Era un venerdì quando, il 18 febbraio 1564, Michelangelo moriva nella sua casa romana di Macel de’ Corvi. Negli ultimi anni della sua lunga vita aveva disegnato per gli amici un gran numero di Crocifissi e Pietà, ovvero soggetti di devozione del corpo santo di Cristo cui era stato iniziato da Vittoria Colonna, la marchesa che riuniva intorno a sé una cerchia di cattolici che si battevano per la riforma morale della Chiesa.
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Francesca Bonazzoli su “Il Corriere della Sera” del 10 marzo 2011
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Alcuni, come il cardinale Reginald Pole o il cardinale Morrone, subirono persecuzioni da parte dell’Inquisizione. Non sappiamo se anche Michelangelo fosse spiato, ma di sicuro c’è che immediatamente, appena la notizia della morte dell’artista giunse all’orecchio della polizia del Papa, un giudice e un notaio entrarono nella sua casa prima dell’arrivo del nipote Leonardo da Firenze.
Attraverso l’inventario che stilarono, sappiamo che «in una stanza a basso» c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo portacroce e «un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite» , ovvero la cosiddetta Pietà Rondanini.
In casa c’erano anche dieci cartoni preparatori tra i quali uno con una Pietà; ventiquattro camicie di cui cinque nuove; un certo numero di barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo. Nessun gioiello, né mobili preziosi, né una collezione d’arte. Però c’era un armadio chiuso a chiave che conteneva ottomiladuecentottantanove ducati d’oro, l’equivalente di quasi trenta chili del prezioso metallo.
Questo asciutto inventario dice molto della personalità di Michelangelo, uno degli artisti più ricchi e tirchi mai esistiti. Il suo biografo Ascanio Condivi scrive che non viveva in frugalità, ma in modo miserrimo, e andava a letto con gli stivali indossandoli così a lungo che quando finalmente li toglieva, tirava via anche la pelle.
Persino lo zio Buonarroto (fratello del padre di Michelangelo), facendogli visita a Roma, rimase stupito della miseria in cui viveva e gli scrisse quanto questa fosse brutta, un vizio che dispiaceva a Dio e alla gente. Ma Michelangelo non se ne curava e spiegò al padre che era contento di vivere in povertà senza darsi pensiero né della vita, né dell’onore e del mondo.
Le sue condizioni migliorarono comunque molto dopo gli affreschi nel soffitto della Sistina, tanto che verso la fine del 1515 disponeva di un capitale liquido di tremilaottocento fiorini d’oro. Tuttavia già a ventidue anni, quando ricevette la commissione per la Pietà oggi in Vaticano, i suoi prezzi erano molto alti. Il papa Giulio II, per cui iniziò a lavorare nel 1505, a trent’anni, lo ricompensava con pagamenti inconcepibili per qualsiasi altro artista: tanto per avere un’idea, le sue spese per i materiali erodevano solo un terzo del compenso, mentre per gli altri artisti la media era almeno del doppio.
Il papa Paolo III, poi, lo pagava più di quanto Piero Soderini aveva ricevuto per la carica di gonfaloniere a vita di Firenze e per vincolarlo al suo servizio gli concesse un vitalizio di mille duecento scudi annuali, una cifra molto importante, di cui seicento provenienti dal reddito del passaggio del Po, presso Piacenza.
Paradossalmente la ricchezza contribuiva ad aumentare l’ansietà di Michelangelo. L’artista considerava infatti l’avarizia come il peccato più grande, motivo per cui non mise mai in banca i suoi soldi a fruttare interessi. Li investiva soprattutto in proprietà immobiliari il cui valore, dopo la morte, era stimato intorno ai dodicimiladuecentoquaranta fiorini, comparabile a quello di molti patrizi del tempo.
Pare che Michelangelo, in tutta la vita, avesse guadagnato l’equivalente di metà del capitale di Agostino Chigi, che negli anni Dieci del Cinquecento era il più ricco banchiere del mondo. Una delle ragioni di tanta tirchieria era l’ossessione di ripristinare il prestigio della famiglia Buonarroti che era stata eleggibile per le cariche pubbliche da almeno sei generazioni. Tuttavia né il padre, né lo zio erano più stati in grado di pagare le tasse e quindi di ricoprire uffici pubblici.
Michelangelo se ne vergognava e fece in modo che anche grazie agli ottimi matrimoni (con famiglie nobiliari) dei nipoti Francesca e Leonardo, la famiglia tornasse a risalire la scala sociale. Solo nell’ultima parte della vita si dedicò alla beneficenza perché l’altra sua ossessione, quella senile, riguardava la salvezza dell’anima.
Ma c’è una testimonianza che ci rende più simpatica la tirchieria di Michelangelo: nell’orazione pronunciata per il funerale del maestro a Firenze, Benedetto Varchi disse che Michelangelo regalò sempre disegni, cartoni e statue ai suoi amici e parenti. Michelangelo faceva dunque pagare, e a caro prezzo, solo i ricchi: i detestati Medici, signori di Firenze, e i detestati nove papi, signori di Roma, che servì.
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Inserito su www.storiainrete.com l’11 marzo 2011