Un vecchio articolo di Geminello Alvi da “Il Giornale” del primo febbraio 2007 ripropone il tema di una copertina di “Storia In Rete” che ha fatto molto discutere e arrabbiare. Una buona ragione per tornarci su… (SiT)
di Geminello Alvi dal Giornale del 1° febbraio 2007
Leggiamo che il presidente Bertinotti, evocando «la resistenza mite e coraggiosa, la rivoluzione pacifica», rivaluta Allende. Ancora oscurato, a suo dire, da quegli Anni Settanta, quando «i miti erano altri, Che Guevara…». Nella gerarchia dei tanti eroi che confondono le sinistre sale insomma un martire, ma inetto, presidente cileno e scende il dottor Ernesto Guevara. Proprio lui, lo stalinista asmatico e argentino beffardo, ma di fotogenia perfetta per divenire attore a Hollywood. Perciò eletto santo e guerriero dalla mia generazione d’adolescenti borghesi, dalla pubblicità, e persino dai tatuaggi. Ma ormai declassato dal Presidente della Camera in visita alla tomba di Allende. Per giunta mentre spopola a sinistra l’altro guerriero da commedia dell’arte: Chavez. Ma forse la carica che Bertinotti ora ricopre, e l’emozione cimiteriale giustificano il suo ammorbidimento.
E deve inoltre tenersi conto che se in Italia i venti e le stagioni mutate ci influenzano l’umore, l’effetto è cronico in quel continente. E ancora più deviante. Si pensi solo che un cantautore venezuelano, altra notizia di ieri, canta e brama tre ministre italiane. E le cita nell’ordine: Livia, Emma e Rosy. Dal che potrebbe già dedursi l’intensità delle allucinazioni di cui soffrono quelle folli pianure del Sud America.
E tuttavia Bertinotti è persona sempre garbata. E al di là dei palesi straniamenti indotti dal clima e dai calcoli politici, resta il fatto che il declassamento del Che va approvato. Pure perché dà la maniera di rammentare di che pessime esistenze e finti eroi si nutrano purtroppo ancora certi miti. Infatti se il mulatto Batista violò la Costituzione con un colpo di Stato, e Castro l’abolì, al dottor Guevara non bastava. Volle l’adozione del modello sovietico. Confiscò scuole, e seminari; abrogò il Natale, e terrorizzò i ceti medi di quello che era ancora tra i Paesi di maggior benessere dell’America Latina. E presiedette ai giudizi sommari. Le povere mogli di centinaia fucilati, sfilarono vicino alle mura delle esecuzioni, lorde di sangue e cervella. Ma lui organizzò il campo di Guanacabibes dove vennero confinati quanti «avevano commesso – spiegò – crimini gravi e meno gravi contro la morale rivoluzionaria… per essere rieducati». Quindi si candidò banchiere, e divenne presidente della banca centrale di Cuba, nomina tragicomica. Come il volo a Mosca e i fiori portati sulla tomba di Stalin. Da responsabile dell’industria, dedusse poi che si doveva abolire il denaro. Nel 1961 varò un piano quadriennale per raddoppiare il livello di vita: un anno, a Cuba fu introdotto il razionamento.
E non basta: durante la crisi di Cuba isterico s’offese di non essere consultato, spiegando: «Se i missili fossero rimasti, li avremmo usati tutti…». Per il suo fanatismo la guerriglia era l’unica strategia pensabile in America Latina. Non aveva capito che lui e Castro, a Cuba, non avevano vinto una guerra, ma profittato degli errori degli Usa. Nei suoi libri militari esagerò quindi in dettagli, con furia meticolosa da dilettante. E infatti quando il Che si volle liberatore dell’Africa, si trovò collega di Kabila in Congo, rendendosi ridicolo. Sempre più triste, scelse la Bolivia, dove le miniere di stagno erano nazionalizzate, e c’era stata una riforma agraria. Vagò nelle foreste, confuso dall’asma, finché denunciato dai contadini gli riuscì il martirio. E così la vita plasticata di Ernesto Guevara ebbe la sua eternità di magliette e pubblicità. Per la qualcosa è prevedibile che Allende, malgrado Bertinotti, non lo supererà. Ormai il Che è un’etichetta che vale più di qualunque casa di moda: riprova dell’anticonsumismo più consumato, e della pazzia del mondo.
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