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Storia, non storie

Gli Archivi muoiono.
E nessuno fa nulla…

Apparentemente, viviamo anni in cui i media dedicano grande attenzione ai beni culturali in genere. Si pensi allo spazio dedicato alle iniziative per Leonardo e Raffello, per fare solo un esempio, o al clamore per la rottura di due dita del piede del calco in gesso di Paolina Borghese per colpa di un turista maleducato, o anche ai tanti articoli e servizi tv dedicati ai visitatori sorpresi a incidere le loro iniziali sui monumenti. Tutto giusto, per carità, ma siamo sempre nel campo della spettacolarizzazione della singola opera (l’uomo vitruviano di Leonardo, la Gioconda o l’autoritratto di Raffello) o nella cronaca di gesti vandalici. La tutela dei beni culturali è un’altra cosa e deve preoccuparsi non solo del singolo capolavoro, che tra l’altro, al di fuori del suo contesto, viene assimilato a uno spot televisivo, ma dell’intero patrimonio culturale del nostro Paese, fatto di migliaia di Chiese, di  tanti  piccoli musei fuori dai circuiti di massa, di innumerevoli biblioteche e archivi poco frequentati anche e soprattutto perché inidonei a offrire servizi adeguati per la crescente carenza di personale e per la sempre minore preparazione di una sua larga parte. E’ un problema di domanda e offerta. Se non offri servizi adeguati, locali accoglienti, orari favorevoli alla più ampia fruizione, anche la domanda si riduce progressivamente in un circolo vizioso che, alla fine, fa apparire inutile preoccuparsi della crisi crescente di archivi e biblioteche. Questi istituti, un tempo gloriosi, si sono trasformati via via in cimiteri degli elefanti di cui, alla fine. ci si dimentica quasi l’esistenza. Anche i giovani laureati in discipline umanistiche che hanno atteso per anni concorsi che non sono mai arrivati, conseguendo per di più specializzazioni destinate a rimanere inutilizzate, sono costretti ad abbandonare i percorsi che preparano sul piano scientifico bibliotecari e archivisti.

Non servono certo a migliorare la situazione i benefit ottenuti recentemente dal Ministero per i beni culturali con il cosiddetto decreto-agosto per l’economia, nel quale sono previsti incrementi degli incarichi dirigenziali senza concorso e per chiamata diretta di elementi esterni, anche se privi delle lauree e delle specializzazioni previste. Un risultato che servirà solo a scoraggiare quanti si sono impegnati in percorsi di studio durati anni e incrementerà il fenomeno delle assunzioni attraverso clientele politiche e sindacali, così come avviene da tempo nella scuola e nell’università. Di fronte a questo disastro che incombe su istituti che sono stati per decenni al centro della ricerca storica e che conservano l’immenso patrimonio documentario e bibliografico del nostro Paese si impone una riflessione di carattere generale.

Viviamo tempi strani. Tramontate le ideologie, l’integralismo si è trasferito in altri campi: ecologici, razziali, etici, culturali. I paesi anglosassoni, sempre all’avanguardia nelle mode, sono percorsi da ondate isteriche di manifestazioni giovanili, ma non solo, ispirate dal sacro furore del cosiddetto ‘cancel culture’, ovvero distruggere statue e altre vestigia del passato ritenute incompatibili col sentire comune odierno. Anche da noi qualcuno si è posto seriamente il problema di cosa rimuovere o distruggere del passato, con il sostegno, a volte, di ‘maestri’ più o meno attempati. Ovviamente si è cominciato dal ‘più facile’, vale a dire proporre al pubblico furore le opere architettoniche realizzate durante il Ventennio, peraltro le uniche di valore artistico realizzate, soprattutto a Roma, dopo l’Unità. Ma per il momento, sembra, questo moderno spirito iconoclasta non ha ancora attecchito profondamente nel nostro Paese, anche se può sempre riprendere vigore e uscire dalla cenere dove problemi più seri l’hanno per ora confinato.

Il male di cui soffrono i beni culturali, in particolare archivi e biblioteche, è di tipo diverso, anche se ha punti contatto con il ‘cancel culture’ e raggiunge risultati simili, se non più gravi, a quelli prodotti dal moderno furore iconoclasta. Non è la febbre violenta e distruttiva che arriva e scompare sull’onda di avvenimenti di cronaca (es. il recente black live matter) o di mode socio-culturali. E’ un male più grave perché endemico e silenzioso, che si aggrava con il passare del tempo e contemporaneamente si nasconde proprio dietro il suo peggioramento con la complicità di una indifferenza diffusa. Da anni, mese dopo mese, tecnici del settore vanno in pensione e non vengono sostituiti; lo stesso avviene anche per il personale ausiliario e gli addetti alla distribuzione. Uno stillicidio che comporta meno finanziamenti, meno consultazioni, meno ricerche, meno restauri, meno condizionamenti e controlli della salute della documentazione e così via. Con il passare del tempo gli istituti perdono la loro fisionomia istituzionale, il loro prestigio, la loro centralità e il loro pubblico. Alla fine quasi se ne dimentica l’esistenza. Non stupisce che la classe politica, ammesso che ancora si possa definire in questo modo, ignori questo processo di lenta estinzione degli istituti che conservano la memoria storica del nostro Paese. Troppo faticoso e poco remunerativo in termini di consenso mettere mano in questo reparto di malati terminali. Desta meraviglia piuttosto, almeno inizialmente, il fatto che tutto questo avvenga in un silenzio che è diventato di moda definire assordante da parte degli storici, molti dei quali sono sempre pronti a firmare appelli per le cause più diverse, ma risultano assenti rispetto a problemi che li dovrebbero riguardare direttamente. In realtà anche questo silenzio è uno dei tanti segni del declino strisciante che caratterizza anche la ricerca storica nel nostro Paese.

Indifferenza della politica, silenzio degli storici e rassegnazione da parte dei pochi tecnici di valore rimasti a combattere nel campo della tutela e della valorizzazione della memoria storica (documentaria e bibliografica) del nostro Paese sono i presupposti e le cause della situazione disastrosa in cui versano questi settori dei beni culturali, accomunati in questa crisi, non a caso, con tutto il comparto della scuola pubblica, di ogni ordine e grado. E’ questo il contesto in cui si determinano le condizioni che hanno reso possibile il furto da cui abbiamo preso le mosse, quali che siano i risultati delle indagini in corso. La domanda che sorge spontanea a questo punto è: si tratta di una crisi irreversibile? La ragione porterebbe a rispondere affermativamente, mentre la volontà ovviamente si ribella a questa conclusione. Come sempre l’esito finale dipenderà da mille imponderabili fattori, umani e materiali, intrecciati nell’imprevedibile evolversi degli eventi, destinati a scrivere il futuro di un settore così importante del patrimonio culturale del nostro Paese.  

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