Gli anni Ottanta sono stati bellissimi, coi loro neon fluorescenti, la fioritura musicale pop e alternativa, il cinema e i cartoni animati e la tv commerciale, il benessere che diventava sempre più diffuso. Probabilmente il punto più alto raggiunto dalla nostra civiltà prima del declino. Quanto più qualcosa è brillante, tanto più le ombre che proietta sono nere. E l’ombra nera degli anni Ottanta si chiama “paura della Bomba”. Una paura fottuta, onnipresente, quotidiana negli anni Ottanta.
L’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca e di Margaret Thatcher a Downing Street scatenò i propagandisti della sinistra pacifista, preoccupati più o meno sinceramente che “le destre al potere” avrebbero precipitato il mondo nella guerra nucleare con l’URSS. Sui media di quel decennio, almeno nella sua prima metà, non passava giorno che il Signore mandasse sul mondo che qualche media (dalla TV al cinema, dalla musica alle pubblicità elettorali) non trasmettesse un messaggio angosciante, allarmistico e terrorizzante. Ecco dunque un florilegio delle principali opere prodotte in quel decennio, fra sceneggiati TV, documentari, docudrama e pellicole cinematografiche e lungometraggi d’animazione. Una sequela di visioni da togliere la voglia di vivere.
Il padre di tutti gli incubi atomici: “The War Game”
Il primo di questa serie però non appartiene agli anni Ottanta, ma a oltre un decennio prima. Potremmo definirlo il padre di tutti gli incubi nucleari. E’ il mockumentario (ossia un documentario falso, sulla scia dei finti reportage italiani della serie “Mondo Cane“) “The War Game“.
“The War Game” (Il gioco di guerra) fu girato in Gran Bretagna nel 1965 da Peter Watkins, già acclamato regista di documentari col suo “Culloden”. La pellicola di Watkins si snoda fra scene “in presa diretta”, interviste a gente comune e a scienziati con un tono fra il cinegiornale e il documentario sofisticato, raccontando lo scoppio e le conseguenze di una guerra nucleare totale che colpisce l’Inghilterra. Il feroce realismo delle scene, ricostruite attraverso gli studi militari sui bombardamenti e le tempeste di fuoco della Seconda guerra mondiale a Dresda, Amburgo, Tokyo e ovviamente Hiroshima e Nagasaki, ma anche la crudezza con cui Watkins immagina il dopo-bomba hanno spinto le autorità britanniche a proibire la messa in onda della pellicola sulla BBC, in particolare a causa della scena in cui la polizia inglese (che negli anni Sessanta era ancora disarmata, orgoglio della democrazia britannica) spara sulla folla e giustizia sommariamente alcuni sciacalli (in realtà dei poveracci sopravvissuti) sorpresi a rubare fra le macerie.
“The War Game” fu quindi proiettato in forma privata a politici e giornalisti al Festival di Venezia nel 1966 e lo stesso anno vinse il premio Oscar al miglior documentario. Solo nel 1985, in occasione del 40° anniversario di Hiroshima e Nagasaki, il pubblico inglese poté vederlo sui propri teleschermi. Ed ecco che anche esso rientra nel novero dell’ondata di terrore nucleare degli anni Ottanta…
Una dettagliatissima storia di questo mockumentario e delle reazioni sui media del tempo la trovate su questo blog.
Il film può essere visto integralmente a questo indirizzo di The Internet Archive.
Sempre gli inglesi: “Quod erat demonstrandum”
Nel 1982 i britannici producono un nuovo documentario: “Quod erat demonstrandum. A guide to Armageddon” (Come volevasi dimostrare, una guida all’Armageddon). Ottavo di una serie di documentari scientifici della BBC, questo si concentra sugli effetti di un attacco nucleare su una città inglese. E’ un seguito ideale di un altro documentario della BBC, questo privo di fiction al suo interno, intitolato “If the bomb drops“, del 1980. Il regista di “Guida all’Armageddon”, Mick Jackson, se per un verso crea un’opera meno sofisticata di “The War Game“, si dimostra un vero maestro nel suggestionare lo spettatore.
