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Date e deliri da cancel culture: negli USA tutto è iniziato nel 1619?

Negli Stati Uniti intellettuali e giornalisti progressisti hanno intrapreso una campagna che, se non corressero i tempi attuali, sarebbe surreale. E invece è incredibilmente vera ed ha come obbiettivo retrodatare di 150 anni l’atto fondativo degli States. Non più la dichiarazione d’Indipendenza del 1774 ma lo sbarco dei primi schiavi africani sulle coste americane, nel 1619. Ecco come una teoria senza capo né coda ha preso piede oltreoceano, partendo addirittura dalle colonne del «New York Times»

di Enrico Petrucci da Storia in Rete n. 184

Nell’agosto del 2019 il prestigioso «New York Times» per il suo magazine settimanale realizza un numero monografico intitolato «The 1619 Project». Scopo del progetto curato dalla giornalista Nikole Hannah-Jones è quello di rileggere il ruolo della schiavitù e della segregazione razziale nella storia degli Stati Uniti a partire proprio da quell’agosto 1619 in cui i primi schiavi africani furono sbarcati sulle coste della Virginia, ancora colonia britannica. Sulla carta il progetto si pone come un’operazione per rendere la storia degli Stati Uniti «più obbiettiva e inclusiva» a livello divulgativo, ma in realtà il vero obbiettivo della Hannah-Jones, giornalista investigativa con un bachelor’s degree in «history and African american studies», è ben più ambizioso: distruggere il mito positivo della fondazione degli Stati Uniti, la Dichiarazione d’Indipendenza (1774) e poi la guerra contro l’Inghilterra (1775-1783) al grido di «no taxation without representation», una rivoluzione prodromo di quella francese. Meglio, come «mito fondativo» lo sbarco dei primi schiavi in Virginia nel 1619. In sostanza, la Hannah-Jones denuncia che gli Usa hanno un peccato originale come mito di fondazione. E la denuncia viene fatta usando il grimaldello dei media, aggirando così qualunque forma di revisione paritaria, il peer-review accademico, e passando direttamente dalle pagine di un supplemento domenicale ai programmi scolastici. Non a caso, fin da subito il fascicolo diventa materiale per le scuole di ogni ordine e grado, e nei mesi successivi il Pulitzer Center, una no-profit attiva nel giornalismo (ma non collegata al famoso premio) finalizza il cosiddetto Project 1619 Curriculum: un insieme di materiali dedicati alle scuole. Il successo del Progetto 1619è sancito nel marzo del 2020 quando grazie a esso la Hannah-Jones vince proprio il Pulitzer nella categoria «miglior giornalismo di commento».

Che l’obbiettivo fosse quello ambizioso di far diventare il 1619 l’anno di fondazione de-facto degli Stati Uniti d’America, e rendere così gli USA una nazione non più fondata sul jeffersoniano «perseguimento della felicità», bensì sulla schiavitù era chiaro fin dall’editoriale di apertura della rivista. Qui Jake Silverstein, caporedattore del periodico, enunciava: «se vi dicessimo che questo fatto [la rivoluzione e la firma della dichiarazione d’indipendenza NdR], che viene insegnato nelle nostre scuole e celebrato all’unanimità ogni 4 luglio, è sbagliato, e che la vera data di nascita del paese, il momento in cui le sue contraddizioni definitorie sono venute al mondo per la prima volta, risale alla fine di agosto del 1619?».

Per sostenere questa tesi, il «Progetto 1619»e la Hannah-Jones hanno fissato l’asticella molto in alto. Troppo in alto, arrivando a un falso storico, ovvero che la Rivoluzione Americana non fosse scoppiata per pagare meno tasse. Bensì per preservare la schiavitù. Scrive nel numero originale la Hannah-Jones: «Convenientemente lasciato fuori dalla nostra mitologia della fondazione è il fatto che una delle ragioni principali per cui i coloni decisero di dichiarare la loro indipendenza dalla Gran Bretagna era perché volevano proteggere l’istituzione della schiavitù». La Hannah-Jones non porta nulla a supporto di questa tesi, secondo la quale le Tredici Colonie volevano continuare a importare schiavi quando nel Regno Unito stava iniziando il percorso di abolizione della tratta. Né avrebbe potuto farlo: perché l’affermazione della Hannah-Jones non ha alcun fondamento sul pianto storiografico. Si tratta di una suggestione di date: a Londra il dibattito intorno alla schiavitù inizia in forma embrionale nel 1772, un anno prima della fondazione del Boston Tea Party e tre anni prima della Guerra d’Indipendenza delle Tredici Colonie. In Inghilterra si inizia a parlare di abolizione della schiavitù grazie al dibattimento intorno al caso Somerset v Stewart: Somerset è uno schiavo e Stewart è il suo proprietario e sono entrambi residenti a Boston. Somerset era fuggito su suolo inglese per essere poi catturato. Il dibattimento si concluse con la liberazione di Somerset, evidenziando la diversità di trattamento tra le colonie e l’Inghilterra. Ma il dibattito sulla schiavitù in Inghilterra avrà bisogno di sessant’anni per completarsi arrivando all’abolizione solo nel 1833, a più di sessant’anni da Somerset v Stewart. Né si può dimenticare che nelle Tredici Colonie, futuro nucleo degli Stati Uniti d’America, c’erano già state azioni «di rivolta» nelle colonie americane da parte degli «indipendisti» locali, come l’incendio della HMS Liberty nel 1768 e della HMS Gaspee nel 1772. Insomma prima che gli inglesi iniziassero a prendere sul serio il problema della schiavitù già c’era chi bruciava navi britanniche nel New England!

