HomeIn primo pianoIl "Viaggio dell'Eroe" celebra il Milite ignoto 90 anni dopo

Il “Viaggio dell’Eroe” celebra il Milite ignoto 90 anni dopo

Sarà il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ad accogliere il 2 novembre al binario 1 della Stazione Termini di Roma il treno speciale che da Aquileia a Roma ripercorrerà il percorso che 90 anni fa portò il corpo del Milite ignoto nella Capitale. L’intera iniziativa, costituita da una mostra itinerante e dal viaggio dello speciale convoglio, prenderà le mosse dal Friuli Venezia Giulia e, attraversando l’Italia, oggi come allora, toccherà 15 città della penisola effettuando le stesse tappe toccate nel 1921, con l’obiettivo di testimoniare il sacrificio e l’eroismo di migliaia di uomini che hanno difeso la patria. Grande è l’affluenza delle cittadinanze nelle stazioni dove il treno ferma, e in a Conegliano una folla di ex combattenti e cittadini desiderosi di salutare il tricolore che ricopriva il feretro del Milite Ignoto ha costretto il ”Treno dell’Eroe” ad una fermata forzata.

Per le celebrazioni del 4 novembre si terrà a Roma, a Piazza del Popolo, un concerto di Ennio Morricone.

Il 4 novembre Rai Storia dedicherà al Milite Ignoto diversi appuntamenti nel palinsesto: alle ore 17:35 e alle 0:35 e 5:35 del 5 novembre.

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Questa è la pubblicità prodotta dal ministero della Difesa per celebrare l’evento:

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LA LEGGENDA DEL MILITE IGNOTO

del Tenente Colonnello Lorenzo Cadeddu

Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 4 (ottobre 1998) 80° della Vittoria 1918-98, pp. 83-111

Il “treno dell’eroe”  da Aquileia a Roma. Udine, 29 ottobre 2011. In questo modo vogliamo ”ricordare con emozione e affetto tutti coloro che morirono in tutte le guerre, ma anche l’ orgoglio per un episodio centrale per l’identità nazionale degli italiani”. Lo ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, spiegando il significato del ”treno dell’eroe”, partito da Cervignano, poco distante da Aquileia, organizzato dalle Ferrovie dello Stato e dal ministero della Difesa per far memoria del viaggio della salma del milite Ignoto, 90 anni fa, da Aquileia a Roma. Nella basilica di Aquileia c’è stata una cerimonia religiosa, presieduta dall’arcivescovo De Antoni e alla quale ha partecipato anche il presidente della Regione Fvg, Renzo Tondo. Sermpre ad Aquileia La Russa ha visitato il cimitero degli eroi. Da Cervignano, invece, ha preso le mosse il convoglio, con tre vagoni, con la mostra sul Milite iInoto e una riproduzione fedele del vagone che portò la bara del soldato. Il viaggio si concluderà a Roma il 2 novembre, dove sarà accolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. (ASCA)

Alcuni anni or sono, ma la cosa si è ciclicamente ripetuta, una parte della stampa nazionale probabilmente a corto di più ghiotte notizie, riferì ai distratti lettori circa una disputa architettonico-paesaggistica sorta tra alcuni intellettual-opinionisti della più recente generazione sull’ubicazione e l’aspetto architettonico del Vittoriano. Ci fu chi lo paragonò ad una gigantesca macchina da scrivere, chi suggerì, molto seriamente, di venderlo ad un petroliere texano o a qualche industriale giapponese, chi propose di “smontarlo” per riedificarlo in un imprecisato punto della pianura padana e chi, più prudentemente, lanciò l’idea di lasciarlo dov’era rompendo però la monotonia di quel bianco con grandi pois di variegati colori.

La polemica lasciò indifferente la maggior parte degli italiani ed in particolare quelli che continuano a vedere, in quel mausoleo, un simbolo di alto valore spirituale. Per la verità il Vittoriano non ha mai avuto vita facile giacché fu oggetto di polemica sia sotto l’aspetto architettonico che dello scandalismo politico.

Tutto cominciò a Roma il 9 gennaio 1878. Alle ore 14.30 Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, moriva nel suo letto in una stanza al primo piano del Quirinale.

Il successivo giorno 17, dopo un lungo e complesso cerimoniale, i resti mortali del sovrano venivano trasferiti, tra due ali di folla commossa, al Pantheon per esservi tumulati in una tomba provvisoria.

In tutta Italia la scomparsa del “Padre della Patria” , così era soprannominato il sovrano, suscitò sentimenti di genuino cordoglio che culminarono nella creazione di comitati che si proponevano di erigere in ogni comune monumenti funebri che celebrassero e tramandassero ai posteri le glorie del sovrano artefice dell’unita’ politica e geografica degli italiani.

In tutti i comuni, dai più grandi ai più piccoli, furono eretti monumenti, scoperte lapidi, intitolate vie e piazze. Questo spontaneo movimento d’opinione non poteva passare inosservato ai politici e così nel 1881 il Governo, d’intesa con la Real Casa, bandì un pubblico concorso per la progettazione di un monumento funebre, dedicato al defunto sovrano, da erigersi in Roma.

Il concorso, aperto a tutti, superò le più ardite possibilità architettoniche: archi, piramidi, coni, colonne, statue equestri e non, furono le soluzioni proposte. In allegoria i bozzetti rappresentavano tutta la flora e la fauna sino ad allora conosciute. In bassorilievo erano raffigurati i principali avvenimenti e le più significative benemerenze acquisite dal sovrano ed alle quali il popolo era particolarmente legato.

Il concorso fu vinto da uno straniero, il francese Nenot che, intascato il premio di 50 mila franchi, non si domandò mai perché il suo progetto non venisse realizzato.

Il concorso venne riproposto il12 dicembre dell’anno successivo. Questa volta il bando precisava che l’opera doveva essere realizzata sul Colle Capitolino, ritenuto più idoneo sotto il profilo storico-politico. Per l’esame dei progetti venne nominata una commissione presieduta dall’On. Zanardelli, futuro Presidente del Consiglio e della quale facevano parte parlamentari ed artisti. Il 9 febbraio 1884, dopo due anni di discussioni, la Commissione attribuì il primo premio all’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi, artista giunto a Roma

qualche anno prima quale studente di ornato.

Al secondo posto la Commissione classificò l’architetto Manfredo Manfredi. Il 10 gennaio 1885 il Sacconi ricevette il decreto di nomina a sovrintendente e direttore dei lavori che ebbero ufficialmente inizio il 22 marzo dello stesso anno con la posa in opera della prima pietra da parte di re Umberto I. Il Sacconi non fece a tempo a vedere realizzata la sua opera giacchè si spense a Pistoia il 23 settembre del 1905.

La direzione dei lavori venne affidata unitariamente a tre architetti: Gaetano Kock, Pio Piacentini e quel tal Manfredo Manfredi già collaboratore del Sacconi e secondo classificato al medesimo concorso.

Alle difficoltà di ordine architettonico, si aggiunsero polemiche scoppiate negli ambienti politici dell’opposizione circa i materiali impiegati per la realizzazione del monumento.

Il Sacconi, infatti, aveva previsto che l’opera venisse realizzata in travertino, una pietra calda estratta nei colli laziali e che ben si intonava all’ambiente circostante. Secondo l’opposizione, invece, la Commissione aveva imposto la realizzazione con marmo “botticino” il cui unico pregio era quello di essere estratto nella montagna bresciana, collegio elettorale dell’On. Zanardelli.

Per completare il monumento, sulla piattaforma che sovrasta la zoccolatura con la Dea Roma, venne situata una statua che rappresenta la gloria di Vittorio Emanuele II.

Anche per questa, nel 1889, venne bandito un concorso vinto dallo  scultore friulano Enrico Chiaradia di Stevenà di Sacile. Il suo progetto, però, era completamente diverso da quanto immaginato dal Sacconi che avrebbe preferito l’immagine di un re assiso sul trono e la Dea Vittoria che gli pone sul capo un serto trionfale.

