Alla fine, Gheddafi è stato ucciso e il suo corpo sottoposto ad una “piazzale Loreto” in salsa libica. “Storia in Rete” ha dedicato diversi articoli al dittatore tripolino, l’ultimo dei quali è una lunga anticipazione dal saggio di Pierluca Pucci Poppi “Gheddafi, ascesa e caduta di un oppositore globale” (Aliberti, 2011). L’articolo (vedi anteprima) è stato pubblicato su “Storia in Rete” di ottobre 2011. Eccone un estratto.
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Nonostante l’appoggio dei governi e dei servizi italiani al Colonnello, e i miliardi che l’ENI versa nelle casse di Tripoli, Gheddafi non perde occasione per insolentire l’ex potenza coloniale. I rapporti fra l’Italia e la Libia del Qaid [guida NdR] sono tradizionalmente pessimi nella forma e ottimi nella sostanza. La Libia è stata la pompa di benzina dell’Italia per mezzo secolo e ha contribuito allo sviluppo economico della penisola dagli anni Sessanta, per cui è comprensibile che tutti i governi succedutisi a Roma abbiano considerato una questione di interesse nazionale mantenere buoni rapporti con Tripoli e sopportare le intemerate del colonnello Gheddafi.
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Il generale Ambrogio Viviani, ex capo del controspionaggio italiano, dice al settimanale «Panorama» il 18 maggio del 1986: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’ENI fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate. Io stesso compilai per Gheddafi un manuale dal titolo “Costituzione, organizzazione, funzionamento e impiego di un servizio segreto”».
L’Italia arma la Libia dal 1972 con artiglieria e blindati M113 tolti a reparti dell’esercito e riverniciati. Gli M113 sono costruiti dall’OTO Melara su licenza americana e Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, avrebbe preferito cedere materiale italiano, ma nella Democrazia Cristiana sono tutti d’accordo sul riarmo di Gheddafi, anche perché, come testimoniato dal generale Michele Correra del SID ai giudici di Roma «sulle forniture di petrolio dalla Libia all’Italia, l’ENI dava una tangente dello 0,5 oppure dello 0,6 per cento sul valore complessivo delle forniture a esponenti della Democrazia cristiana». Fra gli anni Sessanta e Settanta l’interscambio commerciale italo-libico cresce di diciassette volte. L’ENI si trova in joint venture al cinquanta per cento con i libici, mentre le compagnie petrolifere inglesi e americane sono state nazionalizzate; la SNAM Progetti costruisce la prima grande raffineria libica a Tripoli; nel febbraio del 1974 l’accordo Rumor-Jalloud sulla cooperazione economica permette all’Italia di ottenere sette milioni di tonnellate di petrolio libico all’anno in più, da pagare con costruzioni, infrastrutture e fabbriche. Roma ottiene concessioni petrolifere, costruisce impianti (come a Ras Lanuf e a Brega, dove si combatte nel 2011), edifici, fognature, industrie e infrastrutture. L’Italia è il primo partner commerciale della Libia, e lo rimarrà nonostante i tempestosi rapporti politici. Nel 1976 Tripoli compra per quattrocentoquindici milioni di dollari il dieci per cento delle azioni della FIAT, in grave crisi all’epoca e assetata di capitale. Secondo Cesare Romiti, Gianni Agnelli chiese il nulla osta alla CIA, all’epoca guidata dal futuro presidente George Bush senior, da cui ottenne il via libera. Agnelli dirà che i soci libici si comportarono «come banchieri svizzeri», e Enrico Cuccia li ammonì: «non dovete entrare nella gestione». Secondo Romiti, «venivano a Torino, partecipavano ai consigli, guardavano i bilanci e se ne andavano. Quando poi uscirono, nell’86, misurarono il loro affare: la FIAT era rinata, la Libia aveva guadagnato. E parecchio».
Nell’intervista a Oriana Fallaci del due dicembre del 1979, Gheddafi dice alla giornalista, che gli parla di Gianni Agnelli:««Gianni chi?»
«Gianni Agnelli, il presidente della FIAT»
«La FIAT? La mia azienda, my company!»
«Sì, la sua azienda, la sua company. La FIAT. Agnelli».
«Non lo conosco».
«Non conosce Agnelli, il suo socio?»
