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La Locanda di Granito

DEFCON 1 – Novembre 1983, quando (veramente) sfiorammo l’apocalisse

Altro che le chiacchiere di Joe Biden. Il vero punto più basso dell’equilibrio nucleare fra Mosca e Washington è stato toccato nel 1983, quando un’esercitazione NATO fu interpretata dai sovietici come un piano-civetta per mascherare un proditorio attacco nucleare contro il blocco comunista. Per 10 giorni nel novembre 1983, mentre gli occidentali simulavano una situazione di massima allerta, il temuto DEFCON 1, il Patto di Varsavia aveva veramente ordinato di togliere le sicure alle testate atomiche. Tutto questo avveniva poco dopo che un ufficiale sovietico aveva riconosciuto un falso allarme che poteva scatenare l’olocausto e mentre la TV americana trasmetteva un agghiacciante film destinato a cambiare la storia: «The day after. Il giorno dopo»

da “Storia in Rete” n. 96, novembre 2013

Le trasmissioni si interrompono. Un suono sinistro simile a un fischio esce da radio e televisori e sugli schermi compare una schermata con una comunicazione registrata che si ripete ossessivamente: il governo ha proclamato l’emergenza nazionale. È l’annuncio che è scoppiata la guerra atomica. Uno dei momenti più temuti nella storia dell’umanità. «Ma sono impazziti? Li hanno lanciati sul serio, hanno premuto i bottoni?» urla disperato uno dei protagonisti del film per la TV «Il giorno dopo», trasmesso il 20 novembre 1983 dalla ABC americana e seguito da oltre cento milioni di spettatori. Nessuno poteva immaginare che l’apocalisse atomica ricostruita sul set era stata sfiorata realmente solo dieci giorni prima. In realtà almeno un telespettatore informato su quanto vicini si fosse giunti allo scambio nucleare totale fra URSS e USA c’era, ed era l’allora presidente americano Ronald Reagan. L’uomo che aveva lanciato la sfida finale ai sovietici definendoli «l’impero del Male» aveva visto il film in anteprima il 10 ottobre precedente a Camp David. Sul suo diario scrisse: «è di grande impatto e mi ha lasciato molto depresso […] la mia reazione è che dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per non vedere mai una guerra nucleare». Quando un mese dopo le sue Forze Armate tireranno la corda con i sovietici al punto da rischiare lo scontro sul serio, Reagan, già impressionato dalla ricostruzione del film, rimase talmente shockato da decidere di dare una svolta nella Guerra Fredda.

I mesi di settembre, ottobre e novembre 1983 rappresentano, forse più del primo test termonucleare sovietico (1953) – considerato dagli scienziati del «Bulletin of the Atomic Scientists» l’inizio della fase più critica della Guerra Fredda – e poi della crisi di Cuba (1962), il vero filo del rasoio del confronto globale fra sovietici e americani. La corsa agli armamenti, le tensioni internazionali, la reciproca diffidenza concorsero a spingere le due potenze a un soffio dall’ordinare un lancio preventivo contro l’altra, il famigerato «first strike». Nelle rozze strategie consentite durante l’era nucleare il «first strike» era l’unica (chimerica) speranza di infliggere al nemico più danni di quanti egli avrebbe potuto causare a sua volta scatenando l’attacco di rappresaglia. Un bilancio comunque fallimentare, visto e considerato che nessuno poteva sperare di assestare col primo attacco a sorpresa un colpo di tale efficacia da ridurre il potenziale di rappresaglia nemico al di sotto della soglia di distruzione totale. Insomma, per quanto duro, rapido e sorprendente fosse potuto essere un «first strike», il nemico avrebbe fatto pagare all’aggressore un prezzo comunque inaccettabile con l’immancabile «second strike». Questa situazione di stallo fu la vera assicurazione sulla vita dell’intero pianeta dal 1953 al 1989: nessuno poteva seriamente presumere di lanciare con successo un attacco preventivo all’altro. Era «l’equilibrio del terrore». Ma la guerra di nervi faceva tremare i polsi: e se invece dall’altra parte della Cortina di Ferro ci fosse stato qualcuno talmente pazzo da ignorare che non vi sarebbero potuti esserci  vincitori e avesse premuto il «pulsante rosso»? Un’eventualità tanto più temibile in quanto esisteva il rischio teorico che una delle due superpotenze potesse sviluppare un qualche sistema di difesa in grado di ridurre il potenziale controffensivo dell’altra in misura tale da riuscire a salvare abbastanza potenza bellica, impianti industriali e popolazione civile da potersi dichiarare, dopo lo scambio di bombe, «vincitore» sulle macerie. Questa possibilità levava il sonno la notte a milioni di persone dalle due parti della Cortina di Ferro e soprattutto ai governi russo e americano. Con le dita tremanti sui grilletti, insomma, URSS e USA si guardavano in cagnesco come i duellanti di un film western. L’autunno del 1983 fu il momento in cui le molle di quei grilletti scricchiolarono più sinistramente.