Anche la realizzazione di questa statua equestre innescò una polemica tra il Chiaradia ed il Sacconi. Quest’ultimo, che caldeggiava il progetto del secondo classificato, tale Cantalamessa, giurò che mai il cavallo del Chiaradia sarebbe salito sul Vittoriano. Il Cantalamessa, da parte sua, aveva composto una quartina che recitava così:

Il re a cavallo era il gran soggetto ma il capro d’opra fu aspettato invano nacque solo un cavallo da carretto per il gran monumento sacconi ano. Ma la speranza del Cantalamessa fu vana.

La statua equestre a Vittorio Emanuele II è lì, dove ancora oggi può essere ammirata. Portata a termine nel 1910 da Emilio Gallori, per la sopravvenuta morte nel 190l del Chiaradia, l’opera richiese la fusione di circa 50 tonnellate di bronzo. Per dare un’idea della grandezza dell’opera, esiste una rara fotografia scattata prima che la figura di Vittorio Emanuele II venisse incavalcata sul quadrupede: all’interno del ventre dell’animale si possono vedere undici eleganti signori che banchettano attorno ad un tavolo.

Finalmente, il Vittoriano venne inaugurato il 4 giugno 1911 dal nuovo sovrano: Vittorio Emanuele III.

Ma quello che doveva essere il monumento funebre a Vittorio Emanuele II, Padre della Patria, rimase vuoto sino al 4 novembre del 1921 allorché nella zoccolatura curvilinea, sotto la statua della Dea Roma, in un loculo ricavato da un unico blocco di botticino cavo all’interno, ebbe solenne sepoltura la salma di un soldato sconosciuto.

Davanti al significato morale e spirituale di questo simbolo, ogni disquisizione di intellettual-opinionisti ci sembra ben poca cosa, soltanto una bassezza umana.

Affinché sia più chiaro il significato di questo soldato sconosciuto che riposa al Vittoriano, mi piace sottolineare che all’interno del mausoleo è stato allestito un “museo delle Bandiere” nel quale sono custodite tutte le Bandiere di guerra delle unità militari che hanno preso parte alle due guerre mondiali e delle unità costituite e disciolte a partire dal 1948, nascita della Repubblica.

Vediamo ora come si giunse alla designazione del “Milite Ignoto” ed alle solenni onoranze che gli vennero tributate.

Tutto può essere fatto risalire alla primavera del 1921, quando il colonnello d’artiglieria Giulio Douhet, italianissimo nonostante il nome, dalle colonne del settimanale “Dovere” di cui era direttore, lanciò l’idea di onorare i sacrifici e gli eroismi della collettività nazionale nella salma di un soldato sconosciuto che rappresentasse idealmente il marito, il figlio, il padre di quanti non avevano la possibilità di onorare le spoglie mai ritrovate del familiare disperso. Ma nonostante la concordanza di tutte le forze politiche, la lenta burocrazia italica creava ogni giorno seri ostacoli alla sua realizzazione.

L’idea del Col. Douhet, frattanto, varcava i confini nazionali per essere recepita e realizzata da Francia, Inghilterra, Belgio e Stati Uniti prima che in Italia le Camere prendessero in esame la relativa proposta di legge.

Finalmente, nell’agosto del 1921 il disegno di legge venne presentato alle Camere e discusso: relatori l’On. Cesare Maria De Vecchi a Montecitorio e il Sen. Del Giudice a Palazzo Madama.

L’11 agosto il provvedimento veniva promulgato con il numero 1075 divenendo operante.

Il testo licenziato affidava al Ministro della Guerra la definizione delle modalità esecutive per la designazione e per le onoranze da rendere alla salma del caduto senza nome.

All’epoca, il dicastero della guerra era retto dall’On. Luigi Gasparotto, deputato di Sacile eletto alla Camera nel 1913 nel collegio elettorale di Milano. Sul Gasparotto, senza entrare nel merito della sua attività politica, si può dire che sebbene esentato dal prestare servizio militare perchè parlamentare e nonostante i 42 anni ormai compiuti, rinunciò al beneficio, combattè la sua guerra meritando, tra le altre, una Medaglia d’Argento al Valor Militare per il comportamento tenuto durante la battaglia per la conquista di Oslavia.

MINISTERO DELLA GUERRA

UFFICIO ONORANZE SOLDATO IGNOTO

N. 25 di prot. Roma, 20 agosto 1921

Al Comando del Corpo d’Armata di Trieste

All’Ispettore per le Onoranze Salme – Caduti – Gorizia

e per conoscenza al Comando del Corpo d’Armata di Bologna – Verona – Milano – Al Ministero della Marina, alla Direzione Centrale Sanità al Comando Generale dei CC.RR., della Guardia di Finanza e R. Guardia di P.S. ed al Sindaco del Municipio di Udine ed a quello di Aquilea.

Il 4 novembre p.v. si renderanno in Roma solenni onoranze alla salma senza nome, di un soldato caduto in combattimento alla fronte italiana nella guerra italo-austriaca 1915-1918.

La salma che avrà sepoltura in Roma all’Altare della Patria, deve essere esumata nelle zone più avanzate delle nostre linee, dopo accurati e scrupolosi accertamenti perchè sia garantita l’autenticità che essa appartenga ad un soldato italiano caduto in combattimento.

Affido pertanto il delicato compito all’Ispettore per le Onoranze Salme Caduti (Sua Eccell. Ten. Generale Paolini) e prescrivo che a tale scopo esso costituisca una speciale Commissione da lui presieduta e composta: del Colonnello Paladini, capo dell’Ufficio Onoranze Salme Caduti e di un Ufficiale Superiore Medico destinato da] Direttore tecnico delle Onoranze Salme Caduti di questo Ministero. Ne faranno parte quattro ex combattenti e cioè: un Ufficiale, un sotto ufficiale, un caporale ed un soldato, che l’Ispettore anzidetto farà designare dal Sindaco di Udine.

Fervente sostenitore dell’idea del Douhet, Gasparotto già il 20 agosto fu in grado di emanare le prime disposizioni organizzative per le solenni onoranze da tributare alla salma di un caduto in combattimento sul fronte italiano nella guerra italo-austriaca 1915-1918. Per la circostanza, nell’ambito del dicastero della guerra venne costituito un Ufficio Onoranze al Soldato Ignoto e, le disposizioni a cui poc’anzi facevo riferimento, vennero inviate per competenza al Comando del Corpo d’Armata di Trieste, già 5° Corpo d’Armata e oggi l° Comando Forze di Difesa, e all’Ispettore per le onoranze alle salme dei caduti in guerra di Gorizia.

Per conoscenza ricevettero le stesse disposizioni alcuni altri comandi militari e i sindaci di Udine e di Aquileia.

Articolate in un preambolo e tre paragrafi (esumazione della salma, cerimonia nella Basilica di Aquileia e trasferimento a Roma), le disposizioni prevedevano la nomina di una commissione “ad hoc” presieduta dal Ten.Gen. Giuseppe Paolini, Ispettore per le onoranze ai caduti in guerra di Gorizia e decorato di Medaglia d’Oro al V.M..

Fecero altresì parte della commissione il Col. Vincenzo Paladini, capo ufficio del Gen. Paolini, il Maggiore medico Nicola Fabrizi e quattro ex combattenti da designarsi a cura del Sindaco di Udine.

Avrebbe accompagnato la commissione, ma senza farne parte integrante, don Pietro Nani, cappellano militare e collaboratore del poeta Giannino Antona Traversi nella realizzazione del “cimitero degli invitti” sul Colle di Sant’Elia, oggi Redipuglia. Circa l’esumazione delle salme, le disposizioni prescrivevano che le ricerche dovessero essere condotte “nei tratti più avanzati dei principali campi di battaglia:

San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio e Capo Sile”.

Su ciascun campo di battaglia, alla presenza di tutti i membri della commissione, doveva essere ricercata ed esumata la salma di un caduto certamente non identificabile e, per ciascuna esumazione doveva essere redatto un verbale che precisasse tutte le cautele adottate durante l’esumazione.