La scena iniziale, con due ballerini classici ripresi mentre volteggiano in una palestra, fra vetrate e stufe a incandescenza è un capolavoro di montaggio analogico con la voce del narratore che suggerisce come la perfetta ma delicata macchina del corpo umano possa subire traumi d’ogni genere – fratture, ustioni, lacerazioni – a causa degli effetti di un’esplosione nucleare.
Effetti che vengono realisticamente rivelati dagli effetti speciali dei truccatori sui volti degli attori per mostrare come le ustioni o l’avvelenamento da radiazioni possano sfigurare un viso, e – ancora più terribilmente – suggerendo la sorte di una faccia investita dalle schegge di una finestra usando una zucca come bersaglio per un vetro mandato in frantumi e ripreso al rallentatore, alternando con fermi immagine di foto di vecchiette e bambine.
Se possibile, ancora più deprimente è la descrizione dell’efficacia delle istruzioni fornite dalla difesa civile britannica alla popolazione per prepararsi a un raid nucleare contro le città. Dalla costruzione di rifugi antiatomici domestici alle possibilità di sopravvivere in un bunker improvvisato in un cortile, Jackson sembra divertirsi a frustrare ogni illusione, con lo scopo – neppure troppo velato – di togliere ogni speranza di uscire se non vivi, indenni da uno scambio nucleare con l’URSS.
Se il fine di questa propaganda doveva essere creare la consapevolezza nell’opinione pubblica che non esiste difesa in grado di offrire scampo in una guerra atomica, e che quindi l’unica strada è la pace, c’è chi sostiene che queste operazioni pacifiste in realtà fossero ispirate se non direttamente finanziate dall’URSS per minare il morale dei decadenti paesi capitalisti.
1983, arrivano gli americani: “Il giorno dopo”
Questo dubbio sfiorò probabilmente anche il più autorevole degli spettatori, Ronald Reagan, davanti all’opera-simbolo della paura nucleare. “The day after. Il giorno dopo”. Film per la TV del 1983.
Come abbiamo visto in un altro articolo, il 1983 è l’anno in cui si è davvero sfiorata la guerra atomica fra russi e americani. Altro che crisi di Cuba e Orologio dell’Apocalisse… Quello stesso anno qualche Dio mise una mano sulla testa a dei produttori americani della tv ABC suggerendo loro la realizzazione di un film per la televisione sui possibili effetti di un bombardamento atomico su una città statunitense. Il risultato, costato sette milioni di dollari, fu talmente spaventoso che il presidente Ronald Reagan – che si fece dare la videocassetta in anteprima, guardandosela a Camp David durante le vacanze del Columbus Day – ne uscì sconvolto, “profondamente depresso” e tenacemente determinato a evitare al suo paese una sorte abominevole come quella rappresentata.
Il film, che dura oltre due ore, fu diretto da Richard Meyer. Fu trasmesso dalla ABC il 20 novembre 1983, nove giorni dopo la fine dell’esercitazione della NATO denominata “Able Archer 83″, momento in cui il Patto di Varsavia – temendo un vero attacco nucleare occidentale – portò le proprie difese allo stato di allerta massimo (l’equivalente del DEFCON 1 americano) e per la prima e forse unica volta nella storia della guerra fredda delle testate nucleari furono armate per essere pronte all’uso. E poi dici “le coincidenze significative“…
Le vicende rappresentate sono quelle di comuni abitanti del Middle West americano: contadini, borghesi, medici, militari. Le conseguenze delle esplosioni atomiche sono mostrate con crudezza e insistenza, soprattutto ambientando gran parte della pellicola nell’ospedale e nella palestra comunale trasformata in lazzaretto. Il film è senza speranza e deprimente.