L’orologio dell’Apocalisse, simbolo del Bollettino degli scienziati nucleari. La mezzanotte rappresenta la guerra atomica e i minuti che mancano a mezzanotte il rischio percepito da questi esperti. Naturalmente si tratta più di una trovata propagandistica che non una reale rappresentazione del rischio atomico (più di recente il Bullettin of the Atomic Scientist ha aggiunto perfino il… rischio climatico!) tant’è che nel 1983, unico caso in cui furono armate le testate nucleari, l’orologio restò immobile a 4 minuti dalla mezzanotte (orario del 1981, anno dell’entrata di Reagan alla Casa Bianca) e l’anno successivo – a pericolo sventato! – venne portato a 3 minuti. Storicamente, tolte le boutade degli ultimi anni, il punto di maggior avvicinamento alla mezzanotte fu il 1953, con la comparsa delle prime superbombe termonucleari. Durante la crisi di Cuba del 1962 le lancette rimasero a 7 minuti dalla mezzanotte…

Il 2 novembre di quell’anno il comando supremo della NATO di Casteau (Belgio) diede inizio a una massiccia esercitazione chiamata in codice Able Archer 83. Le manovre, senza precedenti, coinvolsero un gran numero di unità militari C3 (Comando-Controllo-Comunicazioni) e perfino autorità politiche del calibro del primo ministro britannico Margaret Thatcher, del cancelliere della Germania ovest Helmut Kohl e del segretario alla Difesa americano, anche se non era previsto l’impiego di truppe. L’esercitazione prevedeva di simulare una rapida escalation con la necessità di ordinare e reagire ad attacchi nucleari. Le truppe coinvolte avrebbero dovuto sperimentare tutti i livelli di allerta fino al più alto – Defcon 1 – quello in cui ci si aspetta un attacco atomico nemico entro le 36 ore. Con l’occasione si sarebbero testati anche nuovi sistemi di comunicazione cifrata fra i comandi. Dall’altra parte della Cortina di Ferro i sovietici assistettero a questa imponente manovra con terrore. Fin dai primi dell’anno infatti era montata l’agghiacciante convinzione che le potenze capitaliste stessero meditando un «first strike». Le informazioni sul dispiegamento dei nuovi missili Cruise in Italia, Gran Bretagna e Germania Ovest e soprattutto dei Pershing II in Germania Ovest (che in realtà sarebbe iniziata alla fine di novembre) avevano preoccupato il Cremlino, che temeva queste nuove armi soprattutto per la loro possibilità di entrare in funzione con un preallarme di pochi minuti. In più i Pershing II potevano colpire il bersaglio con una grande precisione: il margine di errore era dell’ordine di qualche decina di metri al contrario dei grossi missili balistici a propulsione liquida (ICBM), che necessitavano invece di ore di preparazione e avevano un raggio di imprecisione più ampio. Un cablogramma del KGB datato febbraio 1983 ammetteva che se in caso di attacco nucleare con gli ICBM i tempi di reazione sovietica sarebbero stati di soli 20 minuti, una salva di Pershing II dall’Europa centrale avrebbe lasciato appena quattro-sei minuti di tempo ai comandi sovietici per decidere come reagire. I cosiddetti «euromissili» avevano portato la paranoia sovietica di un attacco capitalista a livelli di vera e propria nevrastenia.

