Pressoché tutto ciò che riguarda l’azione dei partigiani comunisti, dalla vicenda dei fratelli Cervi sino alla morte di Mussolini ed alla sparizione dell’oro di Dongo è avvolto in una nebbia fatta di mistificazioni, menzogne e ambiguità (si pensi, per esempio, ai dubbi circa la reale identità del colonnello Valerio, al luogo e all’ora dell’esecuzione di Mussolini, o ai fantomatici tre caduti fascisti dell’attentato gappista in via Tomacelli di cui parla Carla Capponi e che non risultano nell’elenco dei caduti repubblicani: dalle fonti dell’epoca risultano solo due feriti), ovvero quella che i sovietici chiamavano maskyrovka. Via Rasella non costituisce certo un’eccezione. Nel corso delle ricerche per il mio lavoro Roma, marzo 1944. Via Rasella e Fosse Ardeatine ho avuto modo di rilevare numerose contraddizioni e distorsioni dei fatti che mi hanno portato ad interrogarmi anche sul reale ruolo svolto da Rosario Bentivegna in via Rasella, che sino quel momento avevo dato per scontato, ed il cui nome come colui che aveva accesa la miccia il 23 marzo venne fatta dall’Unità solo nel corso del processo per l’assassinio del sottotenente della GdF Giorgio Maria Barbarisi, ruolo che a parere di chi scrive è molto meno certo di quanto sino ad oggi ritenuto sulla base di una verità di partito e delle controverse e contraddittorie memorie di Sasà (cioè Bentivegna, NdR): e qui ci si potrebbe anche domandare se la rimozione della figura di Toto, ossia Antonio Rezza, appartenente alla corrente che faceva capo a Pietro Secchia, vicesegretario del PCI, sia servita ad accreditare a Bentivegna un ruolo da protagonista che nella realtà forse non fu svolto da lui, il che spiegherebbe i numerosi errori di fatto delle varie versioni date da Bentivegna stesso, più volte smentitosi nel corso degli anni.
Infatti, Bentivegna è passato dal negare la presenza di civili sino all’ammissione della presenza di Piero Zuccheretti, il dodicenne rimasto ucciso nello scoppio della bomba di via Rasella. Eppure la presenza del ragazzo non poteva essere ignorata da chi presumibilmente accese la miccia, così come non poteva ignorare la presenza di Antonio Rezza oppure che gli uomini del Bozen – obbiettivo dell’attentato – non portassero la divisa delle SS, se non altro per averli visti, come non poteva non sapere che quel giorno la compagnia marciava in silenzio: l’unica volta come ricordato da un reduce della compagnia, Sylveser Putzer, fatto confermato anche da Liliana Gigliozzi allora bambina, il cui padre venne trucidato alle Ardeatine, nell’intervista su Sette-Corriere della Sera del 16 gennaio 1997 , mentre secondo Bentivegna “venivano su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di Hitler. 160 uomini della polizia nazista con le insegne dell’esercito nazista, i rappresentanti di coloro che rastrellavano i cittadini inermi, gli assassini di Teresa Gullace e Giorgio Labò. Le divise, le armi puntate, il passo cadenzato, persino la carretta su cui era piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo azzurro di Roma, agli intonaci, ai sampietrini, al verde che il parco di Palazzo Barberini riverberava dolce sulla via Rasella. Era un oltraggio che si ripeteva, da millenni e nei millenni; e il Vae victis di Kesserling [sic!!] non aveva di fronte, a rintuzzarlo, che le armi e il coraggio dei partigiani. Oggi, il nostro tritolo. Venivano su cantando, macabri e ridicoli e i segni di morte che avevano indosso erano, stavolta, i segni della loro condanna”.
