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Severi ma giusti: «Sia messo a morte chi bestemmia»

In tempi di «politicamente corretto» e di cancel culture sembra che gli unici insulti che non destano una vera riprovazione sociale e giudiziaria siano quelli rivolti a Dio, alla Madonna e ai Santi. Eppure per molti secoli le cose sono state diverse: bestemmiare era pericoloso e gli archivi restituiscono numerosi casi di «rei» puniti in modo esemplare. Tra di loro molti giocatori d’azzardo, militari, commercianti. Ma anche tanti sacerdoti…

di Massimo Centini da Storia in Rete n. 187

«Chi bestemmia il nome del Signore sia messo a morte»: ci fu un tempo, specie nel Medioevo, in cui le parole del Levitico (24,16) furono prese alla lettera; poi la bestemmia continuò comunque a essere perseguita in modo violento. Per esempio, una percentuale non da poco dei delitti rientranti tra le categorie perseguite dal Tribunale dell’Inquisizione, è infatti relativa alle bestemmie, una parte delle quali considerate «ereticali», poiché non solo finalizzate a insultare la Divinità, ma strutturate in modo tale da offendere principi dottrinali del Cristianesimo. Ma la persecuzione giudiziaria del vizio di insultare Dio era un fatto scontato da molti secoli. Nel diritto romano, ad esempio, stando al codice di Giustiniano (VI secolo) i bestemmiatori erano puniti con la morte e in seguito con il taglio della lingua, pratica che si protrasse per molto tempo.

San Tommaso (1225-1274) riteneva la bestemmia una forma di eresia e poco prima di lui Papa Gregorio IX (sul trono di Pietro dal 1227 al 1241) aveva rivendicato la giurisdizione ecclesiastica sulla bestemmia: giurisdizione che, come vedremo, fu oggetto di non poche dispute. I teologi indicavano due tipi di bestemmia: quella che «attribuiva» (a Dio, Madonna e santi) e quella che «negava». Il primo caso è quello che aggiunge, per esempio, aggettivi in genere volgari; il secondo invece, per esempio, nega quanto i fedeli riconoscono a Dio, fino a metterne in dubbio l’esistenza.

Anche la giustizia laica fu piuttosto attenta nella repressione della bestemmia: dagli statuti cittadini medievali si evincono infatti varie pene per i bestemmiatori: fustigazione pubblica, taglio della lingua, pene pecuniarie. In Francia, alla metà del XIII secolo, la bestemmia era punita con un marchio a fuoco sulla fronte; nel 1347, un’ordinanza di Filippo IV stabilì che ai bestemmiatori fosse tagliata la lingua. In seguito, alla metà del XV secolo, Carlo VII aveva prescrisse sei ore di gogna sulla pubblica piazza con dando facoltà al popolo di gettare immondizia sul volto del bestemmiatore. Se però in condannato era recidivo poteva subire il taglio del labbro superiore o la perforazione della lingua.

Un esempio emblematico della repressione attuata contro i bestemmiatori è costituito dall’opera dei cosiddetti «Esecutori contro la bestemmia», detti anche «Difensori in foro secolare delle leggi di Santa Chiesa e correttori della negligenza delle medesime» e costituenti un’istituzione laica sorta a Venezia nel 1537. Di fatto si trattava di una magistratura operante contro i bestemmiatori, ma anche attiva per chi praticava lenocinio e offendeva il buoncostume con reati contro la morale. Altre fonti, sia dell’Inquisizione che di altra estrazione, confermano la presa di posizione contro i bestemmiatori anche in pieno Rinascimento: dal taglio della lingua documentata in varie località, alla flagellazione, oltre alle pene pecuniarie. E comunque la pubblica riprovazione. Ecco cosa scriveva in proposito Giovanni Della Casa (1503-1556) nel suo famoso «Galateo»: «Né contra Dio, né contra santi, né da dovero né motteggiando si dee mai dire alcuna cosa (…) non solo è difetto di scelerato uomo et empio, ma egli è ancora vizio di scostumata persona». L’Inquisizione riteneva imprescindibile il suo intervento quando le bestemmie erano ritenute «ereticali», in pratica, oltre l’offesa alla divinità, affermavano concetti che si ponevano in diretto contrasto con gli articoli della fede. Con la bolla «In multis depravatis» (1554) Giulio III ritenne giuste pene la perforazione della lingua, la fustigazione e i lavori forzati per i bestemmiatori plebei; per i nobili una multa, la perdita di titoli e benefici, il divieto di fare testamento e un bando di tre anni dall’urbe. Una rigorosa presa di posizione pontificia sulla bestemmia giunse con due decreti di Paolo IV (1555 e 1556), che stabilì la creazione di registri appositi per quel genere di reato e che, soprattutto, la giurisdizione sui bestemmiatori fosse esclusivo compito del Sant’Uffizio. Alcuni anni dopo, un decreto dell’Inquisizione romana stabilì che chi avesse ascoltato qualcuno bestemmiare era obbligato a denunciare il colpevole.

