Forse qualcuno si sorprenderà scoprendo che, a dispetto di rapporti diplomatici relativamente stabili e sereni, Svizzera e Italia, fin dalla nascita di quest’ultima come Stato unitario nel 1861, hanno sempre ipotizzato e congetturato di doversi affrontare militarmente. La storia di questi piani di guerra d’invasione viene ora svelata attraverso un imponente lavoro di documentazione dallo storico Leonardo Malatesta in un pregevole saggio edito da Dadò. Il Corriere del Ticino ha intervistato l’autore.
di Matteo Airaghi da swissinfo.ch del 10 settembre 2020
Dottor Malatesta, come mai tanta attenzione da parte sua per la Svizzera e per la storia militare dei complicati confini della regione insubrica? Quali sono le caratteristiche più interessanti del nostro territorio e della frontiera sud del nostro Paese dal punto di vista dello studioso e dell’appassionato?
Leonardo Malatesta: L’interesse che nutro per il territorio elvetico, proviene dai miei studi in storia militare, iniziati per il conseguimento della laurea in storia presso l’Università di Venezia. Nel corso della mia tesi, riguardante le fortificazioni italiane ed austriache nella zona tra l’altipiano di Asiago e quelli trentini di Folgaria, Lavarone e Luserna sentii parlare della frontiera con la Svizzera e delle fortificazioni che l’Italia costruì nel primo decennio del Novecento, in Valtellina per difendersi da un eventuale attacco proveniente dalla Confederazione Elvetica. In Italia e anche in Svizzera, ho notato che c’erano delle notizie su questi piani di fortificazione e non solo, ma c’era ancora tanto da approfondire.
Il suo libro è una miniera di documenti, spesso sorprendenti: quali sono state le sue fonti e come mai fino ad oggi a nessuno era venuto in mente di raccoglierle e commentarle in modo sistematico?
La fonte principale del mio libro, sono stati i documenti presenti presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma. In tre faldoni, sono raccolti molti documenti che riguardano l’Esigenza S, il famoso Piano Vercellino. Fino ad oggi, ci sono stati alcuni libri e articoli che hanno trattato del tema, ma mai in modo specifico ed approfondito. Vedendo, questa mancanza, da storico, ho pensato di studiare compiutamente il tema, per la maggior parte inedito, focalizzando l’attenzione sul Piano Vercellino, ma cominciando la mia analisi dal 1861 e dai rapporti militari che ci furono tra le due nazioni, sia nei periodi di pace che anche durante la Prima guerra mondiale.
Se i preparativi di invasione da parte dell’Italia fascista o i piani offensivo-difensivi elvetici del colonnello Keller sono argomento piuttosto noto al grande pubblico, leggendo il suo libro si ha l’impressione che, a dispetto di relazioni diplomatiche in apparenza sempre tranquille, fin dagli albori dell’unità gli ambienti militari del Regno congetturavano fantomatiche conquiste almeno dei cantoni meridionali della Confederazione: fu davvero così?
L’Italia ebbe sempre un occhio vigile verso la Svizzera, soprattutto verso i territori, come il Ticino dove c’era una comunità italiana. Dall’unità in poi lo Stato maggiore tenne sotto controllo i confini con la Confederazione ed un primo esempio tangibile fu la fortificazione della Valtellina, con le opere di Montecchio Nord a Colico, allo sbocco della Val Chiavenna, Canali a Tirano allo sbocco della Val Poschiavo e Dossaccio di Oga allo sbocco della zona di Livigno e del Cantone dei Grigioni. Non erano solo piani sulla carta ma anche preparativi sul terreno.
Fulcro della sua ricerca rimane comunque il famigerato “Piano Vercellino”: di che cosa si tratta e quali erano le sue linee operative essenziali?
L’Esigenza S, divenne Piano Vercellino, dal nome del generale Mario Vercellino, il comandante dell’Armata del Po, che secondo i dettami del piano, doveva effettuare l’attacco principale per l’invasione della Svizzera. Il piano operativo, molto dettagliato, che partiva da una attenta analisi della geografia di confine e della dislocazione delle forze elvetiche, prevedeva l’invasione del Ticino, tenendo conto anche delle fortificazioni che esistevano in Ticino e che rappresentavano un ostacolo per l’avanzata delle fanterie.
Fu però l’unico piano d’attacco elaborato dall’Italia, perché fino ad allora, verso la Svizzera, i vari progetti ed anche le fortificazioni costruite avevano un compito esclusivamente difensivo. Nel periodo fra le due guerre, con l’ascesa al potere del regime fascista, l’ipotesi Svizzera non era fra le primarie, perché i pericoli potevano arrivare da altre zone, come al confine con la Francia, dove l’Italia, rafforzò i confini con le fortificazioni del Vallo Alpino del Littorio, mentre nulla venne mutato al confine con la Confederazione.
Furono importanti per l’elaborazione del progetto operativo, le informazioni raccolte dal Servizio Informazioni Militari, lo spionaggio italiano nel corso del ventennio. Nel piano era previsto che l’attacco fosse dapprima terrestre, con una netta superiorità italiana rispetto alle forze militari del Ticino che avrebbe schierato truppe da montagna. In un secondo momento, ci sarebbe stato l’appoggio decisivo dell’aeronautica.
Alla fine però (e per fortuna, aggiungerei) non se ne fece niente: per quali ragioni e quanto, secondo lei, andammo davvero vicino tra il 1940 e il 1943 ad un cruento bagno di sangue sul territorio ticinese, vallesano e grigionese tra invasori italiani e patrioti svizzeri?
Il Piano Vercellino non fu mai applicato perché la Svizzera non rappresentò durante la Seconda guerra mondiale un obiettivo concreto e perché neutrale. Basti pensare che l’Armata del Po, che avrebbe avuto il compito principale di attaccare la Confederazione già nel febbraio del 1941 venne trasferita al sud Italia, segno che gli interessi dello Stato Maggiore italiano verso la Confederazione erano presto scemati.
Comunque di certo da storico militare posso dire che per gli italiani non sarebbe stata una passeggiata. Non si andò mai davvero vicino ad uno scontro tra italiani ed elvetici, mentre negli ultimi giorni dell’aprile 1945, si sfiorò il bombardamento di Chiasso da parte dei tedeschi ammassati vicino al confine che volevano entrare in Svizzera. Solamente grazie all’intervento del colonnello Mario Martinoni non accadde nulla.