Bentivegna nell’intervista apparsa sul sito dell’Anpi di Roma, alla domanda su come fossero armati gli uomini del Bozen risponde: “Erano preceduti e seguiti da due moto-carrozzette con mitragliatrici pesanti, i soldati erano armati di machine-pistole che portavano sul ventre”. Ora, prescindendo che a via Rasella, come testimoniato dai reduci dell’11. Kp, non c’erano moto-carrozzette con mitragliatrici pesanti, chiunque fosse stato presente avrebbe saputo che gli uomini dell’11. Kp erano armati di fucili M91 lunghi e non di machine-pistole, anche perché in un qualsiasi reparto tedesco anche di prima linea (figuriamoci in un reparto di retrovia) le pistole mitragliatrici erano comunque in numero inferiore ai fucili, mentre nel reparto altoatesino non erano neppure in dotazione se non ai sottufficiali. Basta guardare le fotografie scattate ai Bozener quello stesso pomeriggio per evitare una simile topica. Come si vede da una fotografia scattata dal PK-Leute Koch il cratere dell’esplosione sia adiacente al muro di Palazzo Tittoni, mentre Bentivegna sostenne di aver piazzato il carretto imbottito di tritolo in mezzo alla strada (parcheggiai il carretto, non addosso all’edificio ma sulla strada). Che il carretto fosse invece appoggiato al muro lo dimostra anche, oltre alla posizione del cratere, la soglia di travertino della finestra a piano terreno di Palazzo Tittoni, sotto la quale il carretto era stato posizionato, completamente polverizzata dall’esplosione insieme a parte delle modanature. Né è tutto: la Capponi, compagna di Bentivegna e a sua volta presente a via Rasella, sostenne in un’intervista concessa a Enzo Cicchino, per Mixer (Rai 2, 1994) che nel tragitto per arrivare in via Rasella Bentivegna aveva come guardaspalla Guglielmo Blasi. Ma Bentivegna invece aveva compiuto il tragitto da solo. Blasi incidentalmente è nominato tra i gappisti presenti a via Rasella solo da Carlo Salinari.
Riassumendo, i punti su cui Bentivegna sembra in contrasto con la realtà dei fatti sono almeno undici:
- Antonio Rezza era sicuramente presente, come riportato dal diario di Franco Calamandrei; al proposito scrive A. Ranzato: “Non si capisce tuttavia perché Rosario Bentivegna abbia ostinatamente negato la presenza di Rezza in via Rasella […] pur sapendo che il diario di Calamandrei ricorda Antonio nel gruppo degli attentatori. Nel GAP centrale e intorno ad esso con quel nome vi erano solo Antonio Rezza e Antonio Cicalini, la cui presenza in via Rasella […] è improponibile”. (La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944), Laterza 2019, p. 608, n. 123)
- non menziona Guglielmo Blasi, che secondo la Capponi lo aveva accompagnato lungo tutto il tragitto[1];
- i poliziotti del Bozen non portavano la divisa delle SS;
- non erano armati di MP ma di fucili M91 lunghi
- non cantavano ma marciavano in silenzio come ordinato da Dobek;
- non c’erano in testa ed in coda alla compagnia moto-carrozzette con mitragliatrici pesanti, che se presenti avrebbero aperto il fuoco dopo l’attentato, e che non compaiono nelle foto dell’epoca: né sulle facciate di via Rasella ci sono fori di raffiche di mitragliatrice ma solo di fucili;
- il carretto con l’esplosivo non era collocato in mezzo alla strada come sostenuto da Bentivegna, ma appoggiato al muro di Palazzo Tittoni;
- in via Rasella sono morti sei civili, tra cui Zuccheretti (fatto ammesso da Bentivegna solo nel 1994), il cui atto di morte n. 583, redatto il 30 marzo 1944 e indicante come causa della morte scoppio di bomba in v. Rasella è regolarmente conservato all’anagrafe di Roma, malgrado Bentivegna ne abbia negata l’esistenza;
- l’autista del questore di Roma Pietro Caruso, per Bentivegna venne ucciso dal fuoco tedesco mentre correva verso via del Boccaccio: si trattava del milite portuario Erminio Rossetto, ucciso però dall’esplosione, che era in uniforme fascista con la camicia nera, non confondibile con un poliziotto in borghese;
- il percorso che Bentivegna sostiene di aver fatto con il carretto è quantomeno illogico e troppo lungo ( ben tre chilometri, attraverso via Claudia, Piazza del Colosseo, via dell’Impero, piazza Venezia, via XXIV Maggio, via XX Settembre, via delle Quattro Fontane in discesa) ed esposto: Via dell’Impero era lunga e percorsa da pattuglie, specialmente quel 23 marzo: perché non tagliare dalla Suburra, evitando la ripida salita di via XXIV Maggio, giungendo direttamente in largo Magnanapoli e tagliare da via della Pilotta, raggiungendo via Rasella senza passare per zone pattugliate, soprattutto in una data sensibile, quali piazza Venezia e via Nazionale?
- Inspiegabile come poi Bentivegna sia riuscito lo stesso, benché afflitto da una miopia non lieve, a vedere senza occhiali – se li era tolti per evitare, a suo dire, di essere riconosciuto, (Ero travestito da spazzino: camiciotto e cappello, che mi avevano procurato i compagni. Mi ero tolto gli occhiali per evitare che fossi riconosciuto) il rapidissimo segnale fattogli da Calamandrei alzando il cappello dall’incrocio con via del Traforo, a circa duecento metri di distanza, e per di più in ombra.