Le sue scene si impressero fortemente nell’immaginario collettivo, in particolare quelle dell’esplosione, ottenute con effetti speciali che in parte mostrano tutta la loro rozzezza, oggi, ma che allora fecero scalpore. Il giorno della sua messa in onda la ABC dovette provvedere a fornire ai telespettatori dei centralini per rispondere alle centinaia di chiamate di protesta, chiarimenti e di semplice gente terrorizzata che chiedeva d’essere rassicurata. Nei giorni successivi la tv americana ospitò dibattiti fra cui uno ad altissimo livello, con personalità del calibro di Robert McNamara, Henry Kissinger, William F. Buckley Jr., Brent Scowcroft, Carl Sagan ed Elie Wiesel. Reagan, convinto che la maniera migliore per evitare una guerra nucleare era portare avanti la sua politica di deterrenza e fermezza con l’URSS (e la storia gli avrebbe dato ragione), inviò in tv il suo segretario di Stato, George Shultz, affinché facesse proprio il messaggio d’allarme del film sottraendolo però alla propaganda pacifista pro-disarmo. Il sentimento suscitato dal film non doveva indebolire il fronte interno USA, ma rinforzarlo nella determinazione di evitare simili orrori. Si vis pacem para bellum.
In Italia “Il giorno dopo” arrivò pochi mesi dopo, trasmesso il 16 novembre 1984 da RaiUno con un Film Dossier presentato da Piero Angela e seguito da un dibattito a cui presenziò anche una hibakusha, una sopravvissuta alla bomba su Hiroshima. E’ interessante notare che stranamente la “signorina buonasera” non avvisò i telespettatori che il film era destinato a un “pubblico non impressionabile”, come era d’uso in quegli anni.
La signora Kurokawa, nel racconto della sua esperienza diretta di testimone del bombardamento nucleare del 6 agosto 1945, ha descritto il film della ABC come “all’acqua di rose” rispetto a ciò che ha veduto coi suoi occhi…
1984. “Threads”, la discesa nell’incubo
Si poteva fare qualcosa di più devastante, angosciante e pauroso di “Il giorno dopo”? La risposta è nel docudrama britannico “Threads“. Un recensore americano scrisse che “in confronto a Threads, Il giorno dopo è “Un giorno alle corse“.
“Threads” doveva essere un monito alla politica: non c’è altra strada se non evitare a ogni costo uno scambio nucleare. Lo scopo del film è stato dichiarato dallo sceneggiatore, Barry Hines:
In Italia “Threads” arrivò col titolo di “Ipotesi sopravvivenza” nel 1985. All’origine del progetto c’è “The War Game“, che fu visionato privatamente dal direttore generale della BBC Alasdair Milne. La sua visione gli ispirò la realizzazione di un’opera adattata ai tempi e perfino più pessimistica del mockumentario di Watkins. “Threads” infatti non si limita a mostrare le devastazioni immediate di un attacco nucleare né una società postbellica abbrutita, ma aggiunge un elemento apocalittico-climatico in voga in quegli anni: l’inverno nucleare.
Come struttura, “Threads” realizza una crasi fra “The War Game” e “Il giorno dopo”. Racconta infatti con tono documentario le vicende di alcuni comuni cittadini – una coppia di fidanzati, Ruth e Jimmy, con i loro familiari – e ciò che ruota intorno alla vita di Sheffield. Le scene imperniate su questi personaggi sono intervallate da secche spiegazioni documentarie su ciò che tecnicamente sta avvenendo. Un’escalation fra NATO e Patto di Varsavia porta a uno scambio nucleare totale, con 210 megatoni di bombe fatte scoppiare solo sulle isole britanniche, 3.000 in totale. I bersagli, militari, infrastrutturali e industriali, coinvolgono i civili come “vittime collaterali”, tanto che il film spiega come una frazione della popolazione britannica compresa fra 17 e 30 milioni di persone finisca ucciso solo nelle prime mosse della guerra nucleare.
