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Schiavismo. Il museo di Liverpool non la racconta giusta

L’International Slavery Museum di Liverpool è l’unico museo nazionale al mondo dedicato alla «tratta degli schiavi», di ieri e di oggi. Ma dimentica di documentare il fatto che lo schiavismo non fu una specialità solo europea. Infatti, gli schiavisti ebbero proprio dai trafficanti africani un aiuto decisivo. Spesso gli schiavisti erano arabi musulmani. Uno storico inglese, stanco di omissioni e forzature, ha deciso di denunciare questo modo di raccontare il passato

di Luca Di Bella da Storia in Rete n.196

Affacciata sul Mare d’Irlanda, la città inglese di Liverpool deve la sua fama recente ai Beatles e ad una blasonata squadra di calcio. Ma la sua fortuna storica è legata al porto, tra i maggiori della Gran Bretagna. Un porto che tra XVII e XIX secolo fu anche uno dei principali poli europei del commercio di schiavi. Già a metà del Seicento la schiavitù era diventata per gli inglesi un business redditizio: in un primo tempo si impose il monopolio della Royal African Company di Londra ma ben presto venne il turno proprio di Liverpool grazie al suo porto che ne faceva la principale città portuale dell’Inghilterra occidentale. Affacciata sull’Oceano Atlantico, Liverpool poteva ricevere dall’Africa e far partire verso il Nord America molte navi piene di schiavi. Affari ed esseri umani andarono quindi di pari passo nella città di mare fino a quando, nel 1833, venne approvata la legge sull’abolizione della schiavitù. Un’eredità che comunque Liverpool non ha voluto dimenticare tanto che, nel 2007, proprio davanti al porto, è stato creato l’International Slavery Museum, l’unico museo nazionale al mondo dedicato al commercio transatlantico di schiavi, alla sua eredità, nonché alle forme contemporanee di schiavismo.

Sul sito dell’associazione «History Reclaimed» (www.historyreclaimed.co.uk), che raccoglie gli storici anglosassoni che si oppongono alle derive del «politicamente corretto», Robert Tombs, professore emerito di Storia francese a Cambridge e Fellow del St John’s College, ha recentemente criticato l’impostazione che i curatori hanno voluto dare all’International Slavery Museum: «I musei sono un importante mezzo di educazione storica. Il Museo internazionale della schiavitù di Liverpool, visitato da un gran numero di scolaresche, è uno dei più importanti per le nostre attuali riflessioni storiche. Ma come ha svolto il suo compito dalla sua apertura nel 2007? A mio parere, presenta ai suoi visitatori un resoconto molto parziale e persino fuorviante». Ma perché Tombs ha deciso di intervenire ora visto che, come lui stesso ricorda, il museo di Liverpool è stato inaugurato nel 2007, cioè più di 15 anni fa? La ragione è semplice: i responsabili del Museo hanno annunciato che presto si metterà mano all’esposizione, destinata ad essere completamente rinnovata: «Accolgo con favore il fatto che l’attuale museo verrà riqualificato e ampliato – scrive Tombs – Data la rilevanza della schiavitù nell’attuale dibattito nazionale, l’importanza di questo progetto è enorme e Liverpool è il luogo ideale per un memoriale adeguato che sia anche un’istituzione educativa della massima importanza. L’attuale museo, a mio avviso, fallisce invece gravemente nella sua funzione educativa. Spero che questo venga evitato nel nuovo museo, ed è per questo che pubblico questa nota».

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Le critiche di Tombs partono dalla denominazione stessa del Museo, denominazione che dichiara il difetto di prospettiva alla base della sua impostazione e che dimostra un limite di fondo, del resto molto diffuso: la totale esclusione di importanti aspetti della storia dello schiavismo, guarda caso aspetti che non riguardano il mondo europeo ed occidentale. «In primo luogo, non si tratta di un “museo internazionale della schiavitù”, ma di un museo della tratta atlantica degli schiavi. Naturalmente sarebbe opportuno avere un museo che si concentri proprio sul ruolo di Liverpool in questo commercio, ma non è così che il museo si descrive. Un museo internazionale della schiavitù dovrebbe coprire la storia più ampia della schiavitù, che era una realtà globale. Anche se non tutte le schiavitù dovessero essere trattate allo stesso modo – il che richiederebbe un museo enorme – sarebbe sicuramente necessario spiegare l’onnipresenza della schiavitù nel corso della storia. Al momento, l’impressione invece è che solo la schiavitù africana da parte degli europei sia significativa. La circostanza non viene argomentata o spiegata ma è resa evidente dalla semplice omissione di tutte le altre schiavitù (nel mondo antico, in Asia, nell’America precolombiana, nel mondo musulmano e, naturalmente, nella stessa Africa). L’impressione che quindi emerge spontaneamente in chi visiti il Museo è che la schiavitù sia un’invenzione degli europei e che sia stata limitata agli africani. Questa impressione è prodotta in parte da selezioni e omissioni, ma anche da disinformazione sulle complicità africane».