La guerra dei nervi era stata iniziata nel 1981 proprio dagli americani: fin da febbraio, appena un mese dopo l’insediamento di Reagan alla Casa Bianca, navi-spia e bombardieri furono massicciamente spediti nei pressi delle basi sovietiche per saggiare le capacità di reazione dei radar nemici. Una mossa interpretata da Mosca come una minaccia diretta. Al Cremlino si iniziò a temere sempre più che i falsi allarmi fossero un sistema per celare un imminente attacco a sorpresa. La prima reazione fu muscolare: a settembre il Patto di Varsavia varò un’esercitazione (Ovest 81) così massiccia da rappresentare il più grosso dispiegamento di forze convenzionali dai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma l’aggressività serviva a nascondere la paura. Fin dal maggio del 1981 l’allora a capo del KGB, Yuri Andropov aveva ordinato ai suoi agenti di disporre una rete di spionaggio in grado di cogliere ogni minimo indizio sul temuto «first strike» americano, che sembrava sempre più imminente. Il programma sovietico di spionaggio difensivo, chiamato in codice RYaN (Raketno-Yadernoe Napadenie, attacco con missili nucleari), giunse nel 1983 al suo acme, passando il 17 febbraio allo stato di massima allerta e mobilitando tutte le sedi diplomatiche per scovare il minimo segnale di un’aggressione americana incombente. I sovietici erano già sufficientemente spaventati dalla rinnovata aggressività di Washington che arrivava come una doccia gelata dopo il decennio di figuracce accumulate da Johnson, Nixon, Carter e Ford. Al contrario dei suoi predecessori, Reagan era un presidente energico e un irriducibile anticomunista. I falchi di CIA e delle Forze Armate americane approfittarono della sua determinazione (e inesperienza di cose militari…) per dare più d’un giro di vite al confronto con Mosca. Andropov, divenuto segretario generale del PCUS nel novembre 1982, aveva paragonato Reagan a Hitler e si aspettava un attacco a sorpresa esattamente come nel 1941. La sindrome di una seconda «operazione Barbarossa», stavolta nucleare, era largamente diffusa fra i vertici comunisti. Inoltre, un rapporto della CIA recentemente declassificato («A Cold War conundrum. The 1983 Soviet war scare» di Ben B. Fisher, 1997) mostra come il KGB avesse fin dal 1981 segnalato un pericolo di sconfitta politica per l’URSS: dall’Afganistan all’Angola al Nicaragua i sovietici erano sulla difensiva e anche il bastione di Cuba iniziava a scricchiolare. Il costo del confronto militare con gli americani cominciava a pesare troppo per le casse sovietiche e il gap tecnologico fra Est e Ovest si stava paurosamente allargando, in particolare nel campo dei computer.

