di Gavino Piga da Giubbe Rosse del 9 Settembre 2022
Leggere Ilan Pappé è un’esperienza che affascina. Non solo per la lucidità dell’analisi, la ricchezza delle fonti e la scorrevolezza della prosa, ma anche – o soprattutto – per l’abitudine a rovesciare, di continuo, significati e significanti della storia scritta dai vincitori. Di questo controverso e acutissimo storico insomma si può ben dire, foucaultianamente, che all’annalistica del memorabile preferisce la memoria della contraddizione e del conflitto: alla costruzione di mitologie trionfali, il grido che ricorda come ogni ordine nasca dalla sopraffazione. Come nel rovescio della legge, talora, si nasconda l’abuso.
Da qui la costante esigenza di risanare il lessico, di tornare ai fondamenti del discorso e di allargare il quadro. Come puntualmente avviene anche in La prigione più grande del mondo. Una storia dei Territori Occupati, ora disponibile in italiano, tradotto da Michele Zurlo, nel catalogo dell’editore Fazi. Anche qui si parte dall’ambiguità delle parole: è in qualche modo limitativo – sostiene Pappé – parlare di “occupazione” quando ci si riferisce agli esiti della guerra dei sei giorni. Quantomeno se usiamo questo termine nel modo in cui generalmente lo usa il lessico diplomatico e politico, cioè per indicare una situazione transitoria, organizzata sul contingente, aperta a un’evoluzione. Nulla che assomigli alla realtà dei territori che nel 1967 passarono sotto il controllo di Israele. Un controllo strutturale, totale, che richiederebbe altre categorie per definirsi. Perché in realtà – questa la tesi – la storia e le modalità di quell’occupazione non vengono da una guerra quanto piuttosto da ragioni profonde e da una prospettiva strategica meticolosamente pianificata, con modelli e dispositivi di dominio pensati fin da subito per il lungo periodo.
Attingendo a una vasta mole di documenti, Pappé dettaglia infatti il piano che già nel 1963 aveva reso l’esercito israeliano perfettamente pronto a «governare, per mezzo di un’infrastruttura giudiziaria e amministrativa, la vita di un milione di palestinesi» in territori che sarebbero stati effettivamente occupati solo quattro anni dopo. Il “piano Shacham” (dal nome del colonnello che lo aveva ideato) era stato minuziosamente discusso e articolato fra membri della sezione legale dell’esercito, funzionari del Ministero dell’Interno e accademici dell’Università Ebraica del quartiere di Givat Ram, nelle cui aule si svolgevano gli appositi corsi di addestramento.
Il progetto di occupare particolarmente la Cisgiordania alla prima occasione utile era insomma molto più che un’opzione, in coerenza del resto con ambizioni coltivate fin dal 1956, per non dire dal 1948. Ambizioni intrinseche a quell’ideologia coloniale che, per dirla con Wolfe, non è evento ma struttura. Secondo i più ineludibili principi sionisti «la lotta per la sopravvivenza dello Stato ebraico dipendeva, da un lato, dalla sua abilità di esercitare il proprio controllo sulla maggior parte della Palestina storica e, dall’altro, dalla sua capacità di ridurre considerevolmente il numero dei palestinesi che vi risiedeva». Di questo avrebbe infatti discusso il governo israeliano nel giugno del 1967, lacerato fra «la brama di possedere nuove terre» e l’impossibilità, per ragioni di prudenza, di «cacciare completamente la popolazione che le abitava» o peggio.
Da qui il compromesso: il recupero dei regolamenti d’emergenza inglesi del 1945 (allora gli stessi ebrei li avevano definiti nazisti, ma ormai non importava più). In sostanza, sui territori si sarebbe stesa una rete di governatori militari aventi autorità illimitata su ogni aspetto della vita degli occupati, ossia «la più vasta mega-prigione che sia mai esistita, destinata a un milione e mezzo di persone – un numero che salirà poi a quattro milioni –, le quali ancora oggi, in un modo o nell’altro, rimangono rinchiuse tra le mura reali o immaginarie di un carcere del genere».
La mega-prigione, con il poderoso apparato burocratico costruito per governarla, è dunque per Pappé il prisma attraverso cui rileggere quella lunghissima storia, ancora aperta. La risposta approntata non per gestire un’occupazione ma «per dare risposta pratica ai bisogni ideologici del sionismo». Perché solo le claustrofobiche geometrie carcerarie possono costringere gli uomini a vivere senza diritti. In questa chiave tutto viene riletto e tutto acquisisce una nuova luce: il piano edilizio di Gerusalemme nel 1968; la disseminazione dei “cunei” de-arabizzati; i piani edilizi sharoniani; le politiche demografiche; la resistenza palestinese; gli accordi di Oslo (che Pappé non esita a definire farseschi); i dibattiti sui territori occupati fra illusioni e finzioni.
Tutto si tiene e si spiega nell’alternanza fra regimi carcerari più o meno brutali: l’opzione della cosiddetta “prigione a cielo aperto”, cioè la concessione di un’autonomia formale fatta passare come cornice per il “processo di pace” (così ancora nelle proposte di Dayan del 1979), o la “prigione di massima sicurezza”, ossia l’inasprimento dei dispositivi di dominazione a seguito dei tentativi di rivolta, particolarmente dalla prima Intifada in avanti. E di nuovo un’accurata, sistematica ripulitura del lessico, accompagnata a una sempre maggiore ferocia nella prassi carceraria.
In fondo, scrive l’autore, «più che degli occupati questo testo è una storia degli occupanti, nel senso che cerca di spiegare il meccanismo ideato per governare milioni di palestinesi anziché di ricostruirne le vite. I palestinesi sono presenti nel libro, ma questo è più un racconto della loro oppressione che delle loro aspirazioni, del tessuto sociale, della produzione culturale e di altri aspetti della loro vita assolutamente degni della storia che un giorno, mi auguro, verrà scritta». Nell’attesa, però, in una fase che sembra aver accantonato la questione assieme alle tradizioni politiche che la valorizzavano, già ricominciare a discuterne è una conquista.
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