Inevitabile che fin da subito il Progetto 1619iniziasse a raccogliere pareri negativi di molti storici titolati, a cui il «New York Times» rispondeva con una lettera che ovviamente non entrava mai nel merito delle obbiezioni storiografiche poste dagli storici, ma si limitava a esaltare le suggestioni. Sottolineando come «prova» che i giornali delle Tredici Colonie avessero parlato del caso Somerset v Stewart e tirando in ballo due atti legislativi delle forze britanniche che promettevano l’emancipazione agli schiavi che si fossero uniti alle forze inglesi: la proclamazione di Dunmore, novembre 1775 e la dichiarazione di Philipsburg del 1779. Invertendo evidentemente causa ed effetto. Visto che le due proclamazioni avvenivano a rivolta già in atto e miravano più a rimpolpare di uomini i ranghi della Corona piuttosto che alimentare aspirazioni egualitarie.

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Ma d’altronde il pezzo della Hannah-Jones nulla a che vedere con la storiografia o la divulgazione storica. Persino operazioni come la «Storia d’Italia» di Montanelli hanno un taglio più accademico. L’articolo «L’America non era una democrazia finché i neri americani non l’hanno resa tale» è l’esempio di quel long form journalism, giornalismo narrativo, che va per la maggiore di questi tempi. Una lunga dissertazione che inizia sempre con un «mi ricordo di quella volta che…», «riflettevo durante un viaggio…», «quando arrivai mi accorsi…» E così via. Nel caso del Progetto 1619diventa: «Mio padre faceva sventolare sempre una bandiera statunitense in giardino». Per poi iniziare una dissertazione/riflessione su quattro secoli di storia dei neri negli Stati Uniti. E dove non mancano curiose omissioni. Se Lincoln viene tratteggiato in modo sbrigativo e piuttosto negativamente, Luther King di fatto scompare. In tutto il 1619 Project è citato solo due volte, sempre indirettamente: nella didascalia di una foto di repertorio, quella della marcia di Selma, e nel ricordo di una giornalista di un discorso del reverendo Jesse Jackson, dove «Martin King» è solo uno dei tanti nomi citati.

Inevitabile che anche una parte della comunità afroamericana, quella cresciuta nell’ideale dei diritti civili e attenta alla verità storica, abbia iniziato fin da subito a prendere le distanze dall’operazione. Emblematica la storica e accademica Leslie Maria Harris che su «Politico» ha pubblicato un pezzo dal titolo inequivocabile«Ho aiutato il fact-cheking sul Progetto 1619. E il “Times” mi ha ignorato». E se anche il pezzo è uscito su «Politico», considerato su posizioni più vicine all’area repubblicana, la rivista è ben lontana dai toni e metodi di «Fox» o del «New York Post». Allo stesso modo la Harris, donna afroamericana, è ben lontana dallo stereotipo del white male privilege in cui potevano cadere gli storici a cui rispondeva la lettera del «New York Times». Una critica, quella della Harris, che non ammette sconti nemmeno a destra, visto che ribadisce come la tematica della schiavitù è stata effettivamente trascurata dagli storici statunitensi nelle origini degli Stati Uniti.

