HomeStampa italiana 2Complotti quasi recenti: chi c’era dietro le bombe del ’93?

Complotti quasi recenti: chi c’era dietro le bombe del ’93?

Di fatto, la risposta ancora non c’è. Eppure, all’epoca, la classe dirigente italiana (politici, poliziotti, giornalisti, uomini dei servizi, dirigenti di Stato) aveva le idee abbastanza chiare: qualcuno complottava contro l’Italia in piena bufera Tangentopoli. In queste settimane una serie tv rilancia il 1993 con tutte le sue atmosfere torbide e ambigue. Le stesse descritte da un libro uscito pochi anni dopo, scritto da due giornalisti che avevano notato come, in un pugno di mesi, l’Italia cambiò quasi senza accorgersene, un complotto dopo l’altro. Non si salvò niente e nessuno: la lira e il Quirinale, le forze armate e i beni culturali, la massoneria e l’industria nazionale, la magistratura e il sistema mediatico. E, ovviamente, anche la politica. Tante le analogie col presente, come si vedrà. Da «L’anno dei complotti» (Baldini&Castoldi, 1995) abbiamo deciso di ripubblicare alcuni passaggi del primo capitolo: «Un complotto contro l’Italia?»

di Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono da Storia in Rete n. 140

Un bel giorno del marzo 1993, Oscar Luigi Scalfaro, da meno di un anno presidente della Repubblica italiana, viene colto da un dubbio e decide di renderlo di pubblico dominio: cosa ci nasconderà, si chiede, dietro le ripetute valutazioni negative che la società di rating americana, “Moody’s”, continua a dare dell’economia italiana? “Moody’s” è un centro privato di analisi che dà il rating, cioè calcola il rischio dei titoli offerti sui mercati finanziari. Da qualche mese, lo notano in molti, “Moody’s” si accanisce particolarmente contro l’Italia: nel settembre ‘92 un suo declassamento dei Bot italiani ha addirittura avviato una gigantesca speculazione che ha portato alla svalutazione della lira. E Scalfaro sei mesi dopo si fa cogliere dai dubbi. Meglio tardi che mai. Giusto in tempo per trovarsi in buona e qualificata compagnia.

Un bel giorno del giugno 1993, infatti, il ministro degli Esteri Beniamino Andreatta va a parlare a un gruppo di rappresentanti delle associazioni di volontariato impegnate nell’ex Jugoslavia, dilaniata dalla guerra civile. L’Italia, fa capire Andreatta, avrebbe mandato volentieri le proprie truppe per scortare lungo le insicure strade della Bosnia i convogli umanitari, ma da altri paesi europei è venuto un deciso no, nonostante che il governo di Roma abbia diretti interessi nella vicenda, visto che battaglie ed eccidi si consumano a un tiro di schioppo dalle coste adriatiche: “C’è qualcosa di obliquo nel no alla presenza italiana in Jugoslavia, un no che è stato pilotato da alcuni governi non nostri amici”. Politichese stretto che, tradotto, vuol dire: “Ragazzi, all’estero c’è chi non vuole che mettiamo il naso nelle faccende alle porte di casa”. In un altro bel giorno del giugno 1993, un collega di Andreatta, il ministro della Difesa Fabio Fabbri, parlando in occasione del 179º anniversario dell’Arma dei Carabinieri, dichiara, sempre in politichese stretto: “C’è chi vuole fare del nostro Paese il ventre molle dell’Europa, per opera e  nell’interesse dei poteri occulti e meno occulti che si esercitano sulla scena internazionale”. Alla ribalta hanno già fatto la propria comparsa le prime bombe della nuova strategia della tensione e Fabbri si avventura in un ardito legame tra cospiratori internazionali e criminali nostrani: “Nel momento del massimo sforzo per il rinnovamento, mentre la grande criminalità organizzata subisce i colpi di uno Stato finalmente unito nella lotta, riesplode lo stragismo, l’arma dell’intimidazione, del terrore occulto, della criminalità che non ha volto. Tutto è oscuro nella nuova versione del terrorismo”.

«L’anno dei complotti» di Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono (Baldini&Castoldi, 1995)