Questo articolo è stato pubblicato su Storia in Rete n. 96, nel novembre 2013

Il 1983 fu l’annus horribilis della Guerra Fredda. L’8 marzo Reagan aveva pronunciato il famoso discorso in cui definiva l’URSS come «impero del Male». Il 23 marzo aveva proclamato l’inizio del programma «Iniziativa di Difesa Strategica» (SDI) le cosiddette «guerre stellari». L’annuncio di Reagan gelò la spina dorsale dei sovietici. Sebbene si trattasse più di millanteria che di realtà, il programma per lo «scudo spaziale» avviato dall’amministrazione Reagan era esattamente l’incarnazione dell’incubo di ogni stratega dell’era atomica: un sistema ABM (Anti Balistic Missile) in grado di fermare gran parte dei missili nucleari e rendere quindi molto meno efficiente ogni forma di rappresaglia in caso di guerra, rompendo così l’equilibrio del terrore. Andropov, con i nervi a fior di pelle, in un articolo sulla «Pravda» del 27 marzo accusò apertamente Reagan di star pianificando un «first strike» contro il mondo comunista con la speranza di vincere una guerra atomica. Ben Fisher ha scritto che Antropov «violò un tabù: quello di citare la potenza di attacco nucleare americana sui media» e che per la prima volta dal 1953 un leader sovietico aveva pubblicamente ammesso che la nazione era sull’orlo di un olocausto atomico. Un rapporto recentemente desecretato dalla National Security Agency mostra un Andropov profondamente depresso, che confessa all’ormai anziano Averell Harriman (già ambasciatore di Roosevelt presso Stalin durante la Seconda guerra mondiale) in visita a Mosca, che la politica reaganiana stava spingendo il mondo verso la guerra nucleare. Pochi giorni prima infatti, una massiccia esercitazione aeronavale americana aveva radunato nel Pacifico settentrionale oltre 40 navi da guerra con il chiaro scopo di innervosire i sovietici. Il 4 aprile sei aerei americani sorvolarono le isole Curili sovietiche, facendo infuriare Mosca che ordinò come ritorsione una violazione dello spazio aereo statunitense delle Aleutine. Questo clima rovente fu la causa principale della tragedia del 1° settembre 1983: nella stessa regione un caccia russo abbatté il volo civile sudcoreano KAL-007 provocando la morte di 296 passeggeri fra cui un deputato americano. Il Boeing 747, partito dall’Alaska in direzione di Seul, aveva violato lo spazio aereo sovietico ed era stato erroneamente scambiato per un aereo militare. Il gravissimo incidente tenne il mondo col fiato sospeso. Mosca e Washington si scambiarono pubblicamente reciproche accuse infamanti: Antropov parlò di «avventurismo» e «criminale sabotaggio» denunciando che il volo era stato deliberatamente fatto passare nello spazio aereo sovietico per provocare l’incidente. Poche settimane dopo, a ottobre, Reagan ordinò ai marines di invadere l’isola caraibica di Grenada, dove si rischiava una deriva filo-castrista. Era la prima vittoria che gli americani ottenevano dopo l’interminabile serie di debacle del decennio precedente. Ma fu pagata con un raffreddamento delle relazioni con tutti gli alleati occidentali e in particolar modo con la Gran Bretagna, poiché l’isola era un’ex possedimento coloniale britannico membro del Commonwealth. Per giorni Londra e Washington si scambiarono frenetici messaggi cifrati, utilizzando un codice sconosciuto alle spie sovietiche. Fin dal febbraio di quell’anno Mosca era giunta alla conclusione che il temuto RYaN sarebbe stato preceduto da un serrato scambio di messaggi criptati fra le potenze capitaliste. La corrispondenza segreta fra Reagan e la Thatcher su Grenada – tutt’altro che amichevole – fu dunque una malaugurata coincidenza che gettò ulteriore benzina sul fuoco.

Gli ingredienti per l’incidente nucleare insomma c’erano tutti. E a questi se n’era aggiunto uno, forse il più grave di tutti, rimasto segreto fino al 1990: alle ore 00:40 del 26 settembre 1983 il centro di sorveglianza sovietico della città militare di Serpukhov-15, non lontano da Mosca, ricevette dai satelliti la comunicazione di un lancio di un missile balistico contro l’URSS. Il comandante della postazione, tenente colonnello Stanislav Yevgrafovich Petrov rimase impietrito: «la sirena ululò e io stavo seduto proprio là, con lo sguardo fisso su quella schermata rossa lampeggiante che diceva «lancio»», ha dichiarato in un’intervista rilasciata nel trentesimo anniversario dell’incidente alla BBC, lo scorso 26 settembre. Petrov era parte di una squadra addestratissima e non perse il sangue freddo: doveva trattarsi di un errore, un attacco nucleare non parte con un missile solitario ma avrebbe visto un lancio massiccio di tutte le armi disponibili… Un minuto dopo però altri quattro segnali comparvero. Il computer della base passò dall’allerta di «lancio» a quello di «incursione missilistica». «Non c’era una regola fissa su quanto tempo avessimo per pensare a cosa fare. Però sapevamo che ogni secondo di indugio avrebbe tolto tempo prezioso e che i vertici politici e militari dell’Unione Sovietica avevano bisogno di essere informati senza ritardi». Petrov temeva che se avesse dato l’allarme i suoi comandi potevano farsi prendere dal panico e ordinare un lancio di rappresaglia contro l’America. D’altro canto era consapevole che se il suo giudizio fosse stato errato avrebbe lasciato il suo paese inerme di fronte a un’aggressione feroce e mortale. Petrov si rivolse agli operatori radar per un secondo parere. I suoi uomini non registravano alcun segnale sugli schermi. E se si fosse trattato di un errore del computer? D’altronde il protocollo parlava chiaro: le decisioni andavano prese sulla base delle informazioni provenienti dalla macchina, non dagli uomini.