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Anche gli inquisitori e in particolare i domenicani vennero spesso coinvolti nelle ingiurie: «domenicani naschatur fratribus lupa»; «inquisitor est diabolus», «inquisitor est antichristus»…

Ma un forte catalizzatore della bestemmia era anche l’universo del gioco d’azzardo, che aveva i suoi luoghi deputati nelle osterie e nella strade. A Bologna (siamo nel XV secolo), tutta una serie di giocatori furono processati dall’Inquisizione perché colpevoli di aver proferito una grande quantità di bestemmie, puntualmente annotate da testimoni zelanti, buoni cristiani, o forse semplicemente ruffiani prezzolati. Dalle loro denunce arrivano alcuni particolari pittoreschi: articolata l’invettiva di un certo Crescimbene di Pietro, che nel suo delirio verbale invocava la possibilità di inchiodare Cristo. Un tal Guidotto, invece, non avendo imbroccato il numero sperato con il lancio dei dadi, si lasciò andare in un lungo sproloquio: «Putana de sancta M. asina bordelora; che mo la vese in bordello ch’io faceve così como e io fo mai a putana»… Va detto che nei documenti, in alcuni casi le esternazioni più pesanti e violente non erano riportate per decenza, mentre in altre dovevano necessariamente apparire perché parte integrante dell’azione giudiziaria. È il caso di don Michele Facero, che nel 1577 esclamò pubblicamente: «vengha il cancaro a Iddio che manda tutta la robba a li uni et niente alli altri» (Archivio Storico di Torino,«Acta criminalia. Processo contro il curato Michele Facero», 1577).

Accanto a prove di ostentata «umanità», come nei casi citati, vi potevano essere cause ben più gravi atte a rendere maggiormente peccaminoso il comportamento di un sacerdote troppo lontano dalle sue funzioni spirituali. Per esempio il curato di Volvera (Torino), Giovanni Moretto, venne messo sotto processo nel 1575 perché, oltre ad essere un noto bestemmiatore, in una precisa occasione aveva detto «molte parole ingiuriose contro Maria, sorella di Giovanni Bernardo; cioè che era puttana ribalda et che in ogni modo voleva haver commercio carnalmente con lei per amor o per forza (…) più che il giorno della purificazione della Madonna prossima passata, esso prete assaltò messer Giacomo Costa avanti il Palazzo delli Scovo, con doi pistoletti che haveva, con uno de quali si credette amazzare detto Costa (…) et una volta tra le altre esso prete in tavola, cenando in casa di Giordano Porporato hospite in la Volvara, di compagnia di lui teste e di molte altre persone con poca honestà parlando, che egli haveva fottuto detta Maria, e la fotteva al suo beneplacito» (Archivio Storico di Torino, «Acta criminalia. Processo contro il curato Giovanni Moretto», 1575). In questo caso, non di sole parolacce si trattava: il curato si era infatti lasciato andare a ben altro, passando dalle diffamazione al tentato omicidio. Più sottile, ma colpevole di bestemmia ereticale, don Ambrogio Martini, che pochi anni dopo fu condannato a morte in contumacia dal Tribunale dell’Inquisizione di Udine, poiché avrebbe detto: «Possano venire tanti lutherani et vadino a Roma a sparare al papa»; inoltre, in occasione della caduta in acqua di un’immagine sacra nel corso di una processione avrebbe esclamato: «la Madonna è andata a pescare» (Archivio Storico di Udine, «Processo n. 91», 1580).