Un bel giorno d’agosto (siamo ancora nel 1993) il ministro dell’Interno del governo italiano, Nicola Mancino, non si sente a proprio agio: i trionfi conseguiti contro la mafia nelle prime settimane dell’anno sono ormai lontani. L’Italia è squassata da bombe vere e fasulle ma i morti e i feriti sono tutti veri. E pesano. Fioccano ipotesi e congetture ma in realtà nessuno ha le idee chiare sul “chi” e sul “perché”. Chi c’è dietro la nuova ondata di attentati che insanguinano l’Italia? chiedono i giornalisti a Mancino. E lui: “Non escludo un ruolo della finanza internazionale”. É la tesi del complotto internazionale che ritorna. E che, stando al settimanale “Panorama”, Mancino avrebbe così precisato nel corso di alcuni colloqui riservati: “Ci sono forze politiche e finanziarie, all’estero, che hanno interesse ad avere un’Italia in ginocchio. Magari per favorire soluzioni autoritarie. O più probabilmente per specularci sopra”. Chi sono gli indiziati? Secondo il titolare del ministero degli Interni, confortato in questo anche dal procuratore nazionale antimafia, Bruno Siclari (convinto che la mafia sia coinvolta nella nuova strategia della tensione solo a livello di bassa manovalanza), le manovre destabilizzanti partirebbero da paesi dell’Europa centrale come Germania o Svizzera. E qualcuno ricorda che, guarda caso, il colosso alimentare svizzero della Nestlé si è appena “pappato”  il gruppo italiano Sme a prezzi di realizzo: poco più di 400 miliardi.

In un altro bel giorno di quell’agosto, il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi riattacca con la tesi della cospirazione straniera ai danni dell’Italia. Eppure proprio lui, commemorando il 2 agosto le vittime della strage di Bologna di tredici anni prima, aveva denunciato: “Vi sono collusioni tra criminalità organizzata e schegge del mondo politico”. In realtà la contraddizione è meno grave di quello che appare: per esserci il complotto c’è, ma non nasce oltre confine, nasce in casa nostra. Tempo tre giorni, Ciampi cambia opinione e se la prende di nuovo con gli “stranieri”. L’occasione gliela offre l’annuale relazione sull’attività dei servizi segreti che il presidente del Consiglio invia alle Camere: nella fattispecie si tratta di 26 cartelle suddivise in vari paragrafi. In quello relativo alla “sicurezza esterna” Ciampi scrive: “…Sono state attentamente considerate le manovre disinformative messe in atto da alcuni Paesi occidentali nei confronti dell’industria italiana, nel quadro di un’aggressiva politica-economica per la conquista dei mercati, volta anche a contrastare attivamente i tentativi di espansione all’estero delle nostre aziende […] Tali manovre hanno interessato anche una nota istituzione scientifica italiana, a valenza internazionale, accusata ingiustamente di contribuire allo sviluppo delle conoscenze nucleari, a fini militari, degli Stati del Terzo Mondo”. Quello che non dice Ciampi lo dicono, a mezza voce, le solite indiscrezioni: l’ente in questione sarebbe L’Enea (Ente nazionale energie alternative) avversato dagli Stati Uniti. Perché? Perché una commissione Onu inviata in Iraq a verificare l’effettivo smantellamento degli impianti nucleari di Saddam Hussein era guidata da un tecnico italiano, Maurizio Zifferero, dell’Enea appunto. Zifferero non si sarebbe rivelato, secondo gli americani, abbastanza deciso nel costringere gli iracheni a eseguire gli ordini dell’Onu. Da qui le accuse all’Enea e all’Italia.

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Tutto qui o c’è dell’altro? Forse c’è dell’altro, visto che il presidente del Consiglio sembra essersi preso a cuore la questione del malvolere straniero nei confronti del suo Paese. La riprova la si ha un bel giorno di ottobre, durante la visita di Ciampi nella vicina Austria. A Vienna il capo del governo italiano viene colto nuovamente dal dubbio che, all’estero, qualcuno abbia voglia di fare sgambetti all’Italia. Giustamente si adonta e sbotta: “In Italia nessuno, neppure le forze politiche di più recente affermazione”, dichiara Ciampi all’agenzia “Austria Press Agency”, “mette in discussione l’unità del Paese, la sua integrità territoriale, che sono conquiste radicate nel profondo della gente, al Nord come al Sud. In ogni caso chiunque, all’interno o all’esterno dell’Italia, incoraggiasse impostazioni diverse si metterebbe al di fuori della legalità democratica e in palese contraddizione con lo spirito della Costituzione europea”. Commentando “l’uscita” di Ciampi, Alberto Rapisarda scrive su “La Stampa”: “Appare chiaro che l’enfasi è posta soprattutto sulle forze che agirebbero “all’esterno”. Ma chi sono? L’intervista di Ciampi fa seguito a una serie di articoli dei giornali austriaci e tedeschi che drammatizzano la minaccia di scissione dell’Italia a opera della Lega. […] Il “messaggio” di Ciampi sembra, quindi, rivolto a coloro che, in Austria e Germania, sperano che l’azione della Lega possa portare a un allargamento dei confini austriaci oltre il Brennero per recuperare i territori persi dopo la sconfitta subita con la Prima guerra mondiale. Non è messo lì a caso il riferimento di Ciampi alla Costituzione europea. L’intervista di Ciampi dà, così, corpo alle voci che da tempo circolano in Parlamento su Paesi, anche vicini, che non sarebbero affatto dispiaciuti per le difficoltà che l’Italia sta affrontando in questo periodo”. (…)