«No, non è affar mio conoscerlo. È una faccenda che riguarda i miei funzionari, gli impiegati della mia banca. La Libyan Foreign Bank».
«Davvero lei non sa chi è Agnelli, il suo socio?»
«No, non lo so».
«Mai visto la sua fotografia, mai udito il suo nome?»
«Mai. Non mi interessa, non mi riguarda. Ho altre cose da fare, io, che conoscere i nomi dei miei soci o della gente che appartiene al mondo delle banche».
Gheddafi mente, perché è risaputo, testimoniato e persino raccontato dall’Avvocato che il Colonnello e Gianni Agnelli si sono incontrati a Mosca nel dicembre del 1976. Nonostante le idilliache relazioni economiche, un primo assaggio di rospi da ingoiare per mantenere buone relazioni con Tripoli ha luogo il 17 dicembre 1973, quando all’aeroporto romano di Fiumicino un commando palestinese di Settembre Nero attacca un aereo della Pan Am con bombe incendiarie al fosforo, uccidendo trenta persone. Dopo il massacro, i terroristi dirottano un aereo della Lufthansa sul Kuwait e lì scompaiono. Fra l’attacco e il dirottamento, i morti nell’operazione sono trentadue, fra cui sei italiani. Scrive Miguel Gotor, nel libro «Il memoriale della Repubblica»: «La notizia relativa al presunto ruolo svolto dal servizio segreto militare italiano [nell’attentato di Fiumicino, NdR] non ha trovato finora riscontri certi, ma l’allora sottosegretario alla Difesa Pietro Buffone e il generale della guardia di finanza Vittorio Emanuele Borsi hanno testimoniato che la strage, organizzata dai servizi segreti libici, ebbe l’assenso del capo del SID Miceli […] Soltanto nel maggio 1989 la Cassazione confermò in via definitiva la condanna all’ergastolo per Abu Nidal, riconoscendolo come mandante dell’attentato». Abu Nidal è un vecchio sodale del colonnello Gheddafi e lo incontreremo ancora per gli attentati di Roma e Vienna del 1985. Il governo italiano scagiona la Libia, perché non può permettersi di mettere a repentaglio i rapporti con Tripoli per una simile piccolezza (sei italiani uccisi), quindi si fa finta di niente e ancora oggi quella di Fiumicino è chiamata «la strage dimenticata». (…)
Nonostante l’appoggio dei governi e dei servizi italiani al Colonnello, e i miliardi che l’ENI versa nelle casse di Tripoli, Gheddafi non perde occasione per insolentire l’ex potenza coloniale. I rapporti fra l’Italia e la Libia del Qaid [guida NdR] sono tradizionalmente pessimi nella forma e ottimi nella sostanza. La Libia è stata la pompa di benzina dell’Italia per mezzo secolo e ha contribuito allo sviluppo economico della penisola dagli anni Sessanta, per cui è comprensibile che tutti i governi succedutisi a Roma abbiano considerato una questione di interesse nazionale mantenere buoni rapporti con Tripoli e sopportare le intemerate del colonnello Gheddafi.
Il generale Ambrogio Viviani, ex capo del controspionaggio italiano, dice al settimanale «Panorama» il 18 maggio del 1986: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’ENI fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate. Io stesso compilai per Gheddafi un manuale dal titolo “Costituzione, organizzazione, funzionamento e impiego di un servizio segreto”».
