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Così il cinema americano diede una mano a Hitler

Gli affari sono affari e sappiamo quant’è lunga la lista di istituzioni e ditte, che hanno collaborato attivamente e profittevolmente col nazismo: dal Vaticano alle banche svizzere, dalla IBM alla General Motors, il business con la croce uncinata è andato avanti fino alla fine della Seconda Guerra mondiale.

di Cinzia Romani da Il Giornale del 03 agosto 2013 il Giornale, ultime notizie

Alla lista, ora, va aggiunta anche Hollywood, con i suoi studios scintillanti che in piena età dell’oro, quei «Trenta ruggenti» fonte del sogno americano, assecondavano i desideri del Führer. Ogni ordine di Hitler, in materia di tagli, censura e divieti riguardanti le pellicole Usa da importare in Germania, senza urtare la suscettibilità dei tedeschi nel Terzo Reich, fu prontamente applicato. Eppure, ai vertici della 20th Century Fox, della Paramount o della MGM siedono immigrati ebrei, divenuti boss della cineindustria Usa. Come Carl Laemmle della Universal, che prima ubbidisce al Verbot di Joseph Goebbels, potente Ministro della Propaganda all’epoca della camicia bruna, ma poi aiuta 300 ebrei ad abbandonare la Germania, appena le SA cominciano a spaccare le vetrine dei commercianti «Jude», o agli artisti si chiede il certificato di arianità, per lavorare. Business is business. Così il trentacinquenne ricercatore di Harvard Ben Urwand, storico e membro della prestigiosa Society of Fellows dell’Università di Cambridge, Massachussets, azzecca un blockbuster editoriale col suo The Collaboration: Hollywood’s Pact with Hitler” (Harvard University Press, pagg. 336, dollari 24,50), saggio destinato a far discutere e da ottobre nelle librerie Usa (dall’8 settembre acquistabile online).

Che Hitler e Goebbels subissero il fascino degli hollywooditi, è cosa nota: dai diari goebbelsiani emerge un’attenta visione quotidiana di quanto è prodotto Oltreoceano, dalla «cultura dell’asfalto, dei negri e del jazz». Meno noto è l’atteggiamento supino assunto da Hollywood per proteggere il mercato tedesco, prima della Prima Guerra mondiale il secondo mercato internazionale più importante, affamato di film pure nella Grande Depressione. Nel 1933 in Germania circolavano 250 film Usa. Ma le cose si complicano il 5 dicembre 1930, quando una cerchia ristretta di nazisti assiste a una proiezione Universal di A Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone, manifesto antimilitarista tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale. Perché i francesi lì ritratti morivano serenamente, mentre i fanti tedeschi strillavano come aquile? Un’onta da lavare col boicottaggio, mentre reduci con la stampella e giovani disoccupati sono testimoni viventi d’una sconfitta militare imperdonabile. Detto, fatto, i fedelissimi di Goebbels acquistano 300 biglietti per la prima del film, interrotta al grido di: «I soldati tedeschi hanno avuto coraggio!». Il pubblico uscì dalla sala e Carl Laemmle, boss ebreo della Universal di stanza a Berlino, scrisse alla casa madre losangelina: «Abbiamo perso un business potenziale. Il film sarebbe stato un successo enorme, se avesse potuto circolare indisturbato in Germania».

Con i nazisti che al Reichstag passano da 12 a 107 seggi, c’è poco da scherzare. E Georg Gyssling, nazi della prima ora, dal ’33 si insedia a Los Angeles per sorvegliare e punire. È da qui che Hitler entra a braccio teso negli studios: nel 1931, Laemmle edita una versione purgata di All Quiet on the Western Front e Hitler sigla un patto con valore di legge con il Foreign Office Usa. Ogni volta che una major distribuirà un film antitedesco, tutti i suoi film saranno banditi dal suolo germanico: è il temuto «articolo 15». Per proteggere gli affari, a Hollywood non resta che collaborare e infatti Zusammenarbeit, «collaborazione» in tedesco, è la parola più ricorrente nei carteggi scoperti da Urwand presso gli Archivi di Stato dell’ex-Berlino Est. Anche se Goebbels amava Topolino, icona Disney per eccellenza, i nazisti a Los Angeles comandavano a bacchetta Joseph Breen, capo della Anti-Defamation League, incaricato di leggere le sceneggiature e riferirne a Berlino. Dove nel 1936 restano solo MGM, Paramount e 20th Century Fox: a furia di applicare l’autocensura, con Will Hays a infliggere il suo codice, gli studios perdono soldi. La misura è colma quando Frits Strengholt, capo della MGM tedesca, è costretto a divorziare dalla moglie ebrea. Che finirà in un lager.

Scatto di reni di Hollywood? No, il patto tra Hitler e Hollywood prosegue e nel 1938 la 20th Century Fox scrive direttamente a Hitler: «Saremmo grati se voleste esprimere l’opinione del Führer sugli effetti del cinema americano in Germania. Heil Hitler!». Lui non risponde: in Susannah of the Mounties ha visto Shirley Temple mescolare il suo sangue a quello di un apache e Tarzan, con tutte quelle scimmie, non gli è piaciuto.

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Storia in Rete n. 52

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