Si fatica a non vedere un uno-due wokeista nella mostra torinese “Africa. Le collezioni dimenticate” e nella proposta di legge sottoscritta dalla dem Laura Boldrini, dal M5S Riccardo Ricciardi, dal segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni su proposta dell’ANPI e dalla “rete Yekatit 12-19 febbraio” lo scorso 17 ottobre.
In ogni caso era fatale, e sono anni che il sottoscritto – insieme a Enrico Petrucci – si sgola per mettere in guardia su quello che è il vero ventre molle del retaggio storico-nazionale italiano, là dove la cancel culture farà breccia per avviare la sua guerra culturale di sterminio contro l’identità nazionale italiana.
La mostra torinese viene giustamente vivisezionata da Alberto Alpozzi, che da esperto di cose coloniali infila il bisturi nel bubbone delle innumerevoli amnesie che la caratterizzano, ossimoro in una esibizione che parte con l’altisonante ragione sociale di “combattere l’oblio”. E menomale.
Questa è la strategia che già tante volte abbiamo definito “ignorazionista”. Il termine nasceva per definire quei sostenitori della narrazione antinazionale in tema di foibe ed esodo giuliano-dalmata. Non più negazionisti, anche perché non negano più. Costoro infatti minimizzano, rigirano la frittata e soprattutto creano un teorema che per far quadrare le sue dimostrazioni ha l’imperativa necessità di ignorare ogni fatto, dato, documento o testimonianza che possa risultare stonato.
Ora questi ignorazionisti sono all’opera anche sul colonialismo italiano. Un capitolo della nostra storia che presenta per la grande strategia della guerra culturale wokeista il bersaglio ideale. Innanzitutto rientra nella narrazione dei “post-colonial studies” (inglese d’obbligo) che vanno tanto di moda nei campus universitari ultra-liberal dell’anglosfera, dove l’autoflagellazione per le “colpe” del passato viene attivamente sfruttata come manganello politico per colpire l’identità nazionale, le tradizioni, i Padri della Patria (di ogni patria) seminando sensi di colpa, autolesionismo e dissonanza cognitiva. In una parola, oicofobia. Così, la nostra intellighenzia di sinistra, coi suoi occhiali dalle montature nerd, può scimmiottare i riferimenti d’oltremare, ora che quelli con falci-e-martello non sono più di moda. Del resto, basta andarsi a leggere la pagina dei Musei Reali di Torino per vedere la spasa di anglicismi e parole d’ordine wokeiste (“public program“, “site specific” “decostruire”, “nuove cittadinanze”, “produzioni culturali ibride”, “colonialità”… Dio mi perdoni…) che sono indice della più pura sudditanza culturale alle mode in voga nelle università e fra gli intellettuali liberal dell’anglosfera.
Dal punto di vista tattico, invece, il colonialismo è un preda facile. E’ già azzoppato da decenni di narrazioni piagnone e con la puzzetta sotto il naso, bollato con l’epiteto di “colonialismo straccione” (già ampiamente smentito per tabulas nello speciale di Storia in Rete di cui vedete la copertina), la pagina della nostra storia in Africa finisce per non essere difesa da nessuno.
Troppo grosso il rischio d’essere bollati come “fascisti” (del resto, qualcuno ricorderà che il «Venerdì di Repubblica» – mica pizza&fichi… – aveva scritto nel centenario dell’Impresa di Libia che «nel 1911 l’Italia fascista aggrediva la Libia»). Poi c’è il problema che metà della storia coloniale italiana è storia dell’Italia liberale (anche quella, schiacciata sotto la definizione dispregiativa e irriconoscente di “Italietta”. Un'”Italietta” che aveva giusto sconfitto l’Austria Ungheria, conquistato per l’appunto la Libia, costruito infrastrutture in un paese che da Roma in giù aveva solo 60 km di ferrovia e dato al mondo la radio, il melodramma, la dinamo e il cono gelato…). Una storia anche quella messa a bagnomaria da tanti anni di falsità e dimenticanze, da un repubblicanismo oltranzista (e irriguardoso, basti ricordare che nell’Italia monarchica viene sepolto con ogni onore e sono dedicate piazze e statue a Giuseppe Mazzini, irriducibile repubblicano) e negli anni più recenti dalla fuffa neoborbonica, che oscilla fra il piagnisteo da wannabe lost cause e i toni da “studi neocoloniali” (d’altronde, non era il padano Farini ad aver scritto del Mezzogiorno: “Altro che Italia! Questa è Affrica!”?).
Così, oggi un’Italia che non sa più cosa sia “I Pagliacci” o la “Cavalleria Rusticana” ma crede che le cantilene di un certo scassatimpani chiamato Mahmood sia “musica” (e soprattutto sia “italiana”) è il terreno ideale per seminare la zizzania dell’oicofobia, quel disagio mentale tipico dell’età adolescenziale e che se si cronicizza in età adulta diventa il disprezzo per la nazione da radical chic con le birkenstock ai piedi e “Internazionale” sotto il braccio. E tutti costoro vengono arruolati nella guerra culturale wokeista il cui scopo è il genocidio culturale del nostro paese (come di ogni nazione in cui questa peste crea un focolaio d’infezione). Così da renderlo più accogliente, più inclusivo, più arcobaleno. Faranno un deserto culturale e lo chiameranno con un nome qualunque scelto a caso, ma con la schwa alla fine.
“L’ignoranza è forza” era il terzo slogan del SocIng in “1984”. E infatti l’ignoranza è la forza delle schiere wokeiste reclutate fra i visitatori volenterosi e quelli coscritti (i ragazzi delle scuole, destinati al lavaggio del cervello e all’estirpazione d’ogni senso d’appartenenza identitaria, con cauterizzazione preventiva d’ogni possibile sentimento patriottico). Così, non è importante che la mostra torinese definisca Omar el Muktar, il capo della resistenza libica negli anni Venti, giustiziato (invero in maniera poco cavalleresca dagli italiani) nel 1931, “un vecchio arabo”. Immaginiamo una mostra con una foto di Garibaldi e la didascalia “un vecchio ligure”… E’ invece importante – come fa notare Alpozzi – che nel documentario sul Villaggio Duca degli Abruzzi venga tagliata la scena in cui si vede il Duca consegnare le buste paga col salario agli operai somali. Non sia mai. Così come nulla delle realizzazioni italiane in Africa viene esibito. Nemmeno le architetture di Asmara, dichiarate dall’ONU (eh, dall’ONU, non dal Circolo Reduci dell’Amba Alagi) “patrimonio dell’umanità”.
Gli ignorazionisti dunque spostano l’assicella un po’ più avanti. Torino è la città che ha iniziato il repulisti da cancel culture delle “vie coloniali”, anticipando Roma, la cui cittadinanza non è ancora cotta a puntino. Ed è dunque logico che sia Torino a ospitare in un palazzo lasciato dai Savoia (brutti, cattivi e colonialisti) una mostra di propaganda antinazionale e antistorica.
Gli orchi premono contro le mura del Fosso di Helm. Se qualche Bianco cavaliere, che aveva promesso d’apparire all’orizzonte all’alba, non si farà vedere con la sua cavalleria, l’Italia entrerà nel novero delle ex-nazioni dove il patrimonio storico-culturale è stato mandato al compattatore dell’indifferenziato. Passeremo alla storia (degli altri, noi non ne avremo più), come il più grande pollaio in cui delle faine saranno mai riuscite a infilarsi.