Stanislav Petrov (dal suo archivio personale)

Più i minuti passavano e più il rischio aumentava: i satelliti dicevano una cosa, lo schermo del suo radar non dava invece segni di allerta. Cosa avrebbero fatto i suoi comandanti con così poco tempo per decidere e così poche informazioni su cui basarsi? Avrebbero ordinato il contrattacco? Sarebbe stata la fine del mondo. Petrov aveva avuto un passato da civile e decise di fare di testa sua. Anziché avvertire meccanicamente i superiori gerarchici (mollando così la patata bollente nelle loro mani) fece una scelta di responsabilità: decise che l’intercettazione era un «falso positivo» e telefonò al suo comando denunciando un guasto. Se si fosse sbagliato, i lampi delle esplosioni nucleari avrebbero incendiato i cieli del suo paese entro pochi minuti. Non accadde invece nulla. Aveva fatto la cosa giusta. «Ventitre minuti dopo realizzai che non era successo davvero niente. Fu un tale sollievo…».

Poco tempo dopo fu dimostrato che il falso allarme era stato determinato da nubi ad alta quota che interferivano con i segnali dai satelliti e l’errore fu corretto modificando le orbite. Petrov fu anche elogiato privatamente dal generale Yury Votintsev, comandante della difesa aerea, ma non ricevette né promozioni né premi poiché avrebbe significato dover ammettere pubblicamente una falla nel sistema di difesa antimissile sovietico. Anche Petrov stesso mantenne per oltre un decennio il silenzio, per carità di patria. Poco tempo dopo tuttavia fu trasferito ad altri incarichi meno stressanti e andò in prepensionamento per esaurimento nervoso (anche se i media occidentali hanno malignato su «pressioni» dall’alto). Di sicuro la tensione di quel 26 settembre doveva averlo scosso, tanto che omise di registrare l’evento sul diario del reparto, e per questo fu anche redarguito! Nell’intervista alla BBC, Petrov ha dichiarato di non esser stato mai davvero sicuro che l’allarme fosse stato un falso positivo. La sua decisione fu un vero gioco d’azzardo, e la sua opinione è che se al posto suo ci fosse stato un militare di carriera addestrato non a pensare ma a obbedire, anziché un civile mobilitato come lui, le cose sarebbero andate diversamente.

Il 2 novembre iniziarono le esercitazioni NATO. Sarebbero state la conclusione di un lungo ciclo di manovre iniziato a febbraio che aveva visto decine di migliaia di soldati dell’Alleanza muoversi fra USA e teatro europeo. Della reazione sovietica si sa poco: molti documenti sono ancora secretati e la maggior parte dei funzionari dell’epoca ha rifiutato di parlarne. Le informazioni provengono soprattutto dall’ex agente Oleg Gordievsky, un doppiogiochista che forniva informazioni di primo livello a Londra. Lui, come la maggior parte degli agenti sovietici, era scettico sulla possibilità di un reale attacco. Ma il loro compito, allora, era di fornire informazioni a Mosca e non quello tirare le conclusioni. Così la pletora di rapporti che giungevano ai comandi sovietici alimentò il terrore dell’imminenza di un attacco dietro la copertura dell’esercitazione. Da ciò che si è riuscito a ricostruire, mentre la NATO simulava il passaggio da DEFCON 4 (allarme verde: lo stato di allerta normale durante la Guerra Fredda) a DEFCON 1 (allarme bianco: attacco nucleare imminente) le forze del Patto di Varsavia in Germania Est e Polonia furono portate a livello 1 della scala Stepeni Boevoy Gotovnosti (Livello di Preparazione al Combattimento). Fu mobilitata una dozzina di cacciabombardieri nucleari e tolte le sicure alle armi atomiche. Secondo Gordievsky l’8 o il 9 novembre fu diramato un cablo segretissimo alle cellule del KGB in tutto il mondo perché facessero l’impossibile per verificare se il cambio di DEFCON delle forze americane (interpretato come reale e non simulato) fosse collegato a un recente attentato a Beirut contro una caserma americana (23 ottobre, 241 morti) oppure alla reale preparazione di un attacco di sorpresa. L’11 novembre, finalmente, l’incubo terminò insieme all’esercitazione NATO. La guerra non era scoppiata. Le sicure vennero rimesse alle armi e i livelli di allerta abbassati. Cosa sia realmente accaduto al Cremlino in quei giorni è tutt’ora oggetto di speculazione. Pochissimi documenti sono stati rivelati e le dichiarazioni del doppiogiochista Gordievsky non hanno trovato molte conferme da parte di altri testimoni.