Le undici salme, infine, dovevano essere sistemate in altrettante identiche casse di legno, fatte allestire a Gorizia e traslate nella Basilica di Aquileia entro il 27 ottobre.

Il successivo giorno 28, dopo la benedizione dei feretri, la mamma di un disperso in guerra avrebbe designato la salma che doveva essere onorata in eterno come “Ignoto Militi”.

La bara prescelta doveva essere collocata all’interno di una cassa di legno

COPIA Udine, li 26 Settembre 1921

(Raccomandata-Espresso)

MUNICIPIO DI UDINE

n. 13322 –

In base alla circolare di Sua Eccellenza il Ministro della Guerra con la quale conferiva a me l’onorifico incarico di designare: i membri della Commissione incaricata della ricerca di una salma di militare: ignoto caduto in combattimento alla fronte italiana, ho emanato, in data odierna un provvedimento col quale ho nominato la S.V. a far parte della Commissione stessa. Nella certezza che Ella vorrà accettare: di compiere così pietosa c patriottica missione, La invito ad intervenire all’adunanza che la Commissione terrà in Udine presso la sede dell’Ufficio Militare per le onoranze ai caduti in guerra – Via Palladio (palazzo Caiselli) – nel giorno di Domenica 2 Ottobre p.v. alle ore 9.

Con osservanza.

IL SINDACO

F.to Luigi Spezzotti

All’On. Signor

Tognasso cav. Augusto

Giuseppe De Carli

Sartori Giuseppe

Moro Massimo

Trivulzio cav. Carlo

Marano Luigi

Vaccaroni Ivanoe

Duca Lodovico

lavorato ad ascia e rivestita di zinco, fatta allestire a cura del Ministero della Guerra e

quindi doveva essere trasferita a Roma mediante uno speciale convoglio ferroviario.

I rimanenti dieci soldati ignoti sarebbero stati tumulati nel cimitero retrostante la Basilica di Aquileia.

Queste le disposizioni del Ministro per l’attuazione delle quali mancava l’adempimento del Sindaco di U dine: la designazione degli ulteriori quattro membri della commissione.

Nel capoluogo friulano, intanto, i sindaci di Gorizia, Aquileia e Udine, si riunirono per mettere a punto alcuni problemi e stabilendo, tra l’altro, di chiedere a Gabriele D’Annunzio di partecipare all’ esumazione di una salma da ricercarsi alla foce del fiume Timavo.

La richiesta, formulata a mezzo telegramma, fu spedita il 12 settembre ed a mezzo telegramma il Comandante rispose: “Signor Sindaco di Udine grazie per l’altissima offerta. Manderò uno dei miei ufficiali con una mia lettera per chiarimenti e accordi. Primo cittadino saluto e intera città che amo ed ammiro profondamente”. L’iniziativa dei tre Sindaci non rientrava nella loro discrezionalità ed in particolare in quella del Sindaco di Udine giacchè le disposizioni prevedevano la nomina di una sola commissione per tutte le esumazioni e senza occasionali inserimenti.

Mi sia consentito osservare a questo proposito che la natura egocentrica del poeta non avrebbe certamente favorito il sereno svolgimento delle ricerche e quindi la necessaria riservatezza sui lavori della commissione.

Si giunse così al 26 settembre. In quel giorno, con specifica delibera, il Sindaco di Udine, Luigi Spezzotti, designò i rimanenti quattro membri mancanti al completamento della commissione.

Risultarono designati:

– Ten. Augusto Tognasso di Milano, mutilato con 36 ferite;

– Serg. Giuseppe De Carli di Azzano Decimo, decorato di Medaglia d’Oro al V.M.;

– Cap.Magg. Giuseppe Sartori di Zugliano, decorato di Medaglia d’Argento al V.M.;

– Soldo Massimo Moro di Santa Maria di Sclaunicco, decorato di Medaglia d’Argento.

Per completezza di trattazione dirò che vennero designati anche quattro membri

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COPIA

MUNICIPIO DI UDINE

N. 13322

Udine, lì 26 settembre 1921

IL SINDACO

vista la circolare 20 agosto u.s. n. 25 con la quale Sua Eccellenza il Ministro della Guerra nel comunicare che il giorno 4 novembre p.v. saranno rese in Roma solenni onoranze alla salma di un soldato ignoto caduta in combattimento alla fronte italiana nella grande guerra di liberazione stabilire, fra le altre norme, che della Commissione speciale che sarà presieduta da Sua Eccellenza il Tenente Generale Paolini facciano parte quattro ex combattènti (un ufficiale, un sottufficiale, un caporale ed un soldato) la cui scelta è stata

demandata al Sindaco sottoscritto;

tenuto presente la opportunità pure riconosciuta dal Ministro che siano designati anche 4 membri supplenti al fine di assicurare l’ininterrotto funzionamento della Commissione di cui trattasi

DESIGNA

a far parte della Commissione sopracitata gli ex combattenti di cui appresso:

a) membri effettivi

Ufficiale – Tenente TOGNASSO cav. Augusto – Milano via Procaccini, 14 – Mutilato – proposto per medaglia d’oro.

Sottufficiale – Sergente DE CARLI Giuseppe – Tiezzo d’Azzano X

– medaglia d’oro.

Caporale – Caporal Maggiore SARTORI Giuseppe di Francesco –

Zugliano – una medaglia d’argento, una di bronzo.

Soldato – MORO Massimo di Guerrino – Santa Maria di Sclaunico.

(Lestizza) – una medaglia d’argento.

b) membri supplenti

Ufficiale – Colonnello TRIVULZIO Cav. Carlo – Udine 5 medaglie di bronzo.

Sottufficiale – Sergente VACCARONI Ivanoe – Udine – una medaglia d’argento, due di bronzo e due croci di guerra.

Caporale – Caporal Maggiore MARANO Luigi. di Antonio –

Persereano (Pavia di Udine) una medaglia d’argento.

Soldato – DUCA Lodovico di Antonio – Pozzuolo – una medaglia di bronzo.

IL SINDACO

f.to Spezzotti

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supplenti: Col. Carlo Trivulzio e Serg. Ivanoe Vaccaroni entrambi di Udine, Caporal Maggiore Luigi Marano di Persereano (Pavia di Udine) e Sold. Lodovico Duca di Pozzuolo.

Ciò avrebbe consentito alla commissione di funzionare anche in caso di temporanea indisponibilità di qualche membro effettivo.

Con la stessa delibera venne approvata la coniazione di una medaglia commemorativa che l’artista udinese Aurelio Mistruzzi si era offerto di realizzare gratuitamente.

Del conio doveva essere realizzato un solo esemplare in oro da collocarsi sul coperchio della bara, un esemplare in argento per il Sovrano e venti esemplari in bronzo per alcune alte cariche dello Stato e per i Musei di storia patria di Udine, Aquileia, Gorizia e Roma.

Sulla stampa, intanto, venivano pubblicate alcune indiscrezioni circa il convoglio ferroviario che avrebbe trasportato il “Milite Ignoto” a Roma. Alcuni suggerivano di dare ai carri ferroviari la forma di nave mentre altri suggerivano la forma di carri romani…..

I designati membri della commissione vennero convocati presso la sede udinese dell’Ufficio per le Onoranze ai Caduti per una riunione indetta per le ore 09.00 di domenica 2 ottobre nel Palazzo Caiselli in via Palladio.

Alla riunione -durante la quale vennero definiti il piano per le ricerche, le modalità per la designazione e altri problemi organizzativi e logistici- partecipò tutto il personale comunque addetto ad operare con la commissione (autisti, falegnami, scavatori, ecc.).

Al termine, il Gen. Paolini pretese da tutti i convenuti formale giuramento che mai avrebbero rivelato i luoghi ove si sarebbero svolte le ricerche e, al termine della riunione, la commissione, attraverso la Strada Statale 13, Ponte della Priula, Bassano del Grappa e la statale della Valsugana, giunse a Trento.