Controproducente dal punto di vista della trasparenza anche la scelta del «New York Times» di correggere da subito il tiro rimuovendo la frase di accompagnamento sul mini-sito del Progetto 1619che recitava «to reframe the country’s history, understanding 1619 as our true founding» («per ridisegnare la storia del Paese, intendendo il 1619 come la nostra vera fondazione»). Anche nel testo sono stati modificati dei passaggi che descrivevano il 1619 come «momento d’inizio» della storia degli USA. Questo lanciare il sasso e nascondere la mano alle prime critiche, nel quadro di un’operazione revisionista come il Progetto 1619,ha gettato altra benzina sul fuoco. E così l’area conservatrice e repubblicana ha avuto gioco facile ad iniziare a citare Orwell e il pericolo di riscrittura della storia. Altre critiche afroamericane al Progetto 1619sono arrivate da uno storico leader dei diritti civili, l’ottantaquattrenne Robert Woodson, che nel febbraio 2020 ha dato vita al cosiddetto 1776 Unites. Fin dal nome è evidente come lo spirito sia quello di contrastare l’operazione del «New York Times» considerata divisiva. Tra gli sponsor di questa iniziativa anche un altro eminente accademico afroamericano, Glenn Loury economista famoso per le sue pubblicazioni sulle diseguaglianze razziali (e tra l’altro primo professore di economia nero ad Harvard negli anni ’80). Woodson è considerato un indipendente, ma il grosso del supporto è arrivato da area conservatrice, avendo 1776 Unites come principale supporto dai media il «Washington Examiner».

Rilevante nel dibattito anche la National Association of Scholars, sempre di area conservatrice, che ha dato vita a una campagna di firme per chiedere di revocare il Pulitzer alla Hannah-Jones. Tra i firmatari anche il già citato Glenn Loury. Altra figura che non può essere accusata di white privilege ma che ormai facilmente rischia di meritarsi l’epiteto reso celebre da Malcolm X, l’«house negro», italianizzato in «negro da cortile». Lo schiavo che lavorando come servitù in casa godeva di privilegi intrinseci rispetto allo schiavo delle piantagioni e che quindi non sentiva il bisogno di ribellarsi. Ma le critiche afroamericane sono tutte passate in secondo piano, visto che uno dei primi nemici del Progetto 1619è stato l’allora presidente Trump. Il fatto che Trump ne parlasse male rendeva automaticamente il Progetto 1619un’operazione valida agli occhi della cultura liberal. A settembre 2020 Trump ha promesso di tagliare i fondi alle scuole che aderiscono al 1619 Project Curriculum. Sempre su iniziativa di Trump è stata creata la 1776 Commission (da non confondere con la già citata operazione 1776 Unites). Il report di questa commissione presidenziale è stato pubblicato il 18 gennaio 2021, due giorni prima dell’insediamento di Biden, finendo sommerso di critiche per gli errori e le partigianerie. Ma non c’è stato il tempo per un’eventuale revisione, in quanto la 1776 Commission è stata sciolta due giorni dopo, il 20 gennaio, uno dei primi atti da presidente di Joe Biden.

Ma le destre trumpiana e conservatrice non sono sole nella battaglia contro il 1619 Project. Al loro fianco si trovano degli alleati inattesi e insospettabili. Sono i trotzkisti del World Socialist Web Site, WSWS, emanazione del Socialist Equality Party e del loro comitato per la 4a Internazionale. Veri comunisti vecchio stampo e con un sito ben organizzato che ha dedicato una serie di articoli contro la mistificazione operata dal 1619 Project. La serie di articoli, dal 2019 al 2020 è stata ampliata ed è diventato un volume tutto dedicato a smontare il 1619 Project. Certo gli autori e curatori sono tutti bianchi e il primo motore che porta i comunisti di ispirazione trotzkista a porsi contro il Progetto 1619 è l’affermazione della prevalenza della coscienza di classe rispetto alle identità di genere, di razza e di intersezionalismi vari. Saremmo quindi a prima vista nell’area del cosidetto rossobrunismo, quella area comunista che continua a cercare la prevalenza dei diritti sociali su quelli civili, arrivando a “convergenze parallele” con le destre di ispirazione sociale. Ma i World Socialist Web Site vanno oltre l’etichetta rossobruna sottoponendo il Progetto 1619a un attento scrutinio di stampo storiografico marxista. La serie di articoli del World Socialist Web Site è diventata il volume «The New York Times’ 1619 Project and the Racialist Falsification of History» che si aggiunge ai due altri testi di area conservatrice che criticano il Progetto 1619, quello di Peter W. Wood, presidente del già citato NAS, e Phillip W. Magness del thinktank conservatore John Locke Foundation.

Altra voce critica al Progetto 1619che arriva stavolta dalla sinistra moderata è quella di Matthew Karp, storico e professore associato a Princeton, nonché collaboratore della rivista «Jacobin». Rivista che come tradisce il nome è di chiara ispirazione socialista. Ma come fa notare lo stesso Karp altre voci della sinistra americana d’ispirazione socialista restano a favore del 1619 Project, come il Communist Party USA. L’approfondimento di Karp sul Progetto 1619 è pubblicato su «Harper’s Magazine». Rivista che dopo la lettera aperta sulla cancel culture del luglio 2020 rappresenta una delle voci di maggior ragionevolezza nel panorama culturale e intellettuale statunitense. E l’approfondimento di Karp rappresenta una delle chiavi di lettura più interessanti sul Progetto 1619. Più che rimarcare i singoli errori fattuali del «New York Times» come fanno gli storici Karp evidenzia fin da subito come sia in atto su entrambi i fronti, favorevoli e contrari al 1619 Project, non un’operazione di divulgazione, bensì un’operazione di narrazione storica ad usum delphini. E l’articolo fin dal titolo gioca su questo aspetto, History as End. Dalla «fine della Storia» di Fukuyama a una «storia come Fine».