L’elenco degli attentati da Storia in Rete n. 140

Basta così. Mese dopo mese, per tutto il 1993 il ritornello è sempre stato lo stesso e la morale viene da sé: autorevoli esponenti della nomenclatura chiamata a gestire il passaggio dall’Italia di Tangentopoli all’Italia del post-Tangentopoli, si sono detti a più riprese convinti dell’esistenza di un complotto (ora interno, ora esterno, ora tutt’e due) contro l’Italia. Ma chi? E perché? Perché destabilizzare l’Italia? Perché minacciare l’economia e seminare di ordigni un Paese già pieno di guai per i fatti suoi? E poi chi potrebbe aver tratto vantaggio da tutto quello che il 1993 ha “portato in dono” agli italiani? Questo nemico dell’Italia è solo o ha complici? È (o sono) italiano o straniero? Che rapporti ha (o hanno) con la mafia, i servizi segreti, la massoneria, la grande finanza o certi ambienti politici nazionali? Follia? Complottismo? Mania di persecuzione? Forse. Ma c’è sicuramente anche qualcos’altro. A dispetto di tutti quegli allarmi (volutamente?) tanto generici quanto (casualmente?) ripetuti.

Il 1993 non si è annunciato gli italiani sotto mentite spoglie: che sarebbe stato un anno terribile lo si era capito ancora prima che cominciasse. Nell’ottobre 1992 la Banca d’Italia aveva stimato il debito pubblico italiano in un milione e 590 mila miliardi di lire: una cifra che pochi sono in grado anche semplicemente di scrivere. A fine ‘92 il tasso di disoccupazione supera l’11 per cento. Solo l’inflazione sembrava sotto controllo con il suo tasso tendenziale vicino al 4,5 per cento. Ma non c’era da stare allegri: più che di un indice di salute economica si trattava dell’ennesima conferma di un malessere generalizzato: la gente spendeva meno, giravano meno soldi e così anche l’inflazione scendeva. Insieme al tradizionale ottimismo latino. Ma, a ben vedere, a spingere verso il pessimismo non c’erano solo gli indicatori economici. A chi aveva avuto modo di bazzicare a lungo le stanze del Potere e di guidare il Paese, altre circostanze parlavano chiaro. E facevano vedere nero. “Io qualche mese fa dissi”, ha ricordato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga in un’intervista a “La Stampa”, il 7 agosto 1993, “che c’era il rischio che nel nostro Paese arrivassero le bombe. Lo dissi tenendo conto di alcuni fattori. Intanto sono cambiati tutti gli equilibri internazionali nel confronto Est-Ovest e nel Mediterraneo. In più c’è la crisi italiana, c’è un governo che non ha nessun indirizzo politico”. (…) Anche un altro protagonista della vita politica italiana degli ultimi anni aveva lanciato l’allarme bombe con qualche mese di anticipo: Bettino Craxi. All’indomani dell’attentato di via Fauro (14 maggio) Craxi dichiara a un giornalista: “Temo che ci saranno altre bombe, dopo quella di via Ruggero Fauro. Perché? Perché oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono anche le bombe a orologeria politica. Basta riandare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni siamo vissuti in Italia, no? Bene, in questi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’è mai saputo né chi l’ha messe, né chi erano i mandanti. Bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e cioè nessuna”. (…)