Prima di inoltrarmi nella narrazione, è doverosa una precisazione a premessa. Ho detto che il Gen. Paolini fece giurare a tutti che mai avrebbero rivelato i luoghi in cui si sarebbero svolte le ricerche. Il mio lavoro, durato oltre quattro anni, ha preso le mosse dalla lettura e soprattutto dall’analisi di una sorta di diario lasciato scritto dal Tenente Tognasso. L’ufficiale, debbo dirlo a suo onore, non ha mai nominato località o precisato i luoghi nei quali si svolsero le ricerche. Tutto ciò che andrò raccontando è solo frutto di una mia personale interpretazione delle descrizioni fisiche dei luoghi fatta dall’ufficiale, suffragate da notizie provenienti da altre fonti.

Probabili località di esumazione delle 11 salme di soldati ignoti

Vediamo, dunque, come si svolsero le ricerche.

Lunedì 3 ottobre 1921. La commissione muove da Trento per la ricerca della prima salma.

Ha scritto il Tognasso: “…attraverso Rovereto, avvolta ancora nel silenzio del riposo e quando il sole stava per baciare le cime di quei monti che furono teatro di grandi gesta…”.

Dunque, la zona è vicino a Rovereto e dalla posizione del sole “..che bacia..” i monti è verosimile ipotizzare che la commissione abbia proceduto verso Est Sud-Est. Proprio a Sud-Est di Rovereto erano situati i punti più avanzati della massima penetrazione italiana: Zugna Torta, Coni Zugna, Costa Violina, Monte Forno ed altre località conquistate d’impeto nel 1915 e perse nel 1916 a seguito della “Strafe Expedition”.

Nonostante le più accurate ricerche, tuttavia, non venne rinvenuta alcuna salma insepolta.

Venne allora deciso di esumarne una tra quelle di ignoti sepolti in un vicino cimitero di guerra che, come ha lasciato scritto il Tognasso, raccoglieva “..il maggior numero di eroi..”.

Rifacendoci al 1921, il maggior cimitero di guerra del trentino sorgeva in località Lizzana, sul Colle di Castel Dante, proprio vicino a Rovereto.

All’epoca, vi erano tumulate 11.455 salme provenienti da circa 200 cimiteri più piccoli disseminati nella regione trentina.

Di queste circa 6.000 appartenevano ad ignoti. Vale la pena di ricordare come durante la guerra i caduti venivano tumulati, se possibile, in piccoli cimiteri allestiti a ridosso delle trincee e senza che venissero adottate particolari cautele. I cadaveri venivano sepolti nella terra nuda, se possibile in fosse singole, molto spesso in fosse comuni.

Nel caso in cui, dopo il combattimento, il campo di battaglia rimanesse in mano al nemico, tutto era affidato al suo buon cuore e non sempre questo aveva la possibilità o la volontà di occuparsi dei morti nemici.

Tra questi 6.000 caduti ignoti, dunque, è stata presumibilmente esumata la prima salma. Lo scavo venne eseguito a mano e pian piano vennero portate alla luce le diverse parti del corpo e, alla fine, per dirla con il Tognasso “…apparve un fante in atto di tranquillo e sereno riposo, vestito della sua uniforme e con indosso le giberne…”.

L’esame degli indumenti e degli effetti personali non lasciò presumere una sua possibile identificazione e la salma venne ricomposta in una delle undici casse fatte allestire a Gorizia.

Per la ricerca della seconda salma la commissione, attraverso il Pian delle Fugazze, si trasferì sul massiccio del Pasubio che per tutta la durata della guerra rientrò nel settore di competenza del 50 Corpo d’Armata, oggi 10° Comando Forze di Difesa.

Il Tognasso ha lasciato scritto che da porte del Pasubio la commissione raggiunse “..la vetta più alta..”.

Nel massiccio del Pasubio, sul versante Nord, tre sono le cime più alte e tutte e tre a ridosso l’una dell’ altra: Monte Palom (mt 2236), il Dente italiano e il Dente austriaco (mt 2200 e mt 2236 rispettivamente).

I due Denti rappresentavano i punti in cui furono maggiormente sentiti gli effetti della particolare guerra che vi fu combattuta: guerra di mina e contro mina.

Vista l’impossibilità di combattere il nemico con sistemi convenzionali perche fanterie ed artiglierie erano sapientemente riparate in caverna, entrambi i contendenti giunsero alla conclusione che per sloggiare il nemico fosse necessario minare la base della montagna in modo tale che ad ogni esplosione il franamento di grotte e gallerie seppellisse centinaia di combattenti.

Vediamo dunque, in quale punto del Pasubio possono essersi svolte le ricerche.

Escluderei il Monte Palom perchè più arretrato rispetto ai due Denti e perché vi era solo un osservatorio di artiglieria mai direttamente coinvolto nei combattimenti. Con maggior convinzione escluderei il Dente austriaco perché potevano esservi recuperate soltanto salme di caduti di quella nazionalità.

Rimane, per esclusione, il Dente italiano che, peraltro, come dicevano le disposizioni ministeriali rappresentava il punto più avanzato raggiunto dagli italiani in quel tratto di fronte.

Qui, presumibilmente, furono condotte le ricerche che tuttavia non diedero alcun risultato.

Come per la prima salma venne deciso di esumarne una da un vicino cimitero di guerra.

Riferendoci al 1921, sul Pasubio esisteva un piccolo cimitero a ridosso del Dente italiano, proprio sull’area dove sorge l’arco romano fatto erigere dal comune di Schio a perenne ricordo dei caduti del Pasubio.

Il cimitero si chiamava “di qui non si passa” ed era stato realizzato dai fanti della brigata” Liguria”.

I resti esumati non presentavano segni per un possibile riconoscimento e così anche la seconda salma venne ricomposta in una delle undici casse fatte allestire a Gorizia. In seguito le salme di questo e di altri cimiteri della zona vennero trasferiti nel maestoso Sacrario progettato dall’architetto vicentino Chemello e realizzato su uno sperone di roccia alla testata della Val Leogra.

Le due salme vennero trasferite a Bassano del Grappa e sistemate nei locali della “Casa del Soldato” appositamente trasformata in camera ardente mentre la municipalità diffondeva un nobilissimo manifesto con cui salutava i due caduti che venivano affidati alla riconoscenza cittadina.

Per la ricerca della terza salma la commissione si recò sull’ Altipiano di Asiago e più precisamente sul Monte Ortigara. La circostanza ci è confermata da una notizia di cronaca riferita dal quindicinale vicentino “Il Risorgimento” che iniziava proprio con queste parole: “..appena saputo dell’esumazione di un soldato ignoto sull’ Ortigara…”

Anche qui le prime ricerche non diedero alcun risultato, ma alla fine la commissione si trovò, per la prima volta, davanti ai resti di un caduto rimasto lì, nel punto in cui era stato colto dalla morte.

Il segnale su cui tutti gli occhi si appuntarono fu una croce di legno semi nascosta da una parete di roccia.

Si cominciò a scavare con le consuete cautele finché apparve un soldato avvolto nella mantellina che la mano pietosa di un commilitone aveva rialzato sul viso quasi a volerlo preservare dal deturpante contatto della terra.

Con infinite cautele si cercarono tra gli effetti personali indizi che ne consentissero l’identificazione, ma non venne rinvenuto nulla.

Sembrava ormai che le ricerche fossero state portate a termine quando…….all’interno della giubba il tatto rivelò la presenza di qualcosa di consistente. Si trattava di un pezzetto di latta, una specie di piastrino che i soldati avevano l’ordine di cucire all’interno della giubba e sul quale ad inchiostro erano riportate le generalità del soldato.

Il piastrino in parola era illeggibile, ma la possibilità o la speranza che con qualche procedimento chimico lo si potesse rendere nuovamente leggibile, privò quella salma del requisito fondamentale: quello di “certamente non identificabile”. Ripresero le ricerche e dietro un albero venne rinvenuta una seconda croce. Solito scavo a mano e subito apparve chiaro che ci si trovava di fronte ad un caduto austriaco.

La pietà, al di là delle convenzioni internazionali fece sì che quei poveri resti non fossero discriminati. Il cappellano militare li benedisse, dopo di ché vennero avviati ad un vicino cimitero di guerra che già raccoglieva molti soldati della stessa nazionalità.