A dare particolarmente fastidio a Tombs è poi la completa «dimenticanza» del ruolo svolto dall’Inghilterra anche nella soppressione della schiavitù. Insomma, è vero che la Gran Bretagna fu in prima fila nel commercio di uomini per circa due secoli e che ne ricavò grandi guadagni. Ma è anche vero che fu tra le prime nazioni ad abrogare la schiavitù. Un’informazione non irrilevante ma che i visitatori dell’International Slavery Museum di Liverpool – ricordiamolo, il più importante museo sul tema esistente al mondo – non ricevono. Ecco la denuncia di Tombs: «La schiavitù è stata per millenni un’istituzione universale e non lo è più. Pertanto, la lotta contro la tratta degli schiavi e la schiavitù, ampiamente (anche se non del tutto) riuscita nei secoli XVIII, XIX e XX, è una parte essenziale della storia di questo fenomeno. Infatti, l’apertura del Museo nel 2007 ha coinciso con il 200° anniversario della messa al bando della tratta degli schiavi da parte della Gran Bretagna. Ma la fine della tratta viene trattata brevemente e il ruolo unico della Gran Bretagna e dell’Impero britannico nel superare le potenti forze pro-schiavitù in patria, nelle Americhe, in Africa e nel mondo arabo viene clamorosamente sminuito. Che si tratti di un museo internazionale, nazionale o di Liverpool, sicuramente a questo aspetto dovrebbe essere dato il giusto risalto. Non è forse qualcosa da celebrare? Altrimenti si crea un’impressione molto fuorviante della Gran Bretagna e della sua storia, che rischia di danneggiare le relazioni comunitarie e il nostro senso di identità».

Quelle di Tombs sono argomentazioni già note ma che faticano a «bucare» il velo dell’ipocrisia imposto ormai da tempo dal «politicamente corretto». «Storia in Rete» ne ha dato conto in un ampio dossier pubblicato sul numero 99 del gennaio 2014: il dramma della schiavitù attraversa secoli, aree geografiche e civiltà e limitarlo solo alla pur drammatica e rilevante «tratta atlantica» non rende un buon servizio alla verità storica che, di suo, si nutre della complessità della realtà. Una complessità che l’International Slavery Museum di Liverpool sembra trascurare a vantaggio di una lettura, colpevolizzante, «eurocentrica». Come dimostrano alcuni cartelli esplicativi che costellano l’esposizione. Tombs ne ha citati alcuni. Ad esempio quello che rievoca l’arrivo degli europei nel Continente nero: «Gli europei iniziarono a esplorare l’Africa occidentale nel XV secolo, prima ancora di scoprire le Americhe. La schiavitù degli africani da parte dei commercianti portoghesi iniziò più o meno subito. Non passò molto tempo prima che gli africani venissero trasportati con la forza attraverso l’Oceano Atlantico per lavorare nelle colonie americane». E ancora, nel cartello dal titolo «Civiltà e barbarie», si legge: «Gli europei usarono i loro rigidi concetti di civiltà per giustificare la manipolazione e l’abuso sugli africani. Consideravano la civiltà europea di primaria importanza e poiché le società e la cultura africane non erano conosciute, gli europei definirono il continente come «barbaro», popolato da tribù selvagge e oppresso dal dispotismo religioso. Queste convinzioni razziste sarebbero state in seguito utilizzate come giustificazione per l’intervento coloniale in Africa».

A parte la negazione dell’evidente gap scientifico, tecnologico, artistico e culturale che separava Europa ed Africa già nel Medioevo, i cartelli del museo di Liverpool mostrano il chiaro intento di suggerire al visitatore che la schiavitù africana sia stata un’invenzione europea. Tombs sottolinea, a questo punto, anche che: «Non viene detto nulla sull’esistenza della schiavitù in Africa e sulla volontà dei governanti africani di vendere gli schiavi. E non si fa alcun cenno all’enorme commercio di schiavi preesistente verso il mondo musulmano, forse più grande in termini numerici e certamente molto più duraturo della tratta atlantica. È sorprendente che l’unico accenno all’“Islam in Africa” non ne parli affatto». Tombs allude ad un altro cartello esposto all’International Slavery Museum, dal titolo «L’Islam in Africa occidentale» e in cui si legge:«I nordafricani hanno accolto l’Islam in Africa occidentale a partire dal decimo secolo lungo le rotte commerciali trans-sahariane. I commercianti e i governanti furono i primi a convertirsi. In seguito, i convertiti dell’Africa occidentale portarono l’Islam più a sud, lungo le rotte commerciali indigene». Il cartello tende a sottolineare l’aspetto positivo della penetrazione islamica in Africa, ricordando l’istituzione di scuole e la creazione di insediamenti islamici, molti dei quali divennero «importanti città». Curioso che anche i cartelli successivi, nei quali si racconta il dramma della deportazione degli schiavi verso le coste e i tentativi di resistenza, omettano completamente di ricordare che la quasi totalità della tratta dalle zone interne alle coste era gestita da africani e arabi: «A volte gli africani schiavizzati erano costretti a marciare per centinaia di chilometri fino alla costa. Venduti più volte durante questo viaggio, passavano da un proprietario all’altro (…) gli scheletri impalati di coloro che avevano cercato di fuggire erano un macabro avvertimento per scoraggiare la fuga». E poi: «Gli schiavi coglievano ogni opportunità di fuga. (…) Molti leader africani si schierarono contro la schiavitù. Tomba, capo dei Baga in Guinea (1720) e Agaja Trudo, re del Dahomey, tra il 1724 e il 1726, resistettero ai tentativi di schiavizzare loro stessi e i loro sudditi».