Ma l’olocausto è solo l’inizio: la distruzione dei legami (“threads“, appunto) sociali, economici, tecnologici, politici, causata dalle devastazioni porta la società inglese a un rapido abbrutimento. I tentativi di ricostruzione vengono frustrati dalle condizioni ambientali, dalla miseria e dalla mancanza di carburanti, mezzi, pezzi di ricambio, medicinali, specialisti… L’inverno nucleare devasta i raccolti e la fame e le epidemie fanno il resto. La Gran Bretagna dopo aver reagito con brutalità (pena di morte, ritorno al baratto, lavoro coatto) alle distruzioni, comincia semplicemente a trascinarsi nell’apatia. La sua popolazione cala ai livelli del medioevo, mentre la fine dell’inverno nucleare non fa che peggiorare la situazione, perché la distruzione dell’ozono atmosferico causato dalle bombe H espone la superficie agli ultravioletti provocando cancro, cataratta e altri problemi ai sopravvissuti. Le ultime scene del film sono dedicate alla vita miserabile della figlia di Ruth, Jane, fortunosamente venuta al mondo dopo i bombardamenti e cresciuta nell’ignoranza, nella povertà e nell’abbrutimento, tanto da non riuscire nemmeno a parlare un inglese decente. La ragazzina sopravvive fra le macerie con una banda di coetanei tornati a uno stato semi-selvaggio, dopo che Ruth muore di stenti davanti ai suoi occhi apatici. In quelle condizioni Jane viene violentata, resta incinta e nella scena conclusiva del film partorisce in un tetro e lurido ospedale. Quando un’indifferente infermiera le porge il sudicio involto con dentro il bambino e la ragazza lo apre, la cinepresa ferma la ripresa sul suo volto un istante prima che Jane urli d’orrore alla vista del figlio. Titoli di coda.
“Threads” fu realizzato con un budget notevolmente inferiore a “Il giorno dopo”, tuttavia per molti aspetti risultò non meno terrificante nelle scene salienti dell’esplosione, e probabilmente lo fu molto di più nella mostra degli effetti successivi. Pare che il cordone ombelicale di Jane che Ruth taglia coi denti fosse un laccio di liquirizia, mentre le ferite e le ustioni vennero realizzati con ketchup e fiocchi di cereali…
Il film è disponibile in integrale su Internet Archive, ma solo in inglese. A differenza della “signorina buonasera” della RAI, io invece vi avviso. Non è una pellicola per persone impressionabili e io stesso non sono riuscito a vederlo tutto insieme ma solo a pezzi e bocconi.
1986 – Parentesi di fantascienza: “Ai confini della realtà”
Il 26 aprile 1986 a Chernobyl, nell’Ucraina sovietica, un reattore atomico esplode provocando il peggiore incidente nucleare riportato dalle cronache. E’ l’inizio di una primavera fatta di verdure in scatola, scarpe lasciate sullo zerbino per non portare la polvere radioattiva in casa e gite scolastiche saltate per paura della ricaduta.
Quattro giorni prima – quando si dice “portare sfiga” – su Italia1 venne trasmessa la prima puntata di una nuova stagione – un reboot – de “Ai confini della realtà”, la fortunatissima serie di fantascienza, fantastico e grottesco ideata nel 1959 da Rod Serling.
Composta da due cortometraggi per puntata, nel primo episodio viene lanciato un giovane Bruce Willis alle prese con un suo Doppelgänger. Il secondo invece è in tema con quanto stiamo discutendo.
Intitolato “Un po’ di pace”, parla di Penny, una frustrata casalinga statunitense – borghese, disimpegnata, forse cripto-repubblicana o astensionista alle urne – che trova in giardino un misterioso ciondolo che le dona il potere di congelare il tempo a sua volontà. Con un grido la donna può bloccare tutto in un fermo immagine, mentre lei continua a restare vigile. A comando, poi, tutto torna a muoversi, le persone a vivere, la radio a blaterare, il suo pestifero cagnetto ad abbaiare, come nulla fosse.
