Salutiamo la recente pubblicazione del dodicesimo volume de “Le lettere di Francesco Guicciardini”, che comprende il denso periodo della luogotenenza pontificia, fra il 1° agosto e il 10 settembre 1526. Questa Edizione critica esce a cura di Pierre Jodogne e Paola Moreno, sotto gli auspici dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, per i tipi delle Edizioni della Normale. Jodogne è un filologo belga che ha curato i primi dieci volumi delle lettere presso l’Istituto Storico per l’Età moderna e contemporanea, dal 1983 fino al 2008. La crisi finanziaria di quell’Istituto causò una lunga battuta d’arresto, e il volume 11 (fino a fine luglio 1526) è stato stampato presso le Edizioni di Storia e Letteratura nel 2018 a cura di Paola Moreno.
La prematura scomparsa della curatrice ha costretto Jodogne a riprendere coraggiosamente in mano l’impresa, di cui si vede ora la sospirata continuazione. Dato il lungo intervallo di tempo intercorso fra i volumi, non è sorprendente che siano intanto emersi nuovi elementi di ricerca. Per parte mia ho proposto molteplici integrazioni al censimento in Francesco Guicciardini fra autobiografia e storiografia. Come avevo ricordato in un blog precedente, tra le lettere sinora non prese in considerazione figurano diverse decine di lettere originali spedite agli Otto di Pratica, l’organo esecutivo del governo fiorentino filo-mediceo (da non confondere con gli Otto di Guardia e di Balia, ai quali lo stesso Guicciardini indirizzò un’importante lettera quando era caduto in disgrazia presso il governo repubblicano, nel 1529).
È il caso della lettera agli Otto di Pratica del 2 agosto (n. 2893), edita unicamente sulla base della minuta. Il luogotenente nella sua densa prosa inserisce un inciso, scrivendo che “il popolo di Milano […] era bactuto et cacciò via tucti e capi”. La frase è sintatticamente sbilenca. E in effetti, sia nella minuta (dove però l’inchiostro sbavato ha indotto l’editore in errore) sia nell’originale spedito, al posto di “cacciò” si legge “cacciati”, un impersonale passivo tipicamente fiorentino (en passant, notiamo anche il refuso “di debbe” = “si debbe”). La lettera è firmata inequivocabilmente da Guicciardini, che include il suo titolo per esteso (cosa rara, ma si stava giustificando per aver scritto raramente agli Otto di Pratica e voleva dare più solennità al suo dispaccio), quindi non c’è questione che l’originale rappresenti “l’ultima volontà” dell’autore, secondo l’aureo principio della filologia.
Non vorremmo che appunti critici come questo fossero interpretati come mere pedanterie. Riconosciamo senz’altro l’indubbio merito di aver pubblicato 136 lettere inedite di vari corrispondenti a Guicciardini. Nel caso della mano nitida del copialettere di Roberto Acciaiuoli, per fortuna, non si riscontrano particolari problemi, mentre in quello della mano nervosa di Filippo de’ Nerli, come ammette l’editore, si tratta di una “lettura particolarmente ostica” che andrà in certi casi verificata sugli originali.
Qui è utile concentrarsi su una delle due lettere di Francesco del Nero a Guicciardini (n. 3016), in cui rileviamo un incidente di lettura. Occorre riportarne l’incipit per comprendere il contesto: “Io non resto di tempestare tutto giorno quelli nostri di Roma et con lettere a Jacopo [Salviati] [Jodogne: fare!], al Boninsegni et a Philippo Strozzi”. L’abbreviazione “Jac.°” viene sciolta per congettura in “fare” per un’evidente svista (se la piattaforma con la digitalizzazione di tutto l’Archivio Guicciardini, prevista presso il Museo Galileo di Firenze, verrà messa on line, ciascuno potrà verificare con i propri occhi).