L’Italia arma la Libia dal 1972 con artiglieria e blindati M113 tolti a reparti dell’esercito e riverniciati. Gli M113 sono costruiti dall’OTO Melara su licenza americana e Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, avrebbe preferito cedere materiale italiano, ma nella Democrazia Cristiana sono tutti d’accordo sul riarmo di Gheddafi, anche perché, come testimoniato dal generale Michele Correra del SID ai giudici di Roma «sulle forniture di petrolio dalla Libia all’Italia, l’ENI dava una tangente dello 0,5 oppure dello 0,6 per cento sul valore complessivo delle forniture a esponenti della Democrazia cristiana». Fra gli anni Sessanta e Settanta l’interscambio commerciale italo-libico cresce di diciassette volte. L’ENI si trova in joint venture al cinquanta per cento con i libici, mentre le compagnie petrolifere inglesi e americane sono state nazionalizzate; la SNAM Progetti costruisce la prima grande raffineria libica a Tripoli; nel febbraio del 1974 l’accordo Rumor-Jalloud sulla cooperazione economica permette all’Italia di ottenere sette milioni di tonnellate di petrolio libico all’anno in più, da pagare con costruzioni, infrastrutture e fabbriche. Roma ottiene concessioni petrolifere, costruisce impianti (come a Ras Lanuf e a Brega, dove si combatte nel 2011), edifici, fognature, industrie e infrastrutture. L’Italia è il primo partner commerciale della Libia, e lo rimarrà nonostante i tempestosi rapporti politici. Nel 1976 Tripoli compra per quattrocentoquindici milioni di dollari il dieci per cento delle azioni della FIAT, in grave crisi all’epoca e assetata di capitale. Secondo Cesare Romiti, Gianni Agnelli chiese il nulla osta alla CIA, all’epoca guidata dal futuro presidente George Bush senior, da cui ottenne il via libera. Agnelli dirà che i soci libici si comportarono «come banchieri svizzeri», e Enrico Cuccia li ammonì: «non dovete entrare nella gestione». Secondo Romiti, «venivano a Torino, partecipavano ai consigli, guardavano i bilanci e se ne andavano. Quando poi uscirono, nell’86, misurarono il loro affare: la FIAT era rinata, la Libia aveva guadagnato. E parecchio».
Nell’intervista a Oriana Fallaci del due dicembre del 1979, Gheddafi dice alla giornalista, che gli parla di Gianni Agnelli:««Gianni chi?»«Gianni Agnelli, il presidente della FIAT»«La FIAT? La mia azienda, my company!»«Sì, la sua azienda, la sua company. La FIAT. Agnelli».«Non lo conosco».«Non conosce Agnelli, il suo socio?»«No, non è affar mio conoscerlo. È una faccenda che riguarda i miei funzionari, gli impiegati della mia banca. La Libyan Foreign Bank».«Davvero lei non sa chi è Agnelli, il suo socio?»«No, non lo so».«Mai visto la sua fotografia, mai udito il suo nome?»«Mai. Non mi interessa, non mi riguarda. Ho altre cose da fare, io, che conoscere i nomi dei miei soci o della gente che appartiene al mondo delle banche».
Gheddafi mente, perché è risaputo, testimoniato e persino raccontato dall’Avvocato che il Colonnello e Gianni Agnelli si sono incontrati a Mosca nel dicembre del 1976. Nonostante le idilliache relazioni economiche, un primo assaggio di rospi da ingoiare per mantenere buone relazioni con Tripoli ha luogo il 17 dicembre 1973, quando all’aeroporto romano di Fiumicino un commando palestinese di Settembre Nero attacca un aereo della Pan Am con bombe incendiarie al fosforo, uccidendo trenta persone. Dopo il massacro, i terroristi dirottano un aereo della Lufthansa sul Kuwait e lì scompaiono. Fra l’attacco e il dirottamento, i morti nell’operazione sono trentadue, fra cui sei italiani. Scrive Miguel Gotor, nel libro «Il memoriale della Repubblica»: «La notizia relativa al presunto ruolo svolto dal servizio segreto militare italiano [nell’attentato di Fiumicino, NdR] non ha trovato finora riscontri certi, ma l’allora sottosegretario alla Difesa Pietro Buffone e il generale della guardia di finanza Vittorio Emanuele Borsi hanno testimoniato che la strage, organizzata dai servizi segreti libici, ebbe l’assenso del capo del SID Miceli […] Soltanto nel maggio 1989 la Cassazione confermò in via definitiva la condanna all’ergastolo per Abu Nidal, riconoscendolo come mandante dell’attentato». Abu Nidal è un vecchio sodale del colonnello Gheddafi e lo incontreremo ancora per gli attentati di Roma e Vienna del 1985. Il governo italiano scagiona la Libia, perché non può permettersi di mettere a repentaglio i rapporti con Tripoli per una simile piccolezza (sei italiani uccisi), quindi si fa finta di niente e ancora oggi quella di Fiumicino è chiamata «la strage dimenticata». (…)
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Inserito su www.storiainrete.com il 21 ottobre 2011
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