Per contrappasso al suo disimpegno politico, la donna si trova a vivere nella più spaventosa delle circostanze che un uomo medio in occidente nella prima metà degli anni Ottanta potesse immaginare: la trasmissione televisiva dell’Emergency Broadcast System che annuncia lo scoppio della guerra nucleare.
Penny farà allora uso del suo misterioso potere, congelando il tempo un istante prima che una testata nucleare sovietica si abbatta sulla sua città.
Nonostante gli effetti speciali pedestri (gli attori che fanno finta di essere paralizzati ma non ci riescono molto bene…) questa storia riesce comunque a raccontare il vero terrore nero che attanagliava la popolazione del Primo Mondo negli anni Ottanta. L’incubo di vedere le trasmissioni improvvisamente interrotte dal suono stridente del messaggio d’emergenza che annunciava la fine del mondo. [Nota personale: quando il 22 aprile 1986 vidi in tv questo episodio, restai letteralmente paralizzato dal terrore. Per la prima e unica volta in vita mia non riuscii a muovere le gambe dalla paura finché i miei genitori non mi scossero. Avevo nove anni].
1986. Poesia nucleare. “Quando soffia il vento” e “Lettere di un uomo morto”
Dopo l’orgia di realismo atroce e grandguignolesco dei primi anni Ottanta, le produzioni della seconda metà del decennio presero un’altra direzione, più lirica.
In Gran Bretagna fu prodotto un lungometraggio animato basato su uno struggente fumetto di Raymond Briggs uscito nel 1982. La vicenda riguarda una coppia di anziani coniugi nella campagna inglese, i Bloggs, che passivi, ingenui e fiduciosi nelle istruzioni della Difesa Civile britannica, assistono al peggiorare della condizione internazionale e allo scoppio della guerra fra i due blocchi. Tentano di creare il loro rifugio domestico ed effettivamente sopravvivono all’esplosione di una testata nucleare. Tuttavia, lentamente, si spengono per le radiazioni nei giorni successivi, senza mai perdere la speranza che possano arrivare gli aiuti promessi dal governo.
La colonna sonora del film fu affidata a mostri sacri del rock britannico quali David Bowie, Roger Waters, Genesis, Squeeze e Paul Hardcastle. Chi meglio di Waters, del resto, che aveva firmato nel 1983 l’ultima canzone dei Pink Floyd ancora tutti insieme, “Two suns in the sunset” (Due soli al tramonto), deprimente e pessimistico brano di chiusura di “The final cut“.
Il brano omonimo della colonna sonora, affidato a David Bowie, fu anche accompagnato da un videoclip con scene del cartone, utilizzate in parte in Italia quando il film uscì nelle sale, nel marzo 1987, per le pubblicità dell’Anicagis.
Non arrivò invece mai nel nostro paese quello che è considerato “la risposta sovietica a Il giorno dopo“, il devastante “Lettere di un uomo morto” (“Письма мёртвого человека”, 1986). Il film segnò il debutto alla regia di Konstantin Lopushansky, che ne scrisse la sceneggiatura insieme Vyacheslav Rybakov e Boris Strugatsky. Il film era stato concepito tre anni prima ma aveva dovuto subire ritardi a causa della censura sovietica.
“Lettere di un uomo morto” parla di uno scienziato, il professor Larsen, che vive nel bunker sotterraneo di un museo dopo un olocausto nucleare, tormentato dalla sorte del figlio, Eric, da cui è stato separato e al quale scrive continuamente lettere. In un’umanità sfilacciata e depressa, Larsen si dibatte fra ricerche molto pratiche (medicine per la moglie malata) e filosofiche sulla possibilità di un futuro per l’umanità al di fuori dei rifugi antiatomici (possibilità più spirituale che materiale). Nel frattempo i sopravvissuti si preparano a rifugiarsi in un bunker centrale del governo, dove cercare di sopravvivere, forse per sempre, sotto terra. Alla fine del film, Larsen, rimasto vedovo, decide di occuparsi degli orfani, ai quali è stata negata la possibilità di entrare nel bunker centrale, per dar loro la speranza di trovare una possibilità di vita nel deserto nucleare al di fuori dei rifugi.