Fra l’altro Francesco del Nero era cognato di Machiavelli, citato nella lettera e facente parte del “giglio magico” fiorentino. Viene spontaneo paragonare l’edizione nazionale delle Lettere di Machiavelli, a cura di Francesco Bausi, Alessio Decaria, Diletta Gamberini, Andrea Guidi, Alessandro Montevecchi, Carlo Varotti, e del sottoscritto. Essa rappresenta un contrasto così marcato da lasciare a bocca aperta. Per 354 lettere essa consta di circa 2500 pagine, fra testi, regesti, apparati e commenti storici e linguistici, frutto della collaborazione pluriennale di un’équipe interdisciplinare intenta a indagare la fertile interazione di testi e contesti da diversi punti di vista. Qui invece per 266 lettere abbiamo un totale di 517 pagine, prive di qualsiasi commento. La scelta scarna non dipende dagli editori, perché fu impostata e continuata in anni lontani, ma rende la presentazione delle lettere tanto astratta che in certi casi diventa fuorviante. Per questo l’indice dei nomi è l’unico strumento interpretativo che dovrebbe guidare il lettore in una selva di riferimenti e allusioni spesso oscure.
Vediamo alcuni personaggi, indicizzati solo col nome proprio, anche perché ci offrono uno spaccato della rete dei rapporti di Guicciardini. Il “cavaliere Casale” era Gregorio Casali, ambasciatore per conto di Enrico VIII in Italia. Parallelamente, “messer Alberto” era Pio da Carpi, signore spodestato e ambasciatore francese in curia dai tempi di Leone X . Rorario (“persona” nell’indice!) era l’umanista e diplomatico Girolamo. Pier Leandro (de Domo) e Alessandro Del Caccia erano uomini del citato Salviati. Il secondo non era soltanto il tesoriere pontificio (possiamo eliminare il dubbio espresso con un punto interrogativo nell’indice sull’identificazione delle lettere 3020 e 3036), ma l’autore di un’inedita memoria sulla guerra di Milano richiesta e utilizzata da Guicciardini nella Storia d’Italia.
Un interessante caso di omonimia è la confusione fra Paolo Luzasco, condottiero mantovano, e Paolo d’Arezzo, messaggero pontificio, ovvero “Decano de’ Camerieri secreti, et a Sua Santità sommamente caro” (come si legge in un manoscritto della Biblioteca Oliveriana; mi riservo di discutere a parte le carte pesaresi e le lettere al datario Giberti intercettate dall’odiato duca di Urbino). E “messer Achille” è Della Volta, colui che sfregiò Pietro Aretino a Roma nel 1525, pare per ordine del potente Giberti.
Una buona notizia è l’inclusione di Gian Maria Della Porta, finalmente indicizzato con il cognome perché citato per esteso nell’originale: era presente come “Gian Maria” nei volumi precedenti, senza però dare conto del suo ruolo di ambasciatore del duca di Urbino a Roma (e non a Venezia, dove si trovava di passaggio). Tal “dum [noi leggiamo “dom” nell’originale] Ferando” è riportato nell’indice con un rimando “(v. Asburgo”), che è un lemma inesistente (eppure nell’indice pur lacunoso c’è anche “Dio”, come se Guicciardini fosse un teologo e non un politico!). Trattasi evidentemente di Ferrante Gonzaga, capitano imperiale “di prima bussola”, come diceva Paolo Giovio. E “Niccolas” è Nicolas Raince, segretario d’ambasciata francese, amico di Giovio e traduttore in italiano dei Mémoires di Commynes. Pier Francesco da Viterbo, architetto militare, viene confuso con Pier Francesco da Pontremoli, agente francese attivissimo nella diplomazia di quegli anni… et voilà!
Si tratta di addenda et corrigenda – quelli segnalati e gli altri che si potrebbero aggiungere – talora di maggiore rilievo e altre volte minimi. Il testo di commento è disseminato di parole francesi (sont=sono, sur=su etc.), forse per effetto di un autocorrettore dispettoso non rilevato in bozze. Par contre, è frutto di un’accentazione gallicistica un “Cività Vecchia” (p. 330). È auspicabile che in futuro si faccia tesoro di questi suggerimenti, per il “particulare” di Guicciardini come per l’interesse generale degli studi. È appena iniziato un progetto di edizione elettronica delle sue lettere e non possiamo non augurarci che le inevitabili lacune di un’impresa editoriale complessa come questa si avvarranno delle nuove acquisizioni archivistiche e storiografiche qui soltanto accennate, in uno spirito di proficua collaborazione interdisciplinare.