HomeBlogCancel culture all'attacco delle statue allegoriche

L'Insolita Storia

Cancel culture all’attacco delle statue allegoriche

Che gli obiettivi dell’ideologia woke non fossero le statue dei confederati e degli schiavisti dovrebbe essere un fatto assodato. Ormai gli obiettivi di questa cancellazione si sono fatti sempre più ambiziosi. Basti pensare all’attacco che sta subendo l’immagine di Lincoln, dai primi timidi attacchi all’Emancipation Memorial di Washington incentrati sulla postura del gruppo scultoreo si è passati in pochi mesi ad attaccare la figura di Lincoln in quanto tale. E così lo statista “artefice della fine della schiavitù” viene cancellato dai nomi delle scuole di San Francisco, mentre sono sotto attacco anche le più famose statue di Lincoln nella città statunitense maggiormente legata allo statista, Chicago. O da questa parte dell’Atlantico dei crescenti attacchi di una parte dei francesi contro la figura simbolo della Francia, Napoleone.

Ma è proprio da Chicago che arriva un nuovo segnale di come la cancel culture stia per prendersela anche con il mondo dell’immateriale e delle allegorie: persino una statua allegorica come quella che rappresenta la Repubblica in un parco di Chicago diventa oggetto di dibattito e possibile ricontestualizzazione e rimozione.

The Republic, Daniel Chester French, Jackson Park, Chicago (via Commons)

Nulla di nuovo per chi ha letto Iconoclastia, nel capitolo 10, dal provocatorio titolo Autodistruzione for dummies, si spiegava proprio come le ondate di autodistruzione iconoclasta siano: «in una prospettiva più ampia […] gli araldi di un fenomeno che va ben oltre le “statue confederate” e le “chiese neogotiche di provincia” come qualche commentatore insiste per circoscrivere il fenomeno. Sono invece le avvisaglie di un’ondata d’autodistruzione che gioca a più livelli.»

I “confederati” erano solo il cavallo di Troia per far entrare nel dibattito pubblico l’idea che cancellare il passato costruito fosse cosa buona e giusta. E dai confederati si è passati presto agli schiavisti tout-court, padri della patria a stelle e strisce come George Washington e Thomas Jefferson inclusi, per arrivare a Lincoln e Roosevelt.

Allo stesso modo l’incuria la successiva distruzione volontaria non colpiscono solo le chiese tardo-ottocentesche “sovradimensionate” o “mal costruite” della provincia francese, ma si arriva a demolire persino opere antecedenti all’eventuale grandeur catto-ottocentesca, come il caso del paesino belga di Bierghes che perderà la chiesetta del 1792 che domina il villaggio di campagna da 230 anni.

Guardando nella prospettiva generale il fenomeno sembra assumere l’obiettivo non dichiarato di far finire nel tritarifiuti buona parte dell’immaginario del XIX secolo, anche quando si tratta di un immaginario astratto, ancorché sedimentato in un’interpretazione allegorica, proprio come la Repubblica di Daniel Chester French (1850 – 1931) che fa bella mostra di se a Chicago. Statua firmata da uno dei massimi scultori statunitensi, fu proprio Chester French a ideare una delle più famose statue degli Stati Uniti, il Lincoln del Lincoln Memorial di Washington (statua poi materialmente scolpita dai fratelli Piccirilli).

La statua del Lincoln Memorial ideata da Chester French e scolpita dai fratelli Piccirilli. Statua e memoriale non sono ancora finiti nel dibattito sorto intorno ad altre rappresentazioni di Lincoln

Come è possibile che una statua allegorica che rappresenta l’ideale della Repubblica, possa finire nelle liste di proscrizione dei novelli iconoclasti? Il sito della commissione Chicago Monuments (quella che ha già messo nella lista nera le quattro statue di Lincoln di cui ci siamo già occupati) propone le linee guida che hanno permesso di identificare le statue da “porre in discussione”. Ecco gli aspetti che rendono un monumento oggetto di revisione:

  • Promuovere narrazioni di supremazia bianca
  • Presentare caratterizzazioni imprecise e/o degradanti degli indiani d’America
  • Ricordare individui con collegamenti ad atti di razzismo, schiavitù e genocidio
  • Presentare visioni selettive, troppo semplificate e unilaterali della storia
  • Non includendo sufficientemente altre storie, in particolare quelle delle donne, delle persone di colore, e i temi del lavoro, della migrazione e della costruzione della comunità
  • Creare tensione tra le persone che attribuiscono un valore a queste opere d’arte e quelle che non lo riconoscono

In quale categoria ricade una rappresentazione allegorica di una forma di governo diffusa e rispettata? Certo è una rappresentazione “ottocentesca” che ha in sé tutti i canoni dell’antichità classica greco-romana. Una prassi che è bene precisare non ha certo radici ottocentesche, ma è figlia di un canone che si sviluppa già con il Rinascimento, sulla falsariga delle divinità greco-romane. In qualunque affresco pubblico dal XV secolo in poi troveremo rappresentazioni di Repubbliche, Giustizie, Libertà, Buon Governo e così via. Non è certo un “canone ottocentesco”.