Le ricerche ripresero nuovamente mentre l’animo di tutti veniva preso dallo sconforto. Ad un tratto, lo sguardo di tutti si appuntò su un crepaccio il cui ingresso era impedito da un groviglio di filo spinato.

In genere il filo spinato è adottato per impedire il transito in un determinato punto. Nella fattispecie non poteva trattarsi di un tratto di trincea presidiata perche non c’erano tracce di scavi di trincea.

Bastò rimuovere il filo spinato per trovarsi davanti alle salme di due caduti. Al fianco avevano ancora i moschetti e nelle giberne cartucce prive dei caricatori. Il timore che qualche animale avesse potuto straziare quei corpi che non era possibile seppellire cristianamente, forse per l’imminente avanzata nemica, aveva suggerito ai commilitoni questa sbrigativa ma efficace iniziativa.

Una delle due, ricomposta nella cassa di legno venne avviata a Bassano mentre l’altra, dopo aver ricevuto gli onori militari, venne tumulata in un vicino cimitero di guerra. Non è dato sapere con quale criterio venne scelta la salma. Relativamente a questa esumazione, il Tognasso racconta che a Gallio una folla commossa attese la commissione per chiedere il privilegio di accompagnare la salma sino al limite del confine comunale.

La notizia è riferita anche dal quindicinale vicentino “Il Risorgimento” che  precisa come l’incontro avvenne in via Campo, strada comunale ancora esistente eche collega Gallio con la frazione di Campomulo località, appunto, che adduce all’Ortigara. Questa, ove ce ne fosse bisogno, sarebbe una ulteriore prova circa la veridicità del diario di Tognasso.

Affidata la salma alla pietà dei bassanesi, la commissione mosse per Cima Grappa, prescelta per la ricerca della quarta salma.

Dice il Tognasso che la salma venne rinvenuta sotto una croce in una valletta e che l’esame degli indumenti non rivelò elementi atti ad una sua possibile identificazione e, precisa ancora che la cassa nella quale vennero ricomposti i resti venne caricata su un mulo “…a causa dell’asperità del terreno che ne avrebbe reso difficoltoso il trasporto…”.

In quale punto del massiccio del Grappa venne esumata la salma non è precisato. Tuttavia, alcuni elementi lascerebbero intendere che le ricerche si svilupparono sul versante Nord in quanto è l’unica parte del massiccio a non essere comple.tamente rocciosa e dunque idonea per uno scavo.

l secondo elemento è che su quel versante la pendenza è tale che un mulo può arrampicarvisi, mentre negli altri versanti il terreno è decisamente roccioso da non consentire lo scavo per una sepoltura per così dire “speditiva” e, in secondo luogo, la pendenza è tale da non consentire neanche ad un mulo di arrampicarvisi.

Lasciata Bassano con le quattro salme sino ad allora recuperate, la commissione partì per Conegliano effettuando una sosta sul Montello per ricercarvi la quinta salma.

Neanche qui, per quanto accurate fossero le ricerche, vennero rinvenute salme in sepolte e fu quindi deciso di esumarne una dal vicino cimitero di guerra che era stato allestito sul versante meridionale della collina.

E’ bene ricordare che per quanto attiene ai cimiteri di guerra occorre sempre fare riferimento alla situazione del 1921 quando, dismessi i piccoli cimiteri a ridosso delle trincee, le salme venivano accentrate in aree cimiteriali più ampie che consentivano una più accurata manutenzione delle sepolture.

Non erano stati ancora costruiti, però, i più maestosi sacrari ancora oggi esistenti e che risalgono agli anni ’30.

Dunque, nel 1921 il cimitero di guerra del Montello sorgeva a quota 176 in località denominata “Colle seI de Zorzi”, proprio dove oggi sorge il grande Sacrario progettato dall’arch. Romano Nori.

Il cimitero, allora, ospitava circa 9000 caduti dei quali più di un terzo ignoti. Tra questi, dunque, venne esumata la quinta salma che, ricomposta in una delle casse fatte allestire a Gorizia, fu avviata verso Conegliano.

Giunti in città i mezzi della commissione si diressero alla caserma “San Marco” e lì, le cinque bare vennero sistemate su altrettanti affusti di cannone che mossero, tra due ali di folla commossa, verso l’Oratorio della” Madonna della Salute” aperto per la circostanza.

A questo punto una piccola digressione merita di essere fatta. Delle cinque casse, sistemate all’interno dell’Oratorio, solo quattro erano avvolte nel tricolore mentre quella esumata sul Montello era nuda. In fretta si cercò tra le famiglie dei dintorni una Bandiera per ricoprirla. Il sacro simbolo fu offerto dalla famiglia del cav. Oreste Carraro, abitante proprio di fronte all’oratorio.

Oggi quel vessillo, è custodito come una reliquia a Venezia Lido, nella caserma “Pepe” sede del Reggimento lagunari “Serenissima” che la ebbe in dono dallo stesso cav. Carraro ormai prossimo alla morte.

Per la successiva ricerca la commissione, affidate le salme ai coneglianesi, si trasferì sul basso Piave.

Tra gli intendimenti della commissione v’ era quello di recuperare la salma di un caduto della Regia Marina. Di per sé, la Marina, difficilmente può avere caduti ignoti in quanto a bordo delle navi non vengono adottate quelle norme di sicurezza che usano le truppe di terra, come togliere dalle uniformi distintivi, mostrine, gradi, fregi e documenti personali prima di ogni combattimento.

Unica possibilità di esumare la salma di un marinaio, dunque, era quella di ricercarla in una zona in cui i marinai combatterono a terra come fanti. Le ricerche vennero condotte nella zona di Cortellazzo-Caposile dove il Reggimento di fanteria di marina “San Marco” combatte lungo l’argine di riva destra del Piave nel settore affidato alla Brigata “Granatieri di Sardegna”. Per quanto accurate, comunque, le ricerche non dettero alcun esito per cui

venne deciso di esumarne una dal vicino cimitero di guerra denominato “dei cannoni” e allestito a circa un chilometro dalla prima linea in località “Ca’ Gamba”, all’altezza dell’ attuale via Carrer.

Tra le centinaia di altre salme, il cimitero “dei cannoni” così chiamato perché nel punto d’incrocio dei due viali ortogonali sorgeva un monumento in pietra d’Istria di forma tronco-piramidale con un bassorilievo raffigurante un pontone della Regia Marina e una iscrizione dettata da Gabriele D’Annunzio custodiva i resti di due decorati di Medaglia d’Oro al V.M.: il Ten.Vasc. Andrea Bafile del Reggimento Marina e del S.Ten. Giulio Susi del XXVI Reparto d’Assalto.

All’ingresso del sacro luogo era stato posto un gradino della vicina chiesa, ormai distrutta, dedicata a S.Antonio e sul gradino una mano ignota aveva scritto: “Dic viator Romae nos te hic vidisse iacentes Dum sanctis patriae legibus absequimur” che può essere tradotto come: “Passeggero, va a dire a Roma che ci hai visti qui, morti per obbedire alle sacre leggi della Patria”. Quel cimitero oggi non esiste più.

Le salme che vi erano tumulate sono state traslate al sacrario sul Lido di Venezia ed al suo posto è visibile un rigoglioso campo di mais…. Recuperata la sesta salma la commissione fece rientro a Conegliano apprestandosi al trasferimento a Udine. Per la prima volta nel capoluogo friulano vennero organizzate manifestazioni di un certo rilievo. Al loro arrivo in città le salme vennero sistemate su affusti di cannone ciascuno scortato da un plotone di soldati.

Il corteo mosse dal piazzale antistante la stazione ferroviaria tra due ali di folla a stento trattenuta da un cordone di soldati e, attraverso la Porta Aquileia, salì al castello dove le salme vennero sistemate su un catafalco allestito nella piccola chiesa di Santa Maria di Castello.