Gli allarmi di Cossiga e Craxi trovano orecchie attente, soprattutto in alcuni settori della Democrazia cristiana, il partito che da solo o in compagnia ha dominato la scena politica italiana dal 1946. Il 2 aprile 1993, infatti, il capogruppo Dc alla Camera, Gerardo Bianco, e il suo collega al Senato, Gabriele De Rosa, presentano un esposto alla procura di Roma, chiedendo di appurare se c’è una cospirazione politica per distruggere l’ordine costituzionale italiano. Una mossa clamorosa che vuole rappresentare una sorta di contrattacco di fronte all’escalation di scandali politici che coinvolgono personaggi di spicco in vicende di mafia. Chi manovra, si chiedono Bianco e De Rosa, i pentiti che stanno chiamando in causa i maggiori esponenti della Dc di ieri, come Gava e Andreotti? Se sul “chi” ci possono ancora esservi dei dubbi così non è a proposito del “perché”. E la rivista “Eir”, un settimanale pubblicato negli Stati Uniti (dal movimento che si ispira alle tesi dell’economista Lyndon LaRouche), particolarmente bene informato e propenso al complottismo, sintetizza quello che molti uomini politici italiani pensano e temono: “Gli scandali rappresentano un tentativo da parte delle forze anglo-americane, segnatamente la Framassoneria, di orchestrare una generale destabilizzazione della nazione italiana per distruggere il sistema politico esistente e insediare un nuovo ordine, a loro più gradito. Gli obiettivi di questa battaglia sono: 1) pilotare la privatizzazione dell’industria pubblica italiana; 2) la demolizione dei partiti politici tradizionali dell’Italia; 3) la rottura della nazione come entità politica sovrana, attraverso le campagne separatiste della Lega Nord e altri”. Il particolare accanimento contro i leader centro meridionali dello Scudocrociato andrebbe messo in relazione proprio con quest’ultimo punto: il maggior ostacolo alla penetrazione elettorale della Lega (ormai egemone nel Nord) sarebbe rappresentato proprio dall’agonizzante Balena bianca, cui molti osservatori all’inizio del ‘93 fanno ancora credito di un vasto consenso nel Centro-sud. Il legame tra il presunto attacco straniero all’Italia a opera di centri di potere anglo-americani e le rivelazioni dei mafiosi pentiti che distruggono il potere democristiano, viene fatto proprio anche dalla massima personificazione vivente di quel sistema di potere: Giulio Andreotti. In un’intervista a “Il Giorno” del 7 aprile, l’ex presidente del Consiglio si dice convinto che qualcuno negli Usa stia lavorando contro di lui, ma anche il “Divo Giulio” non viene meno alla regola del “niente nomi”: “Per il momento, non dirò nulla di più” . (…)

La nuova stagione del terrore per l’Italia inizia in una tranquilla serata romana di primavera. Sono le 21.40 di venerdì 14 maggio, quando l’autista di Maurizio Costanzo sta guidando la sua Mercedes blu, con a bordo il presentatore la sua compagna, Maria De Filippi, lungo via Ruggero Fauro, una strada a senso unico nel quartiere Parioli. Il terzetto da pochi minuti lasciato il teatro Parioli, dove Costanzo ha registrato la quotidiana puntata del suo “Maurizio Costanzo Show”, ed è in procinto di raggiungere l’appartamento del presentatore per la cena. Lungo via Fauro hanno sorpassato, senza prestarle attenzione, una Uno bianca, parcheggiata sul lato sinistro della strada. In quella macchina qualcuno ha piazzato un centinaio di chili di esplosivo: pentrite principalmente, mischiata a T4 e tritolo. Il tutto collegato a un innesco telecomandato che viene azionato non appena l’auto di Costanzo passa accanto all’automobile. L’esplosione è tremenda e viene avvertita in tutta la città. A distanza di chilometri, i passanti notano una fiammata e una nube di fumo che si stagliano nel cielo. Non si registrano morti, i feriti saranno 21 e molte le famiglie che si ritroveranno senza casa. Unica rivendicazione quella della Falange armata, probabilmente una frangia fuori controllo del Sismi (una pista su cui la magistratura sta indagando), negli anni precedenti messa più volte in relazione con le sanguinose imprese della “banda della Uno bianca” . “Obiettivo della bomba non era Maurizio Costanzo”, dice all’Ansa un ignoto telefonista, “ma se fosse morto non ci saremmo dispiaciuti.” La Falange non viene creduta e le indagini imboccano subito la pista mafiosa, visto l’impegno di Costanzo nella lotta alle cosche. Eppure, anche a non voler tener conto delle rivendicazioni della Falange armata, nella zona abitano due magistrati e, come vedremo, ci sono uffici di strane società. (…). Anzi, il continuo battere sullo showman e sulla matrice mafiosa dell’attentato risulta sospetto: “In termini nuovi”, ha ricordato Gianni Cipriani, “l’ossessiva indicazione dei boss della mafia come mandanti ed esecutori degli attentati, ricordava i depistaggi culturali messi in atto negli anni Settanta, quando si era tentato di spiegare la strategia stragista come opera esclusiva di gruppuscoli di fascisti esaltati aiutati da qualche settore “deviato” dei servizi segreti. La realtà, come si è capito con il tempo, era un’altra: le stragi rispondevano a una precisa strategia internazionale, messa in atto utilizzando la manovalanza fascista, spesso strumentalizzata e organica ai servizi segreti. Gli stessi servizi segreti poi non avevano mai “deviato” ma, semmai, attuato le direttive ricevute dai referenti politici o, più verosimilmente, obbedito a catene di comando “superiori” riconducibili alla Nato”. (…)