Anche su questo però la critica di Tombs è precisa: «La “marcia verso la costa” è presentata come qualcosa di imposto dagli europei. Non si parla delle terribili marce attraverso il Sahara o verso l’Oceano Indiano. L’impressione data è quella di un’Africa paradisiaca prima dell’arrivo degli europei. Un Re del Dahomey è menzionato come un oppositore agli schiavisti europei. Allo stesso modo, viene fornito un breve resoconto dell’“economia Asante” in cui viene menzionato il commercio trans-sahariano, anche se senza alcun riferimento alla tratta degli schiavi». Ma cosa intende Tombs per «economia Asante»? Si tratta di un’espressione con la quale gli studiosi indicano il sistema economico dell’impero degli Ashanti (o Asante), un prospero regno africano, corrispondente più o meno all’attuale Ghana, che ebbe il suo momento di maggior splendore, nonostante vari «problemi» con gli inglesi», tra il XVII e il XIX secolo. Senza addentrarci in pubblicazioni specialistiche, basterà ricordare quanto si può leggere su Wikipedia alla voce «Impero ashanti»: «Tra il XVIII e il XIX secolo l’Impero prosperò soprattutto grazie ai commerci con i mercanti europei insediati nella Costa d’Oro, con i quali scambiarono soprattutto oro e schiavi». Da bravo storico, Tombs invece non si ferma a Wikipedia e osserva che «il Dahomey e l’Asante sono descritti in un’autorevole storia recente dell’Africa come “gli Stati più autoritari del XVIII secolo nel commercio degli schiavi”, “brutalmente discriminatori e predatori”. Uno studio molto diffuso sulla tratta degli schiavi la descrive come “l’attività economica di gran lunga più importante” del Dahomey, il cui re si stima avesse un reddito annuale di 250 mila sterline nel 1750, circa cinque volte quello del più ricco aristocratico inglese. Tutto questo è nascosto. Un visitatore innocente riceve così un’impressione decisamente fuorviante dell’Africa, della schiavitù e della tratta degli schiavi».

Le riserve mentali che hanno guidato l’impostazione del museo di Liverpool diventano ancora più evidenti quando si tratta di affrontare il tema di come importanti settori della società occidentale si opposero allo schiavismo e, alla fine, riuscirono a farlo abolire definitivamente. Un merito che Tombs rivendica proprio alla Gran Bretagna e alla lotta «condotta essenzialmente dai cristiani non conformisti ed evangelici». In realtà non è che l’International Slavery Museum non accenni alla cosa ma lo fa in un modo tale da non poter risultare sospetto: «Questo aspetto viene menzionato brevemente – osserva Tombs – ma con pochissimo risalto. Sono tentato di dire “insulsamente poco”: il piccolo cartello che parla degli abolizionisti si trova a livello del pavimento, al buio, dove è praticamente invisibile, nell’angolo in basso a destra della parete che affronta il tema della fine della tratta atlantica. Un piccolo, e a me sembra rancoroso, riassunto che dice il meno possibile. Uno scarno accenno alla Marina, una sola frase. Niente sul continuo sforzo politico, diplomatico, consolare ed economico inglese per porre fine alla schiavitù in tutto il mondo. Molto poco anche sul sostegno popolare all’abolizione».

Tra i pezzi esposti più importanti al museo c’è anche una scultura molto espressiva che raffigura un africano incatenato. Scontato, visto il contesto generale, collegare la statua alla «tratta atlantica» e invece quest’opera – di cui il Museo di Liverpool non dà alcuna specifica – ha una storia completamente diversa. Proviene infatti da Zanzibar e faceva parte di un monumento commemorativo dello schiavismo. E a questo punto converrà ricordare anche che Zanzibar, l’arcipelago che sta di fronte alle coste della Tanzania, nell’Africa orientale, è stato per secoli uno dei principali centri della tratta degli schiavi verso il mondo arabo, tratta che per ampiezza e durata, secondo tutti gli studi, fu maggiore della «tratta atlantica». Insomma, Zanzibar ha rappresentato per la «tratta dell’Oceano indiano» quello che Liverpool è stata per la «tratta atlantica». L’augurio di Tombs – e non solo… – è che col prossimo allestimento dell’International Slavery Museum (che sarà finanziato e supervisionato dallo Stato britannico) molte storture possano essere corrette per «raccontare una storia più completa e onesta della schiavitù e della tratta degli schiavi». Ma il clima culturale di questi anni lo consentirà davvero?

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