Per la ricerca della settima salma la commissione si trasferì in Cadore e precisamente a Cortina d’ Ampezzo che fu raggiunta da Tolmezzo, per il Passo della Mauria e Pieve di Cadore.

Le ricerche, riferisce il Tognasso, furono svolte sulle Tofane e sul Falzarego, ma non venne rinvenuta alcuna salma insepolta.

Come già attuato in analoghe circostanze, si fece ricorso all’esumazione di una salma tra quelle di ignoti di un vicino cimitero di guerra.

A questo punto, nello scritto del Tognasso troviamo alcuni elementi sui quali riflettere.

Ha infatti lasciato scritto: “…le Tofane, le cime del Falzarego furono tutte esplorate invano poiché l’Ufficio Onoranze ai Caduti in Guerra già aveva raccolto le salme dei caduti e le aveva ricomposte in graziosissimi e pittoreschi cimiteri all’uopo costruiti fra l’ombre di abeti…”.

Questo è il primo elemento: il cimitero si trova all’ombra degli abeti, cioè in un bosco.

La seconda frase del Tognasso dice: “…chiamato a raccolta dalle campane della cattedrale un foltissimo stuolo di popolani si assiepò a Cortina per salutare il simbolo..”.

In questa frase il secondo elemento: la commissione non poteva essere troppo lontana da Cortina se poteva udire il clocchiare delle campane dal piccolo cimitero di guerra che doveva trovarsi in mezzo ad un bosco.

Nel 1921, lungo la rotabile che da Cortina raggiunge il Passo del Falzarego, sul Monte Crepa, a quota 1535, in località “Belvedere” era situato un graziosissimo cimitero di guerra le cui croci erano sistemate, appunto, all’ombra di abeti. Questo cimitero era sufficientemente vicino a Cortina da consentire a Tognasso ed agli altri membri della commissione di udire il suono delle campane della cattedrale.

Oggi quel piccolo cimitero non esiste più.

Al suo posto sorge maestoso il sacrario progettato dall’ing. Raimondi e noto come sacrario del “Pocol”. Anche questa salma raggiunse le altre nella chiesa di Santa Maria di Castello.

Per la ricerca dell’ottava salma la commissione, il 20 ottobre, si recò sul Monte Rombon.

Anche qui l’indicazione di una salma in sepolta fu data da una croce in legno ormai marcito.

Priva di elementi atti alla identificazione anche l’ottava salma fece il suo ingresso nel piccolo tempio all’interno del castello di Udine.

Il 18 ottobre alle ore 14.00 le otto casse, sistemate su camion, attraversati i comuni di Manzano, Brazzano e Cormons giunsero a Gorizia.

Al loro ingresso in città, dal castello una batteria d’artiglieria esplose 21 salve d’onore, mentre ex combattenti si affiancavano agli otto affusti di cannone sui quali erano state sistemate le bare. Ciascun affusto era trainato da sei cavalli:

Il corteo attraversò tutta la città sino a Piazza della Vittoria dove le salme vennero sistemate nella chiesa di Sant’Ignazio.

Gabriele D’Annunzio, intanto, comunicava al sindaco di Udine che il giorno 24 ottobre si sarebbe fatto trovare alle pendici del Monte Hermada per l’esumazione di una salma lungo il corso del Timavo.

La nona salma fu rinvenuta durante le ricerche sul Monte San Michele, su un’altura ad Est del capoluogo isontino chiamata Monte San Marco. Vicino allo scavo di una trincea poco distante dall’obelisco con cappella votiva che rappresentava il punto di maggior penetrazione in quel settore, si cominciò a scavare sotto una croce e pian piano apparve il soldato che vi era tumulato. Non offrì nessun elemento per l’identificazione e fu dunque trasferito a Gorizia.

Per la decima salma le ricerche vennero effettuate a Castagnevizza del Carso in un tratto non molto distante da un monumento ossario. Un palo di legno con un pezzo di filo spinato ancora attaccato fece presumere di trovarsi in presenza di un tratto di trincea presidiato.

Pian piano le ricerche vennero estese fino a quando non venne notata una piramide di pietra che fu sufficiente rimuovere per portare alla luce i resti di un caduto.

L’Ufficiale medico cominciò a ricomporre i resti sino a quando non si ci rese conto che gli arti inferiori avevano dimensioni diverse…. Molto verosimilmente si era in presenza di due salme.

Si ricominciò a scavare sino a quando non apparvero i resti di un secondo caduto. Per la prima volta la vista di quei resti martoriati scosse così profondamente il generale Paolini che ordinò a tutti di inginocchiarsi mentre il cappellano recitava una preghiera.

Venne deciso di trasferire a Gorizia quella delle due che presentava il maggior numero di ferite.

Quella prescelta aveva le gambe spezzate appena sopra le ginocchia, un ampio squarcio al capo e ferite al torace. Presumibilmente era stato centrato da una granata.

Per l’ultima salma le ricerche vennero condotte in quel breve tratto di fronte compreso tra Castagnevizza e il mare. Anche su questa esumazione vi sono indizi precisi.

Come ho già detto, a questa esumazione avrebbe dovuto partecipare Gabriele D’Annunzio che tuttavia non si presentò ma mandò a dire che sarebbe stato spiritualmente presente.

Mentre si attendeva l’arrivo del poeta, dice il Tognasso, lo sguardo di tutti si posò sull’Erma della 3^ Armata che recava incise le parole ammonitrici del Duca d’Aosta: “Rispettate il campo della morte e della gloria”.

Dunque, la zona delle ricerche è sufficientemente delineata da questi tre elementi: l’Erma, il corso del Timavo e le pendici del monte Hermada. Durante le ricerche venne rinvenuto il bordo di un elmetto che fuoriusciva dal terreno. Si cominciò a scavare e pian piano si scoprì trattarsi di una fossa comune nella quale vennero contati almeno dieci teschi.

Nell’impossibilità di ricomporre con certezza una salma, fu deciso di segnalare il ritrovamento al Comitato Onoranze ai Caduti in Guerra di Monfalcone. Si proseguirono le ricerche.

Poco distante dal luogo del precedente ritrovamento venne rinvenuta una croce di legno come le altre marcita dal tempo.

L’esame dei resti del caduto che vi era sepolto non ne consentì l’identificazione e così anche l’undicesima e ultima salma fece il suo ingresso a Gorizia, nella chiesa di Sant’Ignazio.

Gorizia celebrò per quegli undici, e per tutti i caduti che la guerra aveva preteso, una solenne messa funebre composta dal goriziano Corrado Cartocci ed eseguita per la prima volta in occasione dei funerali di Re Umberto I.

Circa la scelta della donna che avrebbe dovuto designare il “Milite Ignoto”, venne nominata una commissione della quale non è stato possibile conoscere la composizione.

Si sa, però, che inizialmente la scelta cadde su tale Anna Visentini Feruglio, udinese, madre di due figli dispersi in guerra, uno dei quali decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare.

La scelta non ebbe seguito poiché prevalse il concetto che la donna dovesse essere una popolana.

Si pensò, allora, ad una mamma livornese che si recò a piedi da Livorno a Udine alla ricerca del figlio disperso.

Venne considerato il caso di una mamma di Lavarone che, saputo dov’era tumulato il figlio, si recò in quel cimitero scavando da sola e con le mani la terra che ne ricopriva i resti quindi, trovate le ossa, dopo averle legate con un nastro tricolore, se le pose in grembo e le portò in paese seppellendole vicino a quelle del marito. Infine, venne considerato il caso di una mamma che ebbe la forza di assistere ad oltre 150 esumazioni pur di trovare i resti del figlio… Tutto questo non parve sufficiente.

Sembrava più significativo se la donna fosse stata la madre di un disperso irredento. La scelta cadde su Maria Bergamas di Gradisca d’Isonzo madre dell’irredento S:Ten. Antonio Bergamas, decorato di Medaglia d’Argento al V.M., caduto sul Monte Cimone il 18 giugno 1916.

Il giovane Bergamas era stato arruolato nel 1370 Reggimento di fanteria della Brigata “Barletta” con il nome di guerra di Antonio Bontempelli.