Sandro Provvisionato, giornalista dell’“Europeo” ha una sua pista e scrive: “Davvero la mafia voleva colpire Maurizio Costanzo?” chiede a un anonimo “alto ufficiale, che per anni ha operato ai massimi livelli del Sismi, il servizio segreto militare”. “La sua reazione è furente. Mi risponde testuale: “Guardi se mi parla ancora di Costanzo come obiettivo la considero un deficiente e poi le attacco il telefono in faccia e con lei non parlerò mai più”. Resto stupefatto. Ma perché reagisce così? “Perché quella dei Parioli è una strage mancata molto particolare. Non ha ancora capito?”. Capito cosa?  “Che è una risposta eclatante alla festa della polizia che si era celebrata il giorno prima”. Una risposta a cosa? “Ai nuovi indirizzi dello Stato. Non ha ascoltato il discorso di Mancino? Al rinnovamento. Al ricompattamento. Ci sono settori, di questo stesso Stato, che hanno paura di quanto sta avvenendo. Del cambio delle regole del gioco”. E che settori sono? “I poteri criminali”. Quali poteri? “Lei è un giornalista, no? Usi la sua testa”. Fino a dove? “Fino a quello che le sembra una fantasia”». Provvisionato la testa prova a usarla. Vediamo dove è arrivato: “Pochi conoscono un particolare inquietante: il T4 non è un esplosivo qualsiasi. Non è in vendita. Non si può recuperarlo nelle cave di cui la Sicilia abbonda. È a disposizione soltanto di forze militari e di forze militari molto particolari. Come i corpi speciali. Ha detto il capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra, che da ormai un anno indaga proprio sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio: “Mi sembra molto strano che Cosa Nostra sposti la sua operatività dalla Sicilia”. È cauto il dottor Tinebra, anche perché nelle due inchieste che gli rubano il sonno ha finito con l’imbattersi in strani indizi che lo hanno convinto a chiedere alla procura di Palermo la trasmissione degli atti relativi all’arresto del numero tre del Sisde, il servizio segreto del ministero dell’Interno, Bruno Contrada (in carcere ormai da cinque mesi) e del fallito attentato dell’Addaura del 1989 contro Falcone. Per quella orrenda minaccia Falcone parlò di “menti raffinatissime”.” (…)

Alla pista mafiosa non crede neanche Alfredo Galasso, parlamentare della Rete ed esperto di mafia: “Il primo scopo è quello di bloccare il cambiamento, di arrestare il crollo dei partiti tradizionali. Gli obiettivi finali sono invece due: l’instaurazione di una forma politica autoritaria nel Paese favorendo possibili spinte separatiste, magari non solamente in Sicilia. Certo che la mafia c’entra. C’entra in quanto potere occulto intessuto con altri poteri occulti, come la massoneria. È sbagliato continuare a ritenere Cosa Nostra come un potere criminale separato, antagonista dello Stato. Qualcosa di avulso insomma dal contesto politico e istituzionale”. Traduzione: chi trama contro lo Stato è dentro lo Stato. E dentro lo Stato c’è anche la mafia. Ma è in buona compagnia: “L’attentato di via Fauro è pieno di simboli”, dice un altro esponente della Rete, Carmine Mancuso, “sembra un messaggio in codice. Costanzo non rappresenta forse una certa P2 di vecchio stampo? E a cento metri dal luogo del boato non c’è forse il Comando generale dei carabinieri? Con quel gesto il sempre forte potere massonico ha mandato un avvertimento chiaro e forte: attenzione con questa smania di rinnovamento, ci state rompendo. Stiamo tornando ai terribili anni Settanta”. E un alto ufficiale dei carabinieri osserva: “Questo attentato è un’evidente azione di terrorismo. C’è la firma di gente esperta in tecniche di guerra e sabotaggio”. E, sottovoce, qualcuno aggiunge un’altra ipotesi: in via Fauro ci sarebbero degli uffici di copertura del Sismi, altro che Costanzo… O forse quegli uffici ci sono davvero, sono di società di copertura ma non fanno capo al Sismi ma al Sisde. (…) Ma c’è chi dice invece che in via Fauro, al numero 94, abita un certo Lorenzo Narracci, funzionario del Sisde e ufficialmente dipendente di una società di “copertura”  dei servizi, la Gattel srl, il cui titolare sarebbe l’ex cassiere del servizio segreto civile, Maurizio Broccoletti. Un nome che ricorrerà spesso soprattutto a proposito delle voci sul “complotto contro il Quirinale”. Nell’animo dei complottisti d’annata o appena convertiti al nuovo credo, la pista mafiosa d’ora in avanti si confonderà o opporrà alla pista del complotto internazionale (ora politico, ora economico, ora tutt’e due), a quella dei servizi segreti deviati (ora al soldo di non meglio precisati elementi del vecchio sistema di potere, ora al servizio di altri poteri occulti interessati a intorbidare le acque) e a quella di non meglio precisati gruppi neo-terroristici. Il tutto condito con forti richiami simbolici. Come si vedrà per l’attentato di Firenze, tredici giorni dopo. (…)

