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Diritto coloniale italiano: libertà di culto, rispetto usi e costumi indigeni e tutela delle norme consuetudinarie

Nelle colonie italiane  le popolazioni ricevettero – dall’abolizione giuridica della schiavitù, dal controllo delle epidemie e delle carestie e dall’amministrazione della giustizia – vantaggi più concreti che le popolazioni delle vicine colonie britanniche […] furono concesse, in una misura inconsueta negli imperi coloniali dell’epoca, le libertà di espressioni, di riunione, di insegnamento e di proprietà” – D. Mack Smith


Infatti sin dal 5 Luglio 1882, data della prima legge coloniale italiana (in Assab) l’Italia assicurava alle popolazioni indigene il rispetto dei propri usi e costumi stabilendo, secondo l’art.3, che i rapporti di famiglia, le successioni ed ogni altro rapporto di diritto privato sarebbe continuato ad essere regolato dalle leggi consuetudinarie in quanto non contrari alla morale universale e all’ordine pubblico.
Questo principio venne mantenuto anche nei successivi ordinamenti per l’Eritrea da quello fondamentale del 24 Maggio 1903 (art. 3) al R. D. del 2 Luglio 1908 sull’ordinamento giudiziario (art. 9), sostituito più tardi dal R. D. 7 Febbraio 1926 (art. 9). Infine il R. D. del 20 Giugno 1935 stabilì che il nuovo ordinamento giudiziario dell’Eritrea disponesse che le cause in cui fossero interessati esclusivamente sudditi coloniali e assimilati, dovevano essere giudicate secondo le norme del diritto consuetudinario indigeno e del diritto mussulmano. Al Governatore si dava facoltà di apportare le necessarie modificazioni per adeguare il diritto indigeno ai principi fondamentali della legislazione italiana.
L’art. 88 inoltre stabiliva che i rapporti fra i sudditi eritrei si dovessero presumere conclusi secondo le norme del diritto consuetudinario indigeno e del diritto mussulmano, salvo prova contraria.

Il testo dell’articolo è estratto del libro  “Bugie Coloniali – Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” di Alberto Alpozzi., Eclettica Edizioni, agosto 2021