Ricordo, per quanti non lo sapessero, che il nome di guerra era un nome fittizio con il quale l’Esercito italiano arruolava i volontari irredenti che, sotto il profilo giuridico, erano sudditi dell’impero asburgico. Dunque, Antonio Bergamas combatteva la sua guerra tra le file del nostro esercito.

Il giorno prima di morire, si offrì volontario per guidare con il suo plotone l’attacco del reggimento dicendo che come irredento spettava a lui l’onore di giungere per primo sui reticolati nemici.

Durante l’assalto superò illeso due ordini di reticolati ma al terzo venne raggiunto da una raffica di mitraglia e colpito con 5 colpi al petto ed uno alla fronte. Al termine del combattimento in tasca al giovane venne rinvenuto un pezzo di carta sul quale era scritto: “In caso di mia morte avvertire il sindaco di San Giovanni di Manzano, cav. Desiderio Molinari”.

Solo al cav. Molinari, infatti, era noto che il S.Ten. Bontempelli non era altro che l’irredento Antonio Bergamas. La salma del giovane venne dunque rinvenuta e fu, sepolta assieme a quelle dei caduti di quel giorno, nel vicino cimitero di guerra delle Marcesine sull’Altipiano dei Sette Comuni che, successivamente, sconvolto da un violento bombardamento non permise più il riconoscimento delle sepolture. Da quel momento Antonio Bergamas risultò ufficialmente “disperso”. Torniamo a Gorizia: è il 27 ottobre!

Di buon mattino le undici bare vennero caricate su altrettanti automezzi in procinto di muovere per Aquileia.

Tra le centinaia di corone che accompagnavano le undici bare ve ne era una di semplice fattura sul cui nastro si leggeva: “Al soldato Ignoto la vedova Cravos”. Questa scritta ricordò ai goriziani un delitto consumato nel 1915 dall’ esercito asburgico che fece fucilare il Cravos reo soltanto di essersi proclamato italiano. L’uomo, infatti, era stato rimproverato da un ufficiale perche parlava italiano e Cravos rispose che parlava italiano perché era italiano. L’indomani all’alba venne fucilato contro un albero alla periferia della città. Da Gorizia a Gradisca d’Isonzo, a Romans d’Isonzo a Versa, a Cervignano ed infine ad Aquileia. Dappertutto fiori, gente genuflessa e tante lacrime.

Giunte sul piazzale della Basilica le undici bare furono deposte dagli automezzi e portate a spalla all’interno del tempio.

La prima cassa era portata, tra l’altro, da due donne: la signora Emilia Pasquali Minder di Trieste e la signora Rina Pascoli, moglie del sindaco di Aquileia. Senza l’intervento di oratori ufficiali, alla sola presenza del Capitolo aquileiense e del popolo, alle undici bare venne impartita l’assoluzione e quindi vennero sistemate, cinque a destra e sei a sinistra dell’altare maggiore su due grandi catafalchi. Al termine del semplicissimo rito il tempio venne fatto sgombrare ed all’interno rimase il solo Ten. Tognasso con un manipolo di soldati. Tognasso ordinò ai soldati di cambiare la disposizione delle casse ed al termine, rimessi in libertà gli uomini, ne fece entrare altri ai quali fece ancora cambiare la disposizione delle bare e così per buona parte della notte. No, non era impazzito Tognasso.

La spiegazione di questo comportamento sta nel fatto che le particolari venature dei legni delle casse o la posizione dei chiodi sui coperchi poteva suggerire a qualche addetto ai lavori in quale tratto di fronte fosse stata recuperata la salma del “Milite Ignoto”.

Questo, era certamente l’ultimo tentativo per rendere comunque non identificabile la zona del ritrovamento. Già alle prime ore del 28 ottobre una folla immensa aveva invaso il piazzale antistante la Basilica.

L’inizio della cerimonia, che sarebbe stata officiata da Mons. Angelo Bartolomasi, Vescovo di Trieste e primo Vescovo castrense (Ordinario Militare N.d.A.), era fissato per le ore 11.00.

Al centro della navata era stato approntato un cenotafio sul quale sarebbe stata posta la bara prescelta.

Su un rudere di colonna romana era posta un’anfora contenente l’acqua del fiume Timavo.

Sull’anfora, un nastro bianco recava la scritta: “imo ex corde Timavi” (dal profondo del cuore o Timavo N.d.A.).

La stessa frase, dettata da Gabriele D’Annunzio per la sepoltura del fraterno compagno Magg. Giovanni Randaccio, caduto alle sorgenti del fiume durante un attacco verso Duino.

All’ora fissata vennero aperti i portoni del tempio ed autorità e semplici cittadini vennero ammessi all’interno.

Alle madri e vedove di guerra presenti venne riservato un palco allestito a destra dell’ altare.

Le massime autorità politiche e militari erano tutte presenti. All’improvviso, all’interno del tempio giunse una voce imperiosa che impartiva ordini ad un reparto in armi e di seguito si udirono le note della “Marcia Reale”. Era giunto il Duca d’Aosta, l’Invitto comandante della 3^ Armata e la cerimonia poteva avere inizio.

Al termine del rito funebre di suffragio, dopo che l’ officiante ebbe asperso le bare con l’acqua del Timavo, quattro decorati di Medaglia d’Oro – Gen. Paolini, Col. Marinetti, on. Paolucci e Ten. Baruzzi- si avvicinarono a Maria Bergamas porgendole il braccio.

La donna, con movimenti quasi irreali, mosse verso i feretri. Nel silenzio del tempio potevano udirsi i singhiozzi degli astanti.

Lo stesso Duca d’ Aosta ed il Ministro Gasparotto avevano gli occhi umidi di pianto. Maria Bergamas s’inginocchiò davanti all’altare. Sentiamo come ha descritto quel momento così drammatico ed intenso il Ten. Tognasso: “…lasciata sola, parve per un momento smarrita.

Teneva una mano stretta al cuore mentre con l’altra stringeva nervosamente le guance. Poi, sollevando in atto d’invocazione gli occhi verso le navate imponenti, parve da Dio attendere ch’ei designasse una bara come se dovesse contenere le spoglie del suo figlio. Quindi, volto lo sguardo alle altre mamme, con gli occhi sbarrati, fissi verso i feretri, in uno sguardo intenso, tremante d’intima fatica, incominciò il suo cammino. Trattenendo il respiro giunse di fronte alla penultima bara davanti alla quale, oscillando sul corpo che più non la reggeva e lanciando un acuto grido che si ripercosse nel tempio, chiamando il figliolo, si piegò, cadde prostrata e ansimante in ginocchio abbracciando quel feretro…”.

La tensione della folla si scaricò in urla strazianti e pianto a dirotto. all’esterno del tempio campane suonarono a tocchi gravi e profondi mentre alcune batterie d’artiglieria, posizionate nelle campagne adiacenti, esplodevano salve d’onore. Era uno strano duetto, come un canto di morte e di gloria.

Sul sagrato del tempio, la banda della Brigata “Sassari” intonò per la prima volta in modo ufficiale l’inno che sarebbe divenuto il simbolo di tutte le cerimonie dedicate ai caduti: “La leggenda del Piave”, scritta nel 1918 da Giovanni Gaeta, impiegato postale più noto con lo pseudonimo di E.A. Mario.

La salma prescelta venne sollevata da quattro decorati e la cassa venne posta all’interno di un’altra cassa in legno massiccio rivestita all’interno di zinco.Sul coperchio venne fissata un’ artistica teca in argento lavorato a sbalzo, opera dell’ artista udinese Calligaris, dentro la quale era stata fissata la medaglia commemorativa fatta coniare dai comuni di Udine, Gorizia e Aquileia.

Sempre sul coperchio della cassa venne fissata una alabarda in argento, dono della città di Trieste. Il rito terminò alle 12,20 e, al termine, il tempio venne aperto all’omaggio del popolo.

Alle 15.00 il Duca d’Aosta unitamente al Ministro della Guerra ed alle altre autorità, giunsero nuovamente sul piazzale antistante la basilica.