Il dubbio legittimo, di fronte alla scelta della commissione di Chicago, è che tra le colpe ci sia proprio la connessione con l’arte classica greco-romana. Come dimostra il mai troppo citato caso dell’Università del Rhode Island dove si vogliono giubilare le statue di Marco Aurelio e Ottaviano Augusto. Statue da condannare in quanto i mecenati che donarono quelle copie all’università lo fecero per imporre la chiave di lettura che li vedeva come ideale espressione ed eredi di un’Arcadia classica. Arcadia a sua volte figlia di una costruzione violenta e maschilista dello Stato. Perché anche se le Polis ateniese fu la culla della democrazia la: “partecipazione alla politica era limitata ai cittadini maschi; migliaia di persone schiavizzate lavoravano e morivano nelle miniere d’argento a sud della città, e i costumi imponevano che le donne della classe superiore non potessero uscire di casa se non erano velate e accompagnate da un parente maschio“, come recita un articolo intervista del New York Times all’accademico Padilla Peralta, colui che per salvare i “classici” è disposto a correre il rischio di distruggerli (così afferma il sottotitolo del NYT).

La Repubblica dello scultore Daniel Chester French è quindi figlia di un retaggio ideale associato all’antichità classica, inevitabilmente eurocentrica e “bianca”. Un bianco quello dei classici greco-romani che almeno in origine sarebbe stato molto mediterraneo e poco WASP per la verità. Ma questo ai teorici della nuova iconoclastia non interessa: la loro ossessione è l’interpretazione ottocentesca dei classici. Il fatto che siano stati presi a modello in quell’epoca ne inficia qualunque lettura.

Di tutti i punti proposti dalla commissione, quello in cui può ricadere la colpa di un’allegoria come la Repubblica (e motivo per cui la sua posizione sulla pubblica piazza deve essere “ridiscussa”) sarebbe quindi l’ultimo “Creare tensione tra le persone che attribuiscono un valore a queste opere d’arte e quelle che non lo riconoscono”.

Insomma l’allegoria della Repubblica come portatrice di Discordia. Una definizione, quella della commissione di Chicago, che ricorda in maniera sinistra un altro passaggio, quello della Convenzione di Faro che recita: «stabilire processi di conciliazione per affrontare in modo equo le situazioni in cui valori contraddittori sono posti sullo stesso patrimonio culturale da comunità diverse».

Basilica di San Petronio, Bologna – Il Giudizio universale di Giovanni Da Modena, un’opera potenzialmente contradditoria per comunità diverse (via Commons)

Di nuovo la creazione di tensione legata a interpretazioni contradditorie di un’opera. Ovviamente Chicago Monuments non è la Convenzione di Faro, ma la somiglianza di questo punto è indubbia. Non per nulla nel capitolo 12 di Iconoclastia si spiegava come anche il dibatitto intorno a una convenzione superficialmente fatta solo di “buone intenzioni”  nascondesse tra le pieghe gli stessi prodromi dell’iconoclastia montante. Fortunatamente al di qua dell’Atlantico la Convenzione di Faro rimane per ora nel cassetto. Mentre la commissione di Chicago appare sicuramente più attiva.

Ma alla Repubblica di Chester French è assegnata comunque un’altra colpa, che va oltre l’essere una semplice allegoria neoclassica d’ispirazione greco-romana realizzata da uomini ottocenteschi. Non solo glorifica la Repubblica nella sua declinazione statunitense, ma è a sua volta un monumento che ricorda un evento legato a uno dei personaggi più detestati dall’ideologia woke: Cristoforo Colombo!

La Repubblica in questione fu eretta per ricordare i 25 anni dell’esposizione universale che si tenne a Chicago nel 1893. Esposizione che ebbe tra i suoi simboli proprio una prima versione della statua, alta 20 metri e fatta di stucco e gesso. A quattro secoli e un anno dalla “scoperta dell’America” di Cristoforo Colombo divenne un occasione per celebrare il navigatore genovese, e fu battezzata la World’s Fair: Columbian Exposition.