Da queste pochi esempi abbiamo la dimostrazione che anche gli uomini di Chiesa non si facevano mancare nulla in fatto di bestemmie e non solo: Giovanni Gandon, prete della diocesi di Rennes, nel 1545 fu sospeso a divinis poiché aveva l’abitudine di celebrare la messa in stato di ebrezza, personalizzando le omelie con bestemmie e mettendo in berlina la santità del matrimonio. Ma mantenendo il focus solo sulla bestemmia, constatiamo che globalmente, soprattutto sulla base delle giurisprudenza del XV-XVI secolo, quel reato era punito trasversalmente dalla giustizia – laica ed ecclesiastica – con modalità sempre piuttosto pesanti, anche se nel corso dell’iter processuale le attenuanti e il pentimento dei colpevoli determinavano pene meno cruente di quelle prescritte.

Malgrado la forte repressione la bestemmia era molto diffusa: papa Giulio III stabilì così che le pene per i recidivi fossero inasprite. Nel Piemonte dei Savoia, nel terzo quarto del XVIII secolo, la bestemmia «leggera» determinava un anno di carcere; mentre per quella «atroce» la condanna era «la galera, regolandone il tempo a proporzione dell’eccesso, avuto riguardo se sarà stata profferta in pubblico o in privato, o se si tratterà di recidivo; e alla morte, se sarà profferta con animo deliberato». Fra Eliseo Masini, nel suo manuale «Sacro arsenale overo Prattica dell’officio della Santa Inquisitione» (1621), relativamente ai bestemmiatori asseriva che il Santo Offizio procedeva solo nel caso le bestemmie fossero «ereticali». Per Masini erano tali quelle che «contraddicono quelle verità che si contengono negli articoli della Santa Fede» proferite da «delinquenti che abbondano in questi tempi». Nello specifico: quelli che negavano i titoli dati a Dio con ingiurie di cui Masini proponeva anche degli esempi (!): «Dio poltrone. Io farò la tal cosa, ancorché Dio non voglia. Tu m’hai fatto tutto il male, che hai potuto». L’inquisitore, per certi aspetti paradossalmente, aggiungeva una serie di attributi che era peccato ereticale attribuire a Dio: traditore, partigiano, fino a «puttana di D.». Il secondo gruppo era costituito da quelli che bestemmiavano contro la Madonna, soprattutto con aggettivi che conseguentemente ne negavano la verginità. Nel terzo gruppo vi erano i bestemmiatori contro la «Chiesa e i santissimi Sacramenti d’essa e contro la gloria dei Santi canonizzati».

In genere i maggiori bestemmiatori erano gli uomini, che costituivano circa l’ottanta per cento della categoria: percentuale che non è molto cambiata nel corso dei secoli. Si aggiunga che in numerosi casi la bestemmia risultava un aggravante ad altre colpe. È quanto ad esempio si verificò, nel 1507, per il bergamasco Giovanni di San Gallo, canonico della città orobica, che fu denunciato per le sue bestemmie ereticali: aveva più volte messo in discussione il valore dell’Eucarestia e le decime papali. Nel corso dell’indagine saltò fuori che, malgrado la sua carica, ebbe rapporti con una donna e due sue figlie sposate, tenute in casa come concubine e da una di loro ebbe una figlia… Nel 1463, Antonio dei Paterini di Borgo San Donnino, sacerdote della diocesi di Parma, invece era andato oltre le «bestemmie ereticali» di cui fu anche accusato. Infatti, oppresso dalla povertà, «andò a servizio del priore di Sant’Antonio a Verona, e fingendo di essere esperto nella negromanzia, pregato dal priore di San Silvestro di Verona che era innamorato di una certa donna, preparò un’immagine di cera dicendo al priore di pungerla con un chiodo mentre pronunciava certe parole, affinché quella donna corrispondesse all’affetto del priore. Richiesto poi dal priore se quella donna o altre ancora lo amassero se sarebbe stato eletto abate, l’oratore ha finto di conoscere tali cose dai diavoli e le ha scritte di propria mano dicendo che le aveva ricevute dal diavolo, inoltre ha celebrato la Messa su di un manutergio non avendo il corporale, ha bestemmiato Dio, la Vergine e i santi durante una malattia e ha tralasciato gli uffici sacri molte volte». Senza dubbio Antonio dei Paterini di Borgo San Donnino non era proprio uno stinco di santo ma se la cavò tutto sommato a buon mercato: venne ritenuto vittima della sua indigenza e condannato a bruciare i libri di magia da cui aveva tratto le indicazioni per i suoi sortilegi; fu sospeso per quattro mesi «dal ministero dell’altare».