La scena in cui Larsen entra nell’ospedale del rifugio dell’orfanotrofio è probabilmente una delle più spaventose e allucinanti della storia del cinema.
In una delle sue lettere a Eric, Larsen racconta una storia su come sarebbe scoppiata la guerra nucleare: un errore in un computer aveva provocato il lancio dei missili atomici, ma l’operatore che avrebbe potuto bloccare le macchine non sarebbe stato in grado di interrompere il conto alla rovescia in tempo perché rallentato da una tazza di caffè nelle sue mani. L’uomo si sarebbe poi impiccato per il rimorso. Tout se tient. Ringraziamo l’Onnipotente che il tenente colonnello Stanislav Yevgrafovich Petrov non aveva tazze di caffè in mano, quel 26 settembre 1983 al centro di sorveglianza della città militare di Serpukhov-15.
Girato con una fotografia gialla e allucinata e in bianco e nero, “Lettere di un uomo morto” non ha il taglio documentaristico dei film inglesi e americani che abbiamo visto finora: è onirico, opprimente, poetico (si pensi alla scena in cui Larsen in tuta NBC cerca di salvare dei libri in una biblioteca devastata mentre una isterica risata campionata risuona nella colonna sonora).
Il film si interroga sul cupio dissolvi di un’umanità che sembra aspirare alla sua morte grazie alle infinite possibilità che la tecnologia le ha offerto. La conclusione della pellicola, coi bambini in maschera antigas che si trascinano in un gelido deserto radioattivo, del tutto aperta, si affida alle parole di Einstein e Russel: “Davanti a noi si trova il sentiero del progresso continuo, della felicità, della conoscenza e della saggezza. Sceglieremo invece la morte solo perché non possiamo dimenticare le nostre lotte? Parliamo da persone a persone: ricordati che appartieni al genere umano”.
“Lettere di un uomo morto”, che non è stato mai doppiato in italiano, è visibile in più versioni su Youtube. Questa che segue è restaurata e in alta qualità. Anche qui va opportunamente sottolineato che la visione è solo per un pubblico di persone non impressionabili.
Epilogo personale. La fine dell’angoscia. Per ora…
L’8 dicembre 1987 Ronald Reagan e Michail Gorbaciov siglarono il Trattato INF col quale sostanzialmente si poneva fine alla Guerra Fredda. Con questo accordo venivano smantellati i missili a raggio intermedio, principale pietra dello scandalo nei primi anni Ottanta (i famigerati “euromissili” del dibattito italiano: qualcuno forse ricorda quello spot elettorale del 1983 o 1984 di non so quale partito, in cui due uomini in equilibrio agli estremi di un asse sospeso sulla cima di una montagna si puntano la pistola. Uno dei due spara, uccide l’altro che cade, ma così facendo squilibra l’asse e precipita anche lo sparatore…).
Il ricordo personale di un ragazzino di 10 anni è collegato alla scena vista in televisione dei due presidenti che firmavano il trattato. Ricordo ancora perfettamente quella visione, sul televisore di casa di mia nonna.
Quella sera, per la prima volta, riuscii a dormire senza dover tenere la testa sotto al cuscino per la paura della bomba atomica, cosa che puntualmente facevo ogni volta che sentivo il rumore di un aeroplano che passava sopra casa.
D’altronde, tutti gli anni Ottanta sono stati segnati dalla paura che arrivassero gli aeroplani. Quindi era meglio essere preparati…