Errori fattuali troppo numerosi che fanno pensare, così come fa pensare il silenzio del diario di Calamandrei, unico documento dell’epoca dei fatti, che a via Rasella parla della presenza di Antonio ma tace su quella di Bentivegna: “Mi avvio per via Rasella, vedo che Fernando [Vitagliano] e Pasquale [Balsamo] e Silvio [Serra] e Antonio [Rezza] hanno preso il loro posto di copertura, che Raul [Falcioni], Francesco [Curreli], Aldo sono pronti in cima alle scalette di via del Boccaccio pronti a lanciare […] le loro Brixia”(F. Calamandrei, , La vita indivisibile. Diario (1941-1947), Roma, 1984, alla data 23 marzo, p. 157)
Appare come un’omissione quantomeno strana il fatto che tra i gappisti menzionati sul luogo della strage manchi proprio il nome di Bentivegna, colui che, almeno a partire dal 1948, è stato sempre indicato come il capo del commando gappista, colui che aveva accesa la miccia e svolto il ruolo più importante, venendo decorato di Medaglia d’argento. Eppure il diario di Calamandrei, scritto nell’immediatezza dei fatti, non destinato alla pubblicazione, e pubblicato due anni dopo la morte dell’autore, non riscritto o rimaneggiato, non fa accenno alla presenza di Paolo, ma nomina Antonio, con ogni probabilità, come si è visto, il Rezza, scomparso invece nel dopoguerra dalla memoria ufficiale (ovvero quella che il PCI ha stabilito tale) dell’attentato. Quindi, non si può escludere a priori che a far esplodere la carretta della nettezza urbana non sia stato il Bentivegna ma qualcun altro, forse lo stesso Rezza.
Nella già citata intervista a Bentivegna, venne fatta una domanda che affronta direttamente il vero nocciolo della questione: “Gli arresti delle organizzazioni resistenziali non comuniste avvenuti nella seconda metà di gennaio avvennero non solo per l’imprudenza delle stesse, ma anche per la delazione di uomini della Resistenza, che avevano tutto l’interesse a monopolizzare la struttura partigiana. Si disse che questi uomini delatori fossero comunisti”.
R.B.: “Questa è un’altra infamia che fa parte dello sciocchezzaio che ogni tanto viene fuori.
Lei pensi soltanto al fatto che alle Fosse Ardeatine sono morti tanti comunisti anche importanti, voglio ricordarLe Mallossi, ex-combattente in Spagna, voglio ricordarLe il Prof. Gesmondo, che è stato anche Commissario Politico dei G.A.P.”
Riguardo a Mallossi, Bentivegna intende certamente con Vittorio Mallozzi, fucilato a Forte Bravetta per attività antitedesca il 31 gennaio ‘44, già combattente in Spagna nella XII Brigada Internacional dove fu commissario politico. Come potesse l’ex gappista Bentivegna, che pure avrebbe dovuto conoscere bene la resistenza comunista romana, commettere tali errori di nomi, di date e di fatti, (Mallossi anziché Mallozzi, le Ardeatine anziché Forte Bravetta, gennaio anziché marzo) è incomprensibile.
Prescindendo dal fatto che nessun Mallossi dunque compaia nell’elenco dei trucidati alle Ardeatine, il solo Gioacchino Gesmundo (non Gesmondo) non può giustificare l’affermazione dell’anziano gappista che nella strage siano morti tanti comunisti anche importanti, anche per il fatto che negli elenchi sono stati indicati come comunisti anche gli appartenenti a Bandiera rossa, ostili al Partito comunista, tanto da trovarsi appiccicata addosso la qualifica di trotzkisti insieme ad innocui simpatizzanti indicati come tali nelle schede della polizia politica senza che avessero una parte attiva in politica. Un’ambiguità questa che ha fatto molto comodo al PCI togliattiano per strumentalizzare la memoria della strage ed impadronirsene, cancellando la memoria di monarchici e militari e delle altre componenti della resistenza.
Come dichiarò Adriana di Montezemolo, alle cerimonie commemorative. “Non abbiamo visto altro che bandiere rosse, giustissimo per carità che ci fossero, ma sembrava che le trecentotrentacinque persone fossero tutti partigiani…”. Una reinvenzione ed appropriazione della memoria della strage da parte comunista ancora ben viva, e tale da suscitare, ancora di recente, scomposte reazioni da parte della stampa e dei politici di sinistra quando il 23 marzo 2023 commemorando l’eccidio il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha parlato di vittime colpevoli solo di essere italiane.
Reazioni che dimostrano, se non altro, l’ignoranza della sentenza della Corte di Cassazione che pose fine al processo contro Priebke ed Hass del 1998, laddove si legge che durante il massacro delle Ardeatine, “Il disertore austriaco Raider, pure condotto sul luogo della rappresaglia, fu ricondotto a via Tasso in considerazione della sua nazionalità”.