Nell’attività svolta dall’inquisitore francescano Giulio Missini in Friuli a cavallo della metà del XVII secolo, troviamo denunce per bestemmie e perseguite dal Tribunale poiché ritenute «eretiche». È il caso dell’azione condotta contro Valentino Molaro da Quaderno che «nonostante la correzione fatta questi continua a putanare» e contro Giovanni Moratto, capitano della fortezza di Belgrado, che si presentò all’inquisitore confessando di aver detto che Cristo avrebbe amato Giovanni Battista perché giovane e bello e di aver detto: «putana di Dio, sangue di Dio, putana la Vergine Maria». Inoltre confessò di usato mezzi magici per vincere al gioco e di aver letto scritti di Cornelio Agrippa [ovvero il tedesco Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim, 1486-1535: medico, alchimista, astrologo, esoterista è considerato uno dei massimi cultori di magia nera dell’età moderna, NdR]. Moratto disse di essere pentito e disposto all’abiura, dichiarando di non essersi confessato da cinque anni: «Sommamente pentito vengo in questo santo tribunale ai piedi di vostra paternità reverendissima a domandare humilmente perdono, la penitenza et assoluzione, abiurando et destando i detti errori, anzi qualunque errore et heresia, promettendo per l’avvenire ex toto corde mai incorrere in simili errori, anzi correggere l’altri, persuaderli a venire in questo tribunale come ho fatto io e, se non volessero venire, a denunciarli come è debito d’ogni fedele». L’inquisitore riconobbe il pentimento del peccatore, ma lo condannò a cinque anni di penitenza. Il 29 aprile 1652, tre anni dopo i casi precedenti, davanti all’inquisitore Missini comparve spontaneamente Bartolomeo Merlo, confessando che, dopo aver perso ai dadi, colpì con due pugni l’immagine della Madonna imprecando: «Puttanaccia di Dio, non mi hai voluto aiutare nel gioco»… Si giustificò dicendo che tutto si era verificato benché ogni giorno pregasse la Vergine e portasse su di sé un rosario… Sorretto da un personalissimo principio del «do ut des», il bestemmiatore fu condannato a tre anni di penitenza a cui, in linea con altri casi del genere, avrebbe fatto seguito l’assoluzione (D. Visintin, «L’attività dell’inquisitore Fra Giulio Missini in Friuli (1645–1653). L’efficienza della normalità», Trieste 2008, pag. 173).

Si conferma quindi il fatto che frequentemente i bestemmiatori si rivelavano appieno, dando libero sfogo agli sproloqui, durante i giochi d’azzardo. In tali occasioni le bestemmie erano una consuetudine; anche se in misura minore, non mancavano le azioni blasfeme commesse contro effigi cristiane. Vi furono casi in cui il bestemmiatore non ammetteva le sue colpe: c’era però il rischio che incappasse in un inquisitore particolarmente intransigente, disposto ad applicare anche la tortura per far confessate l’inquisito. È quanto si verificò per il barbiere di Vitorchiano (presso Viterbo), Dionisio Marini, che nei primi mesi del 1640, fu sottoposto al tratto di corda fino a quando confessò di aver più volte proferito bestemmie ereticali. Venne condannato a cinque anni di carcere. Va anche ricordato che le bestemmie potevano essere occasione di scontri sulle competenze giudiziarie. Infatti abbiamo notizia di azioni intraprese dalle autorità secolari nei confronti dei bestemmiatori, con conseguenze ricorsi da parte dell’inquisitore locale, il quale riteneva che la bestemmia fosse delitto da arrogare sempre e comunque al suo tribunale.

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