La statua originale al centro del grande bacino realizzato per l’espozione universale del 1893 (via Commons)

Esposizione di assoluto rilievo non solo per Chicago, la città simbolo del Midwest si era completamente ripresa dal devastante incendio del 1871, ma anche internazionale. La Spagna realizzò la replica delle tre caravelle di Colombo. Repliche che raggiunsero Chicago attraversando l’Atlantico al traino. Mentre la norvegese Viking, replica di un drakkar vichingo ricostruito sulla base della nave ritrovata nella tomba a tumulo di Gokstad dieci anni prima, riuscì ad arrivare dalla Norvegia ai Grandi Laghi navigando in autonomia. Per gli standard dell’epoca si potrebbe dire persino che la presenza dei “navigatori norvegesi” rendesse l’esposizione un po’ meno “colombocentrica”. Altro elemento clou dell’esposizione universale di Chicago fu la prima ruota panoramica, la Ferris Wheel, nome che nell’inglese americano è usato ancor oggi per indicarle. Anche la famosa ruota del Prater viennese nasce ispirata dal successo di quella di Chicago nell’esposizione universale colombocentrica.

La Viking nel grande bacino, sullo sfondo la statua della Repubblica. La presenza vichinga in un evento incentrato su Colombo renderebbe il tutto quasi inclusivo per l’epoca

Ma l’Esposizione Universale del 1893 non ha solo la colpa di essere stata dedicata a Colombo. L’altra colpa è quella di essere stata organizzata proprio in quegli anni. Ovvero, ancorché Chicago fosse nel nord antischiavista, il percorso di emancipazione era appena agli inizi. A livello organizzativo e di rappresentanza l’esposizione universale di Chicago non tenne minimamente conto di questo processo. Nessun afroamericano in un ruolo rilevante o di rappresentanza, solo un delegato dallo stato di New York. E sopratutto nessun nero tra le Columbian Guards, il corpo di guardia e d’onore della manifestazione. E pochissimo lo spazio per artisti o scienziati di colore negli spazi dell’arte e della scienza statunitense. Tra i pochi, Edmonia Lewis, che aveva studiato e lavorato a Roma. E unica “nazione nera” ad avere spazio nella zona centrale dell’esposizione la White City fu Haiti con un proprio padiglione.

E proprio la White City, la città bianca così battezzata per il tipo di stucco e di vernice usati per realizzare le costruzioni, statue e decorazioni in stile Belle Époque, divenne già allora oggetto del contendere. Scrisse la giornalista e attivista afroamericana Ivy B.Wells nel suo pamphlet coevo all’esposizione: “Era semplicemente un’indicazione del piano e della politica della Direzione dell’Esposizione che non fu preso in considerazione il rispettoso ma, allo stesso tempo, convincente appello fatto dal signor Crawford (afroamericano che aveva chiesto l’arruolamento nelle Columbian Guards [NdR]). Era stato stabilito che nessun uomo di colore dovesse essere impiegato nella forza delle Columbian Guards e questa decisione non doveva essere modificata. Il fatto che un uomo di colore fosse riuscito a scoprire la spregevole doppiezza e falsità usata per raggiungere quello scopo, non faceva alcuna differenza nel piano, né influenzava in alcun modo i suoi promotori. Teoricamente aperta a tutti gli americani, l’Esposizione in pratica è, letteralmente e figurativamente, una “Città Bianca”, nella cui costruzione non è stato permesso all’americano di colore di dare una mano, e nel cui glorioso successo non ha alcuna parte.

Altra vista della White City (via Commons)

La lettura della White City come modello di segregazione bianca e patriarcale fu sancita un secolo dopo dall’accademica Gail Bederman con il suo Manliness and Civilization –
A cultural history of gender and race in the United States, 1880-1917
. Caposaldo della gender history anni ’90. Saggio in cui si afferma: “La Città Bianca, con la sua visione della futura perfezione e del potere avanzato e razziale del commercio virile e della tecnologia, ha costruito la civiltà come un ideale di potere maschile bianco“. Interpretazione a cui aggiungere il fatto che, come tutti gli eventi internazionali dell’epoca, non potevano mancare i “veri selvaggi” nelle varie sezioni etnico-antropologiche simil zoo-umani.

E tra i simboli di quell’esposizione tra Colombo e “idealizzazione del potere commerciale e tecnologico del maschio bianco” (per dirla alla Bederman) proprio la colossale statua della Repubblica di Chester French.