Il sarcofago venne posto su un affusto di cannone trainato da sei cavalli bianchi bardati a lutto ed il corteo, formatosi spontaneamente, mosse verso la stazione ferroviaria.

Qui era stato approntato un convoglio speciale ed in particolare era stato  predisposto un pianale artisticamente lavorato e progettato dall’architetto triestino Cirilli.

Ufficiali salirono sul treno, sollevarono la cassa ancorandola su un altro affusto di cannone fissato sul pianale. Il Duca d’Aosta, irrigidito sull’attenti, saluta militarmente, la banda suona “La leggenda del Piave” ed al capotreno, il cervignanese Giuseppe Marcuzzi, pluridecorato al Valor Militare, toccò l’onore di far partire il convoglio e con questo atto si chiuse l’intensa giornata di Aquileia.

Il convoglio raggiunse Roma il 2 novembre dopo aver sostato per la notte a Venezia, Bologna, Arezzo e alla stazione di Roma-Portonaccio.

Lungo tutto il percorso il popolo attese commosso il passaggio del convoglio. Intanto a Roma furono fatte affluire le Bandiere di tutti i reggimenti che presero parte al conflitto e i Gonfaloni dei comuni decorati al Valor Militare che vennero custodite al Quirinale nel cosiddetto “Salone dei Corazzieri”.

Il 2 novembre, all’arrivo del convoglio alla stazione Termini, le Bandiere erano allineate lungo i binari.

Ad attendere il convoglio stava tutta la famiglia reale al completo. All’arrivo del treno si formò il corteo che accompagnò il feretro sino alla Basilica di Santa Maria degli Angeli in piazza dell’Esedra.

Il rito fu breve ed al termine il tempio venne aperto alla devozione dei romani. Le cronache di quel giorno raccontano di una mamma che pregava gli astanti affinché aprissero la bara perchè dentro, ne era certa, c’era suo figlio. Giunse, infine, la fatidica giornata del 4 novembre, terzo anniversario della vittoria.

Ad Aquileia non era previsto l’intervento di altissime autorità, ma la cerimonia riuscì ugualmente commovente e significativa. Il rito venne celebrato da Mons. Celso Costantini, Vescovo di Fiume, già arciprete della Basilica. Sua e di Ugo Ojetti l’idea di trasformare il retro della Basilica in cimitero di guerra. A lui toccò il compito di dare sepoltura ai dieci commilitoni del “Milite Ignoto”.

Al termine del rito, sul piazzale antistante la Basilica, Mons. Costantini recitò una preghiera di suffragio da lui stesso composta e di cui è stato possibile recuperare il testo. Prima di recitarla, però, invitò i presenti ad inginocchiarsi.

Il Colonnello Paladini, direttore di cerimonia, lanciò forte il comando “in ginocchio” ed anche i reparti militari assunsero questa inconsueta posizione già in uso nell’ esercito pontificio.

Le salme, portate a spalla all’interno del cimitero, vennero pian piano calate nella fossa ai piedi dell’altare appositamente allestito e progettato, come il convoglio ferroviario, dall’ architetto Cirilli.

L’Alto prelato gettò una manciata di terra e tutti vollero imitarlo. Mentre il popolo sfilava commosso, da dietro una grande siepe d’alloro un quintetto d’archi diretto dal M° D’Arienzo intonò “1’Ave Maria” di Gounod.

Nel 1952 a Trieste, non ancora ricongiunta all’Italia, moriva Maria Bergamas. Bisognò attendere il 1954 per tumularne le spoglie -a cura dell’ Associazione Nazionale del Fante- nella stessa fossa nella quale giacciono i 10 soldati ignoti.

A Roma, intanto, tutto era pronto per rendere l’estremo saluto al “Milite Ignoto” . Il mausoleo del Vittoriano andava riempiendosi.

Ai lati del loculo ricavato sotto la statua della Dea Roma avrebbero preso posto i membri della famiglia reale, il Gabinetto al completo e i diplomatici accreditati. Sulla scalea di destra presero posto le madri e vedove di guerra, mentre su quella di sinistra i decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare ed il personale della Croce Rossa Italiana.

Un settore ai piedi della grande scalea venne riservato ai mutilati su particolari carrozzelle.

Alle ore 09.00 in punto, da tutti i forti della Capitale si cominciò ad esplodere, ad intervalli regolari, salve d’artiglieria, mentre tutte le campane delle chiese romane iniziarono a suonare a gloria.

Per disposizione del Governo in tutti i comuni del regno alla stessa ora doveva essere sospeso qualsiasi lavoro e le campane dovevano suonare a gloria. La cassa con i resti mortali del “Soldato Ignoto” venne portata a braccia fuori dal tempio e sistemata su un affusto di cannone.

Decorati al Valor Militare presero posto ai lati del feretro seguito da venti madri e venti vedove di guerra.

Dietro venivano il Ministro della Guerra On. Gasparotto e quello della Marina Amm. Bergamasco.

Apriva il corteo un plotone di carabinieri a cavallo ed un reparto in armi in cui, oltre ad esercito e marina, erano inquadrati ascari eritrei e libici del Corpo delle Truppe Coloniali, Guardie di Finanza e agenti di Pubblica Sicurezza. In due blocchi seguivano 753 tra Bandiere e Labari di unità militari e Gonfaloni dei comuni decorati al Valor Militare.

Il feretro era preceduto, nell’ordine, dalla banda dell’81° Reggimento di fanteria della Brigata “Torino”, dal Generale Grazioli, artefice della battaglia di Vittorio Veneto e che due anni dopo comanderà il 5° Corpo d’Armata, ed una grande corona d’alloro, dono dell’Esercito, portata da due soldati.

Chiudeva il corteo un blocco di 1800 Bandiere delle Associazioni Combattentistiche. Il corteo, da piazza Esedra si snodò lungo via Nazionale per giungere nella piazza Venezia. Incalcolabile la folla lungo il percorso e le Bandiere alle finestre. Mentre il corteo muoveva dalla Basilica di Santa Maria degli Angeli, il Re e la Real casa giungevano al Vittoriano.

Vittorio Emanuele III dava il braccio alla Regina madre, mentre il Presidente del Consiglio on. Bonomi accompagnava la Regina Elena

Alle ore 09.30 la testa del corteo fece il suo ingresso nella piazza. Man mano che i reparti giungevano nell’immenso piazzale si schieravano ai lati mentre le Bandiere di guerra delle unità proseguivano sino alla gradinata del monumento, scaglionandosi su due file.

Allorché l’affusto di cannone giunse alla base della scalea, il generale Ravazza, Comandante del Corpo d’Armata di Roma, ordinò alle truppe di presentare le armi mentre gli alfieri inclinavano le Bandiere.

Due decorati, precedendo la bara, recavano la corona d’alloro fatta allestire dal Re. Altri otto decorati portavano a spalla il feretro.

Sotto la statua della Dea Roma le regine e le principesse, in ginocchio, piangevano.

Anche il Re ed i principi, sull’attenti, a stento trattenevano le lacrime.

Le salve d’artiglieria non riuscivano a coprire il pianto delle madri e delle vedove di guerra.

Il sarcofago venne deposto sulla pietra tombale che di lì a poco si sarebbe definitivamente chiusa.

Il Re, pallido in volto, avanzò verso la cassa appuntando, sulla Bandiera che sovrasta il coperchio, la Medaglia d’Oro al Valor Militare che egli stesso “motu proprio” aveva concesso.

I tamburi delle bande, fasciati a lutto e con le corde allentate com’era d’uso nell’esercito piemontese, segnavano il momento con mistico rullio.

Vennero azionati gli argani e la bara scomparve lentamente dietro la lastra di marmo che lentamente si chiuse.

I tamburi aumentarono il loro straziante, ossessionante rullio.

Erano le ore 10.36 del 4 novembre 1921.

Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 4 (ottobre 1998) 80° della Vittoria 1918-98, pp. 83-111 Cadeddu -© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche

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Inserito su www.storiainrete.com il 31 ottobre 2011

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