Il vero elefante della stanza è proprio l’impostazione narrativa a senso unico del 1619 Project. Al di là degli errori fattuali o delle ipotesi di pura suggestione di cui si può anche dibattere, nel numero curato dalla Hannah-Jones vengono omesse figure chiave del percorso di emancipazione razziale negli Stati Uniti. Oltre ai citati Lincoln e Luther King viene quasi cancellato anche Frederick Douglass, probabilmente il più grande intellettuale nero del periodo a cavallo della guerra civile, nonché amico di Lincoln. Che come scrive Karp: «Sorprendentemente, Frederick Douglass appare più spesso nel Rapporto 1776 [quello di Trump NdR] che nel Progetto 1619, dove originariamente ricevette solo due brevi menzioni, entrambe in un saggio di Wesley Morris sulla musica nera». D’altronde fin dall’editoriale di Silverstein è esplicitata la duplice natura dell’operazione 1619 Project: non solo riformulare il mito di fondazione degli Stati Uniti in un peccato originale, ma anche far discendere tutti i mali di oggi, compreso il traffico, da quel 1619. Sì come nel film «Johnny Stecchino» la più grave piaga di Palermo è il traffico. Il traffico è associato alla segregazione razziale, come si scopre a pagina 48 in un breve articolo dal titolo: «Un ingorgo di traffico a Atlanta sembrerebbe avere nulla a che fare con la schiavitù. Ma guardate meglio». In cui partendo da una dichiarazione dell’allora sindaco di Atlanta negli anni ‘50, il democratico William Hartsfield in cui definì la nuova autostrada Interstate 20 in mezzo alla città «il confine tra la comunità bianca e quella comunità nera». Per poi spiegare che tutti i problemi del traffico discendono da scelte razziali prima che urbanistiche. Anche le limitazioni al trasporto pubblico. Dimenticando che il traffico c’è in tutte le grandi città del mondo (Atlanta conta mezzo milione di abitanti arrivando a 6 milioni nella sua area metropolitana). E che i problemi di traffico nelle città statunitensi sono così radicati da aver creato una teoria del complotto ad hoc, la «General Motors Streetcars Conspiracy» che accredita alla General Motors la scomparsa dei tram da molte delle città statunitensi negli anni ‘50. Se anche l’intenzione di Hartsfield era quella di sfruttare la nuova autostrada a scopo discriminatorio, è ovvio che le cause della congestione moderna sono ben diverse.

Ecco l’ipersemplificazione: dovendo tutto discendere da quel 1619 e dovendo porsi nella critica degli Stati Uniti di oggi come realtà intrinsecamente razzista e segrazionista, si rischia di dimenticare gli sforzi di tutti quegli esponenti dei diritti civili che hanno lottato in quasi due secoli e che si mal integrano con la narrazione attuale. Osserva Karp: «Due temi fondamentali ancorano l’approccio del Progetto 1619 alla storia americana: origini e continuità. L’indice è una fucilata di fatti che sono emersi, in linee ininterrotte, da secoli di persecuzione. Che l’argomento sia il traffico di Atlanta, il consumo di zucchero, l’incarcerazione di massa, il divario di ricchezza, le deboli protezioni del lavoro, o il potere di Wall Street, il peso dell’argomento rimane lo stesso: tracciare le profonde continuità tra la schiavitù e l’ingiustizia razziale oggi». Le parole di buon senso di Karp passeranno però in secondo piano in un dibattito sempre più infiammato. Anche perché sta per arrivare nelle librerie statunitensi «The 1619 Project: A New Origin Story», volume di oltre 600 pagine in cui la Hannah-Jones combina i 18 saggi originali che facevano parte del numero monografico originale del 1619 Project con, come si legge dagli annunci del volume, «trentasei tra poemi e opere di narrativa che illuminano momenti chiave di oppressione, lotta e resistenza». Una Storia come narrazione da cui scompare il dibattito e ridotta a mero pretesto per le narrazioni contemporanee. Un approccio che trova cultori anche da questa sponda dell’Oceano, come vediamo pure in Italia col recente dibattito su Adriatico e confine orientale.

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