HomeStampa italiana 2Guicciardini, vittorie e (molte) sconfitte di uno "stra-italiano"

Guicciardini, vittorie e (molte) sconfitte di uno “stra-italiano”

di Claudia Gualdana, da Libero del 12 luglio 2022

«Io amo messer Francesco Guicciardini, amo la patria mia»: così Niccolò Machiavelli in una lettera a Francesco Vettori del 16 aprile 1527 e, se mai fosse necessario appellarsi ai numeri primi della storia per presentare Guicciardini, vediamo di iniziare da qui. Sulla grandezza dell’uomo politico e sull’influenza esercitata sulla storiografia moderna non si discute, ma conviene farne memoria, anche per ricordare cosa significasse allora essere fiorentino. Nel caso di Guicciardini, rampollo di nobile famiglia, essere tenuto a battesimo da uno dei massimi pensatori rinascimentali, Marsilio Ficino. Intrattenere una corrispondenza epistolare con Niccolò Machiavelli, di lui più anziano e così differente, per carattere e pensiero, e che pure lo stimava. Erano anni in cui lo spirito del tempo si addensava nei cieli della città medicea e in quei giorni di torbidi, tra intrighi e guerre, si formava anche lo spirito più genuino dell’italianità. Se ancora questa parola ha un senso e la si vuol mutare in aggettivo, pochi furono italiani più di Francesco Guicciardini. Che fu raffinato diplomatico, abilissimo tessitore di trame politiche, spregiudicato nell’accaparrarsi cariche – e in questo del tutto simile ad attori odierni che per altri versi in confronto sono macchiette – con la differenza sostanziale che lui le cariche sapeva esercitarle davvero.

Spregiudicato, si diceva, al punto di sposare Maria, figlia di Alamanno Salviati che, grazie alle entrature del padre nella cerchia medicea, gli sarebbe stata utilissima per scalare le gerarchie cittadine. Ciò gli valse le accuse – a suo dire calunnie – di avidità. Egli stesso confida la diceria in una lettera del 1527 al cardinale Passerini: «Ciò che Vostra Signoria Reverendissima m’ha scritto del caricho de’ danari per la partita della donna mia con ceri muli che non dovevano però essere carichi d’oro né di argento non merita risposta». La lettera, con importanti scritti e documenti inediti, è pubblicata in Francesco Guicciardini tra autobiografia e storia di Marcello Simonetta (Ronzani Editore, p. 260, € 20), un libro che aggiunge nuovi tasselli al ritratto in forma di mosaico di una personalità complessa e tuttora controversa.

Fino a che punto, infatti, la sua storiografia può dirsi autobiografia? Non v’è risposta univoca ovviamente, e molti segreti saranno di certo calati con lui nella tomba, ma è certo che la sua corrispondenza epistolare, fuori dalle formule di rito e dalle circonlocuzioni proprie del linguaggio politico e delle ambascerie, delinea un profilo più che mai vivido. Sullo sfondo, la tragedia fiorentina, e italiana, in un’epoca in cui la penisola si era fatta oggetto di appetiti transalpini e germanici, emerge a tutto tondo, quasi fosse una scultura michelangiolesca. In proposito, non guasta ricordare il Buonarroti, che nel 1527 aveva da poco terminato i sepolcri di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Nonostante un parterre che riunisce i più grandi geni italiani, siamo nei pressi della disfatta: il sacco di Roma per mano dei lanzichenecchi, avvenuto il 7 maggio. Uno scandalo, peggio: una tragedia di cui messer Francesco è parte in causa. Egli è commissario dell’esercito pontificio e luogotenente generale di papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, quando nella guerra per la supremazia in Italia (1521-26) si palesa la drammatica, mai superata, fragilità italica.

La Lega di Cognac, formata da veneziani, Stato della Chiesa, francesi, inglesi e svizzeri, fortissimamente voluta da Guicciardini, esce sconfitta. Per quanto messer Francesco ci avesse creduto, e ritenesse necessario lottare per «la salute et libertà in Italia», ha inizio un lento e inesorabile declino. A nulla poterono le esortazioni di Machiavelli – «Liberate l’Italia da questo lungo tormento, scacciate queste bestie feroci che non hanno nulla di umano, a parte il volto e la voce» – e la stima del papa, la carriera di Guicciardini ne uscì di molto ridimensionata: a poco vale la grandezza di un uomo, se alle spalle non ha una nazione. Ma è dalle ceneri del luogotenente che nasce il grande storico: Guicciardini non smetterà di scrivere fino alla morte; il suo capolavoro, la Storia d’Italia, è la fatica degli ultimi anni. Ma libro di Simonetta si insinua nelle pieghe di testi meno noti, per decifrare l’uomo e quello che è forse a torto giudicato un eccesso di indulgenza nei confronti della propria biografia politica.

Il testo più finemente analizzato è l’Accusatoria, in cui Guicciardini giudica sé stesso presso un tribunale immaginario, in una straordinaria auto-accusa retorica. Egli «si è costruito una corte in cui ha assunto i ruoli incompatibili di giudice, pubblico ministero, avvocato, imputato, testimone e giuria», scrive Simonetta. Già l’impostazione dice il genio letterario e il coraggio di affrontare a viso aperto la disfatta. Vale la pena riportarne uno stralcio più che eloquente: «La calamità, la mina di tutto el mondo non nasce da altri che da te (…) per te è andata Roma a sacco».

- Advertisment -

Articoli popolari