Un nuovo ordigno esplode la notte tra il 27 e il 28 maggio a Firenze, in via dei Georgofili, a ridosso della Galleria degli Uffizi e a due passi da piazza della Signoria, quattro minuti dopo l’una. Cinque i morti  (tra cui due bambine, una di otto anni, l’altra di sole sette settimane), 29 i feriti, 69 i senza casa, notevoli i danni alle opere d’arte. La Borsa di Milano scende del 2 per cento e la lira perde vistosamente terreno nei confronti del marco tedesco. Qualcuno ha nascosto quasi 300 chilogrammi di pentrite, T4, tritolo e sentex, in un Fiorino Fiat di colore bianco e ha dato l’allarme. Pare che pompieri e polizia stessero cercando l’autobomba al momento dell’esplosione. Poco dopo arriverà la solita telefonata della Falange armata. La rivendicazione non viene presa troppo sul serio anche perché, non appena giunto sul luogo della strage, il ministro Mancino dichiara a caldo: “É la mafia che risponde ai colpi dello Stato”. (…) Nonostante Mancino giuri e spergiuri ancora una volta sulla pista mafiosa, alcune circostanze riportano di forza in evidenza altre realtà. Il procuratore aggiunto Francesco Fleury osserva: “Magari questa non doveva essere nemmeno una strage: pochi in realtà sapevano che nell’Accademia dei Georgofili abitava la famiglia dei custodi, a quell’ora il vicolo poteva apparire disabitato. Forse doveva essere solo un attentato contro gli Uffizi: e gli Uffizi, vi sembrano obiettivo tipico di Cosa Nostra?” Ecco perché, su “La Stampa”, Roberto Martinelli scrive: “C’è tuttavia chi non crede che dietro la bomba di Firenze ci sia solo la mafia. Viene avanti con sempre maggiore insistenza il sospetto di un progetto stragistico messo a punto per bloccare il cambiamento che il potere giudiziario sta portando avanti sul doppio fronte della corruzione politica e della criminalità organizzata. Alcuni personaggi legati ai vecchi servizi, i nostalgici più irriducibili del piduismo, gli uomini che fanno ancora parte del sistema di corruzione ambientale che ha infettato l’Italia, i colletti bianchi di tutte le mafie non hanno certo interesse a cancellare il passato”. (…)

Col tempo vengono fuori altre circostanze. Simbolicamente indicative: non c’era solo la famiglia dei custodi nella torre devastata dalla bomba, dove aveva sede l’Accademia dei Georgofili, ma forse, al terzo piano, c’era anche uno strano tempio massonico. “La stanza”, ha rivelato ad “Avvenimenti” Impero Tozzoli, della Protezione civile di Firenze, che ha avuto accesso al terzo piano della Torre un mese dopo l’attentato, “dava l’impressione, pur nella confusione e a differenza di tutti gli altri ambienti dell’Accademia di Georgofili, di essere stata accuratamente svuotata. Non un foglio in terra, non un fascicolo negli armadi aperti. Alle pareti si notava l’impronta di quadri staccati di recente, mentre al centro della stanza restava solo un tavolo e, appuntata con cura e precisione lungo i bordi inferiori, a foderarlo, una tovaglia nera simile a una coperta d’altare. Con una differenza: al centro non c’è il ricamo di una croce, ma quello di una “greca”, un fregio che lì per lì mi ha ricordato certe decorazioni dei templi massonici”. Federico Fubini, il giornalista che questa volta per conto del settimanale “Avvenimenti” ha raccolto la testimonianza di Tozzi, precisa poi: “Spiega chi se ne intende che anche i massoni in effetti usano appuntare le tovaglie sotto il tavolo. E per una ragione precisa: per non consentire, cioè, alla “greca”  di scivolare e spostarsi dal centro, alterando l’equilibrio simbolico dell’arredo. E neppure la presenza del tavolo, quando si verifichi in un tempio massonico (ma soprattutto all’interno di una stanza di dimensioni ridotte) è semplice da interpretare. Se non altro, perché attorno a un tavolo di quel tipo possono sedere solo “fratelli dello stesso grado”: dunque persone che contano, e che non si riunirebbero se non per prendere decisioni al livello che solo a loro compete. In questo tipo di riunioni può avvenire che manchino i tradizionali simboli dei templi: il compasso, la squadra, la livella. Le cui immagini vengono dunque riprodotte dai quadri alle pareti”. Alcuni testimoni ricordano l’ostinazione del conducente del Fiorino carico di esplosivo nel voler parcheggiare in un preciso punto della stretta via dei Georgofili, nonostante la presenza di una vespa lo ostacolasse e nonostante il fatto che a poca distanza ci fossero posti più ampi; altri testimoni ricordano anche di aver notato, varie volte, la luce accesa fino a notte fonda al terzo piano della Torre del Pulci che ospita l’Accademia dei Georgofili, un antico ente con oltre due secoli e mezzo di storia e soprattutto con un consiglio accademico (che comprendeva anche l’allora presidente del Senato, Giovanni Spadolini) infarcito di massoni che fanno capo al Grande Oriente d’Italia. (…) Con via dei Georgofili si precisa meglio la duplice valenza degli attentati del ‘93, già individuabile in via Fauro e ancora più evidente negli attentati successivi. Duplice valenza perché a una lettura “bassa” a uso e consumo della pubblica opinione e dei mass media sembra accompagnarsi sempre una lettura “alta”, per “iniziati” capaci di cogliere sfumature e “simboli”. (…)