Che questa sia la vera colpa dell’allegoria della Repubblica che troviamo a Chicago? Qulla di ricordare un’esposizione universale tenutasi nel nome di Colombo, “che portò la fiaccola della civiltà nella Americhe” come recitavano gli slogan dell’epoca. E un’esposizione universale comunque segregazionista come erano gli Stati Uniti dell’epoca. Un simbolo di suprematismo essa stessa essendo associata a un’esposizione universale macchiatasi di queste colpe (Transitivamente si potrebbe associare questa riflessione anche alle ruote panoramiche…).

La Ferris Wheel all’espozione universale del 1893 (via Commons)

Pure la Repubblica di Chester French è tra le poche statue a cui la commissione di Chicago Monuments degna uno straccio di motivazione nelle FAQ. Infatti, nonostante lo scopo pubblicizzato della commissione sia il dibattito e non la rimozione, a parte i sei generici punti iniziali, per buona parte delle statue non è presente alcuna motivazione specifica. Più che spunto per un dibattito, sembra una scelta kafkiana stile Nella colonia penale: la sentenza si completa solo al completamento dell’esecuzione.

Ma la Repubblica, bontà loro è una delle poche statue ad avere una “contestualizzazione” per la sua “discussione”. Dalla FAQ apprendiamo che per la Commissione il capo d’imputazione per la Repubblica va oltre il semplice Colombo e l’eventuale “suprematismo” della Città bianca di allora. Scrive Chicago Monuments: «La “Repubblica” di Daniel Chester French è una delle tante opere d’arte che hanno avuto origine con la World’s Columbian Exposition.  Collocata a Jackson Park vicino al sito della versione originale e colossale, è il più grande punto di riferimento che commemora la fiera, un evento che ha presentato una visione altamente distorta del passato e del presente di Chicago.»

Una distorsione che la commissione attribuisce al passato, ma che evidentemente è legata all’interpretazione che ne dà il presente. Per i chicagoani dell’epoca che crearono l’evento la loro visione era chiarissima, ed era quella del mondo nell’ultima decade del XIX secolo. Il problema della statua di Chester French non è quindi “Colombo” o la segregazione della “White City”, ma il passato in quanto tale. Un passato diverso, e, necessariamente, non allineato al presente.

Il fatto che il passato possa per sua natura essere diverso dall’oggi, nelle sue priorità, nelle sue sensibilità, nelle sue moralità e nei suoi tabù, lo rende automaticamente distorto. Una “non congruenza” che come ben sapeva il personaggio di finzione Winston Smith, può essere risolta solo in un modo, allineando il passato a forza al presente. Al costo di censurarlo o mistificarlo.

Un evento passato che alla luce dell’oggi presenta quindi una “highly distorted vision” mette a rischio qualunque manufatto storico. Chissà nel giro di qualche anno non finisca nel tritarifiuti uno dei simboli assoluti degli Stati Uniti. Un’altra statua allegorica che fa bella mostra di se a New York, La Libertà che illumina il mondo di Frédéric Auguste Bartholdi su intelaiatura di Gustave Eiffel. D’altronde la testa della statua fu tra i simboli dell’Esposizione universale parigina del 1878. E anche all’epoca non poteva mancare un zoo umano con 400 indigeni. Insomma, per ridiscutere e risignificare la Statua della Libertà si può partire da qui.

La testa della Statua della Libertà all’esposizione universale di Parigi del 1878 (via Commons)

E in fondo non sarebbe nemmeno la prima statua di uno scultore di fama mondiale come Bartholdi che viene rimossa. A Providence, Rhode Island, nel giugno 2020 hanno già rimosso un altro Bartholdi: il solito Colombo, copia di un Colombo realizzato in argento proprio per l’esposizione universale di Chicago del 1893.

Il Colombo di Bartholdi a Providence, Rhode Island, rimosso a giugno 2020 (via Commons)

***

L’affermazione intorno alla Statua della Libertà apparirà come un’iperbole, una boutade, un’esagerazione sensazionalistica. Eppure a testimonianza di come cambi rapidamente la percezione intorno a monumento basti riprendere questo articolo di appena tre anni orsono del Chicago Tribune: il nuovo assetto urbanistico legato alla costruzione dell’Obama Presidential Center riunirà al Jackson Park la statua della Repubblica oggi sostanzialmente una rotonda spartitraffico. E nell’articolo si descrive con un pizzico d’ironia come questa “liberazione” dal traffico della statua soprannominata Golden Lady sarebbe diventato un atto di emancipazione femminile, “Call it an act of women’s liberation.”

Dall’emancipazione femminile, al rischio che la statua possa semplicemente scomparire.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

- Advertisment -

DALLO STESSO AUTORE

ARTICOLI PIù LETTI