Anche in Somalia il principio del rispetto degli usi e costumi indigeni fu stabilito fin dalle amministrazioni della Compagnia Filonardi, nota per aver bandito la schiavitù nel paese. Con la legge 5 Aprile 1908 lo Stato intervenne direttamente sull’ordinamento giuridico della colonia e si stabilì che restavano in vigore le leggi e le consuetudini locali purché non contrarie ai principi fondamentali della legislazione italiana. Analoga disposizione era contenuta nel R. D. 8 Giugno 1911 sull’ordinamento giudiziario, il cui art. 3 stabiliva che tanto le cause in materia penale, quanto quelle in materia civile riguardanti sudditi coloniali o assimilati dovevano esser giudicate in base alle norme del diritto mussulmano e del diritto consuetudinario, mentre cittadini italiani o stranieri dovevano esser giudicati in base alle leggi italiane, purché le condizioni locali lo consentissero.
Successivamente alla guerra di Abissinia e collegate le due suddette colonie all’Etiopia e costituito il blocco A.O.I. con il R. D. 1° Giugno 1936 si stabilì che fosse garantito a tutti il rispetto assoluto delle religioni ed il rispetto delle tradizioni locali purché non contrastassero con l’ordine pubblico e coi principi generali della civiltà. Si aggiunse inoltre che le istituzioni religiose dei cristiani copti sarebbero state regolate da leggi speciali e d’accordo con le gerarchie ecclesiastiche; mentre ai mussulmani fu data piena facoltà di ripristinare i loro luoghi di culto, le loro istituzioni pie e le loro scuole religiose. Secondo l’art. 31 le controversie fra mussulmani erano giudicate dal Cadì secondo la legge mussulmana e le consuetudini locali della popolazione mussulmana.
Con l’art. 50 si riconfermò che ai sudditi si applicava la legge propria della loro religione, del loro paese e della loro stirpe. Quest’ultimo articolo fu particolarmente importante perché mentre nel precedente art. 31 pur stabilendosi l’assoluto rispetto di tutte le religioni, si consideravano singolarmente due gruppi di sudditi: i cristiani copti e i musulmani; con l’art. 50 si vennero riconosciute notevoli varietà di norme indigene, sia religiose, sia consuetudinarie, poiché si tenne conto delle religioni, dei paesi e delle diverse stirpi. Per esempio riguardando la questione solo dal punto di vista religioso, si annoveravano in A.O.I: il diritto canonico di rito latino e di rito orientale; il diritto mussulmano di rito hanefita e di rito scinfeita più alcuni istituti di diversi culti pagani. A questi andavano poi ad aggiungersi le numerose consuetudini dei diversi paesi e delle diverse stirpi.
Per quanto riguarda la Libia, fin dal proclama del generale Caneva del 13 Ottobre 1911 si stabiliva il rispetto delle leggi religiose ed in particolare di quella musulmana. Col Decreto del 30 Luglio 1912 dello stesso Caneva si stabilì che nelle controversie in materia civile l’amministrazione della giustizia fosse affidata al Cadì e quindi implicitamente si riconosceva il diritto musulmano, l’unico diritto che il Cadì avrebbe potuto applicare. Quel decreto fu inoltre importante poiché veniva abolito l’obbligo imposto dal governo turco di seguire il rito hanefita, particolarmente ostico alle popolazioni libiche seguaci del rito malechita. Il Decreto Caneva stabiliva quindi il rispetto del rito cui appartenevano le parti ed in caso di rito diverso, l’applicazione del rito del convenuto.
Con l’ordinamento giudiziario del 20 Marzo 1913 si riconfermava il rispetto degli usi e costumi indigeni in quanto non contrari allo spirito della legislazione italiana, formula più ampia nella quale rientrava anche il diritto ebraico con l’art. 9 che trattava dei tribunali rabbinici, dato il numero elevato degli ebrei libici. Lo stesso principio fu poi riconfermato con un decreto luogotenenziale del 1917, negli statuti del 1919, nella legge organica del 26 Giugno 1927, nell’ordinamento giudiziario del 25 Ottobre 1928, nell’ordinamento del 3 Dicembre 1934 e infine nell’ordinamento giudiziario del 27 Giugno 1935. Da ultimo può ancora ricordarsi il D. L, 9 gennaio 1939, ‘che nell’istituire la cittadinanza speciale per i musulmani delle quattro province libiche annesse, riconfermava il riconoscimento del loro statuto personale e successorio.
Per quanto riguarda le isole dell’Egeo i proclami dei diversi Comandanti militari avevano sempre riconfermato il rispetto del diritto preesistente alla nostra occupazione, cioè in sostanza del diritto ottomano ivi vigente prima del 1912. Col R. D. 26 Settembre 1925 sulla cittadinanza degli abitanti delle isole si stabiliva all’art. 2 che essi conservano il loro statuto personale ed avevano i diritti e i doveri loro derivanti dalle leggi e dagli usi vigenti in Rodi e nelle altre isole. Coi cinque decreti governatoriali del 31 Ottobre 1931 di cui il n. 200, estendeva alle Isole dell’Egeo i codici civile, commerciale e di procedura civile, si regolava meglio la materia. Pertanto in materia di statuto personale e successorio agli egei che non avessero la piena cittadinanza italiana si applicavano i diritti delle diverse religioni cui appartenevano. Nelle isole dell’Egeo si applicavano il diritto canonico di rito latino, il diritto bizantino (per i cristiano-ortodossi o greco-scismatici), il diritto mussulmano di rito hanefita, il diritto ebraico ed infine le consuetudini locali, che variano notevolmente da isola a isola.

Testo estratto del libro  “Bugie Coloniali – Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” di Alberto Alpozzi., Eclettica Edizioni, agosto 2021

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