Il Vate e quella lotta alla “morte in vita”: la malinconia

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di Alberto Scuderi per www.storiainrete.com del 4 giugno 2025

“Tutta la vita è senza mutamento/Ha un solo volto la malinconia/il pensiere ha per cima la follia/E l’amore è legato al tradimento”. Così scriveva Gabriele D’Annunzio nel Libro segreto, il diario autobiografico compilato negli anni del Vittoriale e pubblicato nel 1935. Dove, a sorpresa, lo scrittore dalla vita inimitabile smetteva i panni del superuomo e faceva emergere la condizione malinconica di un individuo solo, gettato nell’insondabile Nulla che è la vita stessa.

Del resto, anche Eleonora Duse, la divina, l’amante materna e insieme profondamente passionale, in una lettera al comune amico Tommaso Gallarati Scotti confessava di aver sentito, in certe ore, fortissima la malinconia di Gabriele, e proprio in quelle ore di averlo compreso meglio che in qualsiasi altro momento. Tale dimensione crepuscolare del poeta, celata anche dagli storici della letteratura, rappresenta ancora oggi una zona interdetta, qualcosa con cui si fatica a fare i conti. Chissà, forse è per sfumarne l’immagine fin troppo monocroma che l’italianista Gianni Oliva nel 2007 diede alle stampe D’Annunzio e la malinconia. Un testo tornato di recente disponibile (Carabba editrice, 2024, con un’introduzione inedita), che si conferma oggi come ieri necessario per smontare convinzioni ormai logore, nonostante sia passata molta acqua sotto i ponti della critica letteraria (si pensi alle ricerche di Emilio Marano degli anni Settanta del secolo scorso, dedicate proprio alla malinconia dannunziana, ma anche ai lavori di Giordano Bruno Guerri e Maurizio Serra).

Il saggio, minuzioso e documentato, riesamina carteggi, romanzi, liriche, scritti giornalistici, taccuini e appunti dello scrittore alla luce di un’attenzione ermeneutica legata a quel “male di vivere” tipico dei decadenti francesi: uno su tutti Charles Baudelaire, l’autore di Les fleurs du mal, vittima come il Vate «dell’insuperabile tensione tra realtà e idealità».

Oliva argomenta come questa malinconia, concepita quale impossibilità di realizzare l’umana aspirazione all’eterno – si pensi alle teorie filosofiche coeve di Schopenhauer e di Nietzsche -, non sia un aspetto marginale o episodico, ma una cifra caratterizzante che pervade l’intera esistenza e produzione dannunziana. In tal senso, il poeta incarna la coscienza afflitta del nostro tempo, rivelandone l’assurdità e il vuoto. Un’insoddisfazione profonda, vissuta come l’ultimo gesto di un esteta fragile al cospetto della Modernità, presente non solo nelle epigrafi memoriali (“Questo ferale taedium vitae mi viene dalla necessità di sottrarmi al fastidio – che oggi è quasi l’orrore – d’essere stato e di essere Gabriele”), ma anche nei romanzi (ad esempio ne Il Fuoco, in cui il protagonista Stelio Effrena, al momento dell’addio alla donna amata, viene appaiato all’incisione di Dürer sulla malinconia), così come nelle pagine diaristiche de “Il compagno dagli occhi senza cigli” e nelle lettere a Elda Zucconi, alle giovani amanti del periodo gardonese, ai Treves, a Giancarlo Maroni e all’amico Pasquale Masciantonio. Con quest’ultimo, in particolare, detto amichevolmente Pascal, conosciuto nel periodo trascorso a Napoli tra il 1891 e il 1893, il carteggio risulta assai significativo, laddove il poeta affronterà proprio in quei mesi un periodo di forti tensioni: dalla morte del padre, Francesco Paolo D’Annunzio, alle tante difficoltà finanziarie.

Più in generale, afferma Oliva, nella stagione napoletana «si coglie uno dei nuclei più densi delle attestazioni malinconiche del D’Annunzio maturo; anni bilanciati in uno strano equilibrio tra sofferenza fisica e materiale e produttività artistica; anzi, si direbbe proprio che lo stato depressivo, tutt’altro che paradossalmente, alimenta, se non facilita la creatività». Nasceranno da lì a poco opere notevoli quali l’Episcopo, le Elegie romane, l’Innocente e, in nuce, anche Il trionfo della morte: il romanzo che fa da spartiacque nella produzione dello scrittore, sorprendentemente intimista, «sprovvisto interamente di azione», imperniato sull’identità e l’appartenenza alla “razza abruzzese”, condivisa tra l’altro con l’adorato Masciantonio. Come aveva già scritto Aristotele nei Problemata XXX, «tutti gli uomini straordinari, eccellenti nella filosofia, nella politica, nella poesia, nelle arti sono palesemente malinconici». Anche il saturnino D’Annunzio non fa eccezione: cercando di dare senso e forma al nulla, il suo tentativo di combattere questa sorta di morte in vita (altrimenti chiamata malinconia) rimane la battaglia più importante e difficile che abbia mai condotto.

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