In ogni caso, quando le informazioni provenienti da Gordievsky raggiunsero Reagan, il presidente ne fu profondamente turbato. Nella sua visione del mondo, ancora molto ingenua, Reagan fu sorpreso che i sovietici pensassero davvero che l’America volesse attaccarli. Per lui, era il Comunismo la minaccia, non il blocco occidentale. Proprio nei giorni precedenti l’esercitazione, il presidente Usa aveva partecipato a una riunione su Able Archer 83, riluttante come al solito. Reagan non amava le questioni militari e le demandava volentieri ai suoi collaboratori. Entrare in profondità nella simulazione di una guerra atomica lo sconvolse: «ne trasse una repulsione davvero profonda all’intera idea delle armi atomiche» scrisse il segretario alla Difesa Caspar Weinberger. Reagan, reduce dalla deprimente visione de «Il giorno dopo», descrisse la riunione nel suo diario con un sarcasmo amaro: «Un’esperienza davvero tranquillizzante […] il briefing sui nostri piani generali in caso di attacco nucleare» e quindi nelle sue memorie («An American life», 1990) aggiunse una riflessione: «In molti punti la sequenza degli eventi descritti nel briefing ricalca quelli del film della ABC. E ci sono ancora persone al Pentagono che vanno in giro a dire che una guerra nucleare può essere vinta. Io penso che siano pazzi». Pochi giorni dopo Able Archer 83, Reagan incontrò il direttore della CIA William Casey di ritorno da Londra, che lo informò delle rivelazioni di Gordievsky. Proprio in quei giorni l’America aveva iniziato a dispiegare i missili Cruise in Gran Bretagna. Reagan domandò al suo consigliere Robert McFarlane come fosse possibile che i sovietici davvero pensassero possibile che l’America volesse aggredirli. «Non so come possano crederlo – gli rispose McFarlane – ma è qualcosa che fa pensare». La mente di Reagan iniziò a correre al biblico Armageddon, la battaglia finale fra bene e male. E al fatto che veramente era possibile che uno scenario apocalittico potesse verificarsi per un banale errore o un’incomprensione. Più tardi Reagan scrisse d’essere rimasto sorpreso dall’apprendere che «così tanti sovietici ci temono non solo come avversari ma come potenziali aggressori in procinto di scaricargli addosso bombe atomiche in un «first strike»». Sconvolgendo così profondamente il presidente americano, la Guerra Fredda era giunta a una svolta: «Ero diventato sempre più ansioso di chiudermi da solo con il capo sovietico in una stanza e cercare di convincerlo che noi non avevamo piani contro l’Unione Sovietica e che i russi non avevano nulla da temere da noi» scrisse Reagan.

Il 16 gennaio 1984 fu reso noto un discorso di Reagan rivolto al segretario generale del PCUS Andropov. Era il risultato di settimane di lavoro dei collaboratori di Reagan, Richard Burt e George Schultz, dopo che la crisi degli euromissili iniziata subito dopo Able Archer 83 aveva spinto Mosca ad abbandonare il tavolo delle trattative per il controllo degli armamenti. Reagan, consigliato in quel senso anche da Margaret Thatcher, si era oramai convinto che il confronto con l’URSS non poteva essere più solo muscolare. Per la prima volta aveva visto dall’altra parte della Cortina di Ferro degli esseri umani come lui, con le sue stesse paure, e aveva provato empatia nei loro confronti. In una intervista del 1988 ebbe a dichiarare che non avrebbe più usato il termine «impero del Male» per definire i sovietici. «Erano altri tempi, un’altra era». Nel discorso del 16 gennaio Reagan aveva dichiarato che «il 1984 è un anno di opportunità per la pace» e che i rapporti con l’URSS sarebbero stati improntati sui valori di «realismo, forza e dialogo», citando per la prima volta nel suo mandato la parola «compromesso» come obbiettivo da perseguire assieme ai sovietici. La strada sarebbe stata lunga, ma la paura della guerra atomica sfiorata nell’autunno 1983 aveva davvero fatto novanta.

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