Il 23 luglio, a due mesi esatti dalla strage di Firenze, un’autobomba scoppia in via Palestro a Milano, uccidendo tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un extracomunitario che dormiva su una panchina poco distante. Tre quarti d’ora più tardi, a Roma, scoppiano altre due autobombe, in due punti simbolicamente significativi: davanti alla basilica di San Giovanni (14 feriti) e alla chiesa di San Giorgio al Velabro (tre feriti). In tutte e tre le occasioni l’esplosivo (100 chili a Milano, 50 a San Giovanni e 30 al Velabro) era in una Fiat Uno di colore bianco (grigio a Milano). L’esplosivo, del tipo di quello usato in precedenza a Roma e Firenze in maggio, è simile in tutte e tre le occasioni. Gli attentati non vengono rivendicati anche se la scelta delle macchine da imbottire di esplosivo sembra già una firma. Nella notte, a Roma, si diffondono notizie su altre bombe, inesplose o disinnescate: all’Eur, in via Gregorio VII, in via di Grottaferrata…

Anche in questo caso, a fronte di una apparente irrazionalità da parte dei terroristi nella scelta degli obiettivi da colpire fa da contraltare la simbologia, che aiuta a squarciare lievemente il buio e che cozza contro il rituale ritornello caro ai responsabili della sicurezza: “La pista da seguire è quella mafiosa”. Anche uno come Giulio Andreotti, abituato a pesare ogni parola, ogni virgola, si lascia andare: “É sbagliato limitarsi a seguire una sola pista… Non vorrei che addebitando tutto alla mafia si scegliesse una scorciatoia che in realtà non porta da nessuna parte”. E infatti i responsabili della morte dei giudici Falcone e Borsellino (due delitti sicuramente di mafia) sono stati individuati e, in parte, consegnati alla giustizia mentre i bombaroli della primavera-estate del 1993 sono tutt’ora impuniti. La simbologia, dicevamo, per sfuggire al cliché di comodo della pista mafiosa. Simbologia del potere, civile e religioso. E anche del potere massonico. Poco dopo l’attentato di via Palestro viene fuori, senza che la stampa, tutta presa a citare i danni alla vicina Galleria d’arte moderna e lo scampato pericolo per la Villa Reale, dia alla notizia particolare attenzione, che in quella strada milanese ha sede un’antica loggia aderente al Grande Oriente d’Italia, una circostanza che richiama alla mente quanto visto per la fiorentina via dei Georgofili. (…) Anche a Roma, la chiesa del Velabro è a un passo dal Foro Romano, ma lo è anche dal Campidoglio, sede del Comune di Roma, retto in quel momento da un commissario governativo in attesa delle elezioni amministrative di novembre. A voler cercare, i simboli non mancano. Anzi abbondano. E le cose si complicano sempre più. “Fu proprio qui che la leggenda delle origini”, scrive per esempio Maria Antonietta Lozzi Bonaventura, a proposito della chiesa di San Giorgio al Velabro nel suo “A piedi nella Roma antica”, “vuole si venisse a impigliare […] la cesta che trasportava i gemelli Romolo e Remo. […] E fu intorno alla base del Palatino che Romolo tracciò il solco sacro di confine della sua città, corrispondente alle attuali via di S. Teodoro, via dei Cerchi, via di San Gregorio e, all’interno dell’area del Foro romano, all’antica Via sacra.” . Nella strada di S. Teodoro è scoppiata la bomba. Perché proprio lì? Perché forse è il posto simbolo del potere di Roma, da dove è nato l’Impero romano? Per gente che vuol parlare dei simboli non è una buona traccia? Un attacco al potere civile e politico della città eterna? L’attacco più chiaro, tra quelli del 27 luglio, è senz’altro quello al Palazzo del Laterano, posto a ridosso della basilica di San Giovanni in Laterano. Quel palazzo, dove vive il presidente della Conferenza episcopale italiana, la massima autorità cattolica in Italia, cardinal Camillo Ruini, è da secoli il simbolo dell’autorità papale a Roma. È la sede del Vicariato, la residenza ufficiale del “vescovo di Roma”, cioè papa Giovanni Paolo II. Si apre una pista internazionale per le bombe? Qualcuno pensa di sì: sono i teorici della volontà straniera di sconvolgere l’Italia, “…e non ci può essere destabilizzazione dell’Italia senza la destabilizzazione del Vaticano”, scrive la rivista “Eir” ricordando la dura condanna che il Papa ha fatto della inattività occidentale di fronte ai crimini serbi nella guerra dell’ex Jugoslavia. (…) “Un fatto è certo”, ha osservato invece Giuseppe De Lutiis, “le bombe del 1993 sono bombe “colte”, nel senso che dietro di esse si indovinano quelle che Falcone, dopo l’attentato all’Addaura, chiamò “menti raffinatissime”. Ma le bombe del 1993 contengono probabilmente una molteplicità di messaggi, molti dei quali possono essere compresi solo dai destinatari.”

