi è un qualche interesse a tenerlo per così dire “secretato”. Se invece fosse stato distrutto subito dopo la Liberazione di Firenze, allora potrebbe voler dire che si volevano eliminare delle prove di responsabilità insospettabili. Questa seconda ipotesi è la più plausibile, altrimenti ci dovremmo chiedere perché chi ha disposizione questo fascicolo se lo tiene ancora chiuso a chiave chissà dove».
L’inefficienza delle autorità fasciste nelle indagini è un dato sorprendente: secondo lei quali componenti hanno prevalso? Il compiacimento per l’eliminazione di un «moderato» oppure oscure aderenze fra polizie della RSI e ambienti della Resistenza? Pensa che la scomparsa del fascicolo possa essere legata a questi dettagli?
«Sì, la domanda si riallaccia a quanto dicevo prima sulle responsabilità insospettabili. L’ipotesi più semplice è che già nei primi mesi del 1944 vi fossero tra le autorità fasciste personaggi pronti a chiudere un occhio per qualche particolare azione del CLN in previsione di un futuro che li avrebbe potuti travolgere. Prima ho ricordato Ingrassia e Leto: il primo divenne questore e il secondo direttore delle scuole di polizia della Repubblica Italiana. Per il noto effetto “amnistia Togliatti”».
L’omicidio Gentile e l’attentato di via Rasella hanno un punto in comune: in entrambi i casi si è trattata di un’iniziativa locale avallata ex post dal vertice del PCI. È possibile fare un parallelo fra questi due eventi?
«Sì, è vero che quanto compirono i GAP a Roma il 24 marzo e a Firenze il 15 aprile 1944 ebbe in entrambi i casi un avallo ex post dal vertice PCI, ma credo che intorno all’uccisione di Gentile le forze che intervennero, direttamente o indirettamente, perlomeno a coprire l’azione, siano state politicamente meno omogenee. D’altra parte il rapporto tra i GAP e il partito comunista ha costituito sempre un tema delicato per gli storici “ufficiali” del PCI. Si pensi che abbiamo dovuto aspettare il 2014 per avere un quadro generale dei GAP al livello nazionale: mi riferisco al libro di Santo Peli, “Storie di GAP. Terrorismo urbano e Resistenza” (Einaudi)».
Se il motore primo dell’omicidio Gentile è stato, come lei scrive, il servizio segreto britannico, non pensa che l’intera storia della Guerra Civile in Italia debba essere riscritta alla luce di questo? Quante altre azioni e reazioni possono essere ascritte a una volontà delle potenze alleate di fomentare lo scontro fratricida in Italia?
«Non posso rispondere a questa domanda perché non sono esperto di questa complessa materia. Però, dedicandomi alla “questione Gentile”, ho notato negli ultimi anni una crescita progressiva di studi sul ruolo dei servizi segreti britannici nella lotta di Liberazione e allo stesso tempo ho rilevato che questi lavori, spesso molto ben documentati, non sono adeguatamente considerati e valorizzati dalla storiografia su questo periodo».
Quanto pensa possa essere utile e quanto invece un terreno scivoloso l’applicazione delle tecniche dell’indagine psicologica sui protagonisti dei fatti storici?
«Alcune correnti della psicologia, in particolare la psicoanalisi, hanno applicato i loro strumenti concettuali per spiegare i processi storici attraverso la personalità di grandi personaggi (da Lutero a Gandhi, da Hitler a Stalin e Mussolini). Per la mia stessa impostazione teorica (la mia formazione di psicologo è stata fortemente influenzata dai miei periodi di studio a Mosca nei primi anni Settanta, quando il martedì dalle 12 alle 13 si dovevano leggere e commentare le opere di Marx, Engels e Lenin…) sono assolutamente contrario alla cosiddetta “psicostoria” che riduce decisioni politiche di portata storica alle pulsioni inconsce di un singolo individuo e non considera una complessa rete di fattori economici, politici, sociali e culturali entro la quale si trova quello stesso individuo. Altra cosa è però una capacità, affinata da una competenza psicologica professionale, nell’interagire con gli interlocutori, come nell’impostare un’intervista che miri a sciogliere una questione e, in fondo, a far emergere episodi e nomi che altrimenti – mettiamo pure involontariamente – rimarrebbero nell’ombra. Anche nella lettura di un documento personale, un diario, una lettera, il “paradigma indiziario” adottato da molti psicologi risulta spesso fondamentale per scoprire una “verità nascosta” o perlomeno per sospettarla (si ricordi quanto questo metodo sia stato valorizzato da Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio “Spie” del 1979). Se nel mio libro si sente, come è stato notato in molte recensioni, il modo di ragionare dello psicologo, direi – per quanto possa giudicare neutralmente il mio lavoro – che deriva più dalla consuetudine con questo paradigma che da un approccio riduttivo psicologizzante».
Attorno a Gentile già prima del delitto s’era fatta terra bruciata. Se non l’avessero ucciso, quale pensa sarebbe stato il suo destino – accademico in particolare – nel dopoguerra italiano?
«Basta leggere le lettere di quanti scrivevano a Gentile per il più insignificante o meschino motivo per capire che egli sarebbe stato per loro una figura molto ingombrante, e non tanto in senso stretto accademico, perché nel giro di pochi anni egli se ne sarebbe andato in pensione, quanto per il peso della dipendenza, questa sì psicologica, che avevano sviluppato nei suoi confronti (queste migliaia di lettere sono tutte trascritte e leggibili online in: www.archivionline.senato.it). Escludendo quindi un possibile potere accademico, che aveva comunque già perduto da vari anni, forse avrebbe potuto esercitare ancora qualche influenza in campo filosofico, in un terreno tutto speculativo, ma d’altra parte egli stesso aveva detto nel settembre 1943 che la sua opera s’era conclusa con “Genesi e struttura della società”, il volume che aveva appena finito di scrivere».