Ma non ci sono solo le bombe a far capire che qualcosa di grave si sta muovendo. A meno di quattro giorno dalle bombe di Milano e Roma, la notte tra il 27 e il 28 luglio Palazzo Chigi rischia di restare isolato. Come rivelerà giorni dopo il ministro Mancino, 22 minuti dopo mezzanotte i centralini della presidenza del Consiglio vanno in tilt. Ciampi e i suoi collaboratori seguono gli sviluppi della notte delle bombe grazie ai telefonini cellulari fino alle tre del mattino del 28 luglio, quando i tecnici riusciranno finalmente a ristabilire le comunicazioni. Curiosamente (ma forse neanche troppo) tra la mezzanotte e le tre, le stesse ore del black out telefonico Roma, la Capitaneria di porto di Civitavecchia è messa in allarme da strani movimenti lungo la costa tra la stessa Civitavecchia e Ladispoli. Lo rivelano ai primi di agosto due interrogazioni parlamentari: una del gruppo Verde alla Camera e l’altra del deputato del Pds Quarto Trabacchini. Molte persone, rivelano i parlamentari, in quelle ore hanno visto, sia da terra che dal mare, razzi e traccianti solcare il cielo. In seguito lo Stato maggiore comunicò che si trattava di una azione di addestramento di 40 incursori che avrebbero dovuto simulare uno sbarco sulla spiaggia di Furbara, a un tiro di schioppo da Santa Severa, la cittadina del litorale romano dove si trovano le residenze estive di Ciampi e Scalfaro: “casualmente”, quella sera si trovavano tutti e due lì. Un altro verde, il consigliere comunale di Roma, Athos De Luca, rivela che, sempre in quelle ore, si sarebbero svolte altre manovre militari presso Montalto e all’Argentario. Ciampi, quella notte, poté comunque convocare per le due e un quarto una riunione d’emergenza del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, proprio perché si trovava a Santa Severa. Trentasei ore dopo, il compassato presidente del Consiglio si lascia sfuggire che esiste “un grande nemico non individuato, impegnato in un attentato a tutti i poteri dello Stato”. Pensa alle bombe, ai centralini in tilt di Palazzo Chigi o alle strane manovre militari vicino a casa sua? Forse a tutti e tre gli avvenimenti messi insieme, visto che per una notte sola di cose ne son successe veramente troppe. (…)

La guerra dei misteri, da agosto in avanti, non si combatte più solo con le autobombe o le rivelazioni dei pentiti che “fanno fuori” qualche potente di ieri. “Servizi segreti. Mafia. Falange armata. Colpo di Stato. Caso Moro e ‘ndrangheta. Terrorismo nero. Non era mai accaduto”, scrive a metà ottobre Roberto Chiodi su “Il Sabato”, “nella storia d’Italia, un simile tornado di rivelazioni nel giro di così pochi giorni. Si è scatenata una vera e propria “guerra dei misteri”. C’è la sensazione che forze contrastanti, in Italia e fuori, si stiano dando battaglia a colpi di dossier […] E questo ciclone è forse estraneo alle ultime vicende di Tangentopoli? E cosa c’entra il progetto di scioglimento del Sisde, il servizio di sicurezza civile? E la guerra sotterranea che sta avvelenando gli alti gradi dell’esercito e dei carabinieri che nesso può avere con queste storie terribili, che preannunciano un finale di partita dove tutto si confonde e tutto si rimescola?”. Non basterebbero dieci libri a dare una risposta, ammesso che ci sia, alle domande di Chiodi. Domande che nascono da una serie di rivelazioni che occupano le prime pagine dei quotidiani italiani a inizio autunno 1993. Rivelazioni che vanno tutte nella stessa direzione: c’è una lotta di potere, forse nazionale, forse internazionale (e forse tutt’e due) che passa sopra le teste degli italiani e che, comunque vada a finire, lascerà l’Italia in condizioni terribili.

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