HomeRisorgimentoSegreti di Stato: I «Mille» misteri di Ippolito Nievo

Segreti di Stato: I «Mille» misteri di Ippolito Nievo

Il giovane e celebre scrittore partecipò all’impresa di Garibaldi nel 1860 rivestendo un incarico importantissimo: era il numero due dell’Intendenza. Insomma, era «l’uomo dei soldi»: da gestire, da spendere, da proteggere… Ben presto la stampa iniziò ad avanzare dubbi sulla provenienza di quei fondi e soprattutto sul modo in cui erano stati gestiti. Nievo, onesto e idealista, voleva dimostrare la sua correttezza e denunciare le malversazioni di cui era a conoscenza. Ma la nave con cui lasciò Palermo non arrivò mai sul continente. Uno strano e provvidenziale naufragio, senza superstiti, mandò a fondo tutti i passeggeri, carte e denaro. E così, a pochi giorni dalla proclamazione del Regno, l’Italia ebbe il suo primo mistero di stato. Il primo di una lunghissima serie

di Pino Aprile da Storia in Rete n. 156

Cominciò con la morte «al momento giusto» di Ippolito Nievo e suonò come un avviso agli onesti: questo non è un Paese per voi e ha molto da nascondere. Leonardo Sciascia diceva che il nostro è un Paese senza verità e non si riferiva soltanto alla sua faticosa e deludente esperienza in Commissione parlamentare sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, ma a tutta la nostra storia (ogni tanto ci incontravamo nei dintorni del Parlamento e ricordo il suo sconforto per «il tempo che si perde, perché non si fa quasi niente, ma le cose sono messe in modo che non si possa nemmeno fare altro. La sera ti senti stanco e non sai perché». Cito a memoria, perché non so più se pubblicai quel suo sfogo in qualcuno dei miei articoli).

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Da Nievo a Matteotti, Salvatore Giuliano, Moro, Pecorelli, Chinnici, Falcone, Borsellino, il percorso dell’avventura italiana è costellato di delitti senza castigo né colpevole se non, a volte, qualche scassapagghiara mafioso offerto in pasto al pubblico desiderio di giustizia. E l’uso dei mafiosi e della parola «mafia» a coperchio di pentole da non scoperchiare parte da allora (verrà fuori, per i rapporti con la massoneria, anche nel caso Nievo, ma senza riscontri, almeno per la mafia). La vicenda di Nievo è paradigma di tutte le altre consimili, fino a oggi. Lo scrittore era animato da ideali altissimi, in politica e pure in amore. E non gli andò benissimo né in questa né in quello. Anzi, la delusione per l’impresa garibaldina che a Palermo gli sembrava naufragata, per l’irrompere delle truppe duosiciliane del colonnello Beneventano del Bosco fra le camicie rosse disorientate e senza più munizioni (i vergognosi ordini del generale Lanza, però, impedendo ai soldati borbonici di combattere, restituirono loro la città), indussero Nievo a far trapelare l’amore, seppur platonico, per Bice Melzi Gobio, moglie di suo cugino, il che, ovviamente, non fu apprezzato in famiglia. Nievo voleva l’Italia unita e tale aspirazione lo portò prima ad avere qualche fastidio con le autorità austriache (fu processato per «lesa maestà» e dovette trasferirsi dal Friuli a Milano, per prudenza), poi a imbarcarsi a Genova con Garibaldi, con il quale aveva già combattuto nel 1859, fra le guide a cavallo dei Cacciatori delle Alpi (i fratelli Carlo e Alessandro si arruolarono nell’esercito sardo: il primo, con il generale Enrico Cialdini nell’invasione delle Due Sicilie da Nord, scriverà che i meridionali bisognava «bruciarli vivi» e che il generale ne faceva buona, ma insufficiente, potatura). Nel viaggio da Quarto a verso la Sicilia (5-11 maggio 1860) Nievo era a bordo del Lombardo, il vascello comandato da Nino Bixio e fu nominato all’Intendenza, ovvero responsabile dell’amministrazione: aveva le chiavi della cassa, insieme al suo superiore, Giovanni Acerbi, amico e patriota antiaustriaco, uscito dal carcere con l’insurrezione lombarda del ‘48 e più tardi, condannato a morte con «i martiri di Belfiore», nel 1853 (scampò al patibolo fuggendo in Svizzera e poi in Piemonte).

E quello che a Nievo non era accaduto con gli austriaci, successe con l’Italia neonata cui tanto agognava. Il primo approccio fu gelido: chissà quante volte aveva immaginato l’arrivo a Sud da «liberatore» (abbracci, gente osannante e grata per le strade…) e cerchiamo di immaginare come ci rimase, quando scoprì che i soli a festeggiarli erano gli inglesi residenti a Marsala, mentre i siciliani mostravano freddezza, diffidenza o proprio ostilità: porte e finestre che si chiudevano. E peggiore fu la fine dell’avventura: in fondo al mare, con la nave su cui aveva caricato casse e casse di documenti sui furti dei garibaldini, che qualcuno tentava persino di addossare a lui. Uno strano naufragio, avvenuto nel Tirreno meridionale, tra Palermo e Napoli, la notte tra il 4 e il 5 marzo 1861, su cui scese subito il silenzio e nessuna spiegazione plausibile per il disastro, nonostante un’ottantina di morti, oltre quello eccellente. Sulla sorte dell’autore di uno dei migliori romanzi dell’Ottocento, «Le confessioni di un italiano», dallo sbarco in Sicilia all’inabissamento della nave Ercole, seguo la traccia dell’ottima indagine svolta dal tenente colonnello Cesaremaria Glori, riassunta nel libro pubblicato otto anni fa, «La tragica morte di Ippolito Nievo», e ampliato due anni dopo, in forza di «un interrogativo. Perché mai Ippolito Nievo, nei suoi ultimi mesi di vita, aveva preso le distanze da ciò che riguardava l’Esercito Meridionale di Sicilia e da come si stava evolvendo la situazione politica e militare dell’Italia?».

Nievo era un idealista, ma la passione politica non lo rendeva cieco. «Era un uomo veramente libero», scrive Glori, e credo non si possa definirlo meglio. Pur avendo collaborato a farlo nascere, dopo averlo visto operare, «non condivideva né il modo né i fini del nuovo Stato italiano. I suoi ideali non coincidevano con quanto si andava realizzando. Nievo guardava con crescente simpatia al popolo meridionale, incolpevole di ciò che gli si stava costruendo alle spalle». Alla partenza da Genova, Acerbi consegnò a Nievo 14 mila dei 94 mila franchi in cassa, per eventuali spese per il Lombardo e i suoi passeggeri. Non una gran somma: i soldi veri, per Glori, furono imbarcati poco dopo a Talamone, in Toscana. La deviazione, circa 200 miglia, non una cosetta, è «poco credibile» sia davvero avvenuta per far rifornimento di acqua, cibo e di armi. «Quella diversione, allora, fu fatta soprattutto, e forse unicamente, per imbarcare il prezioso carico di monete d’oro» (l’ipotesi che le avessero già ricevute a Genova «non appare convincente»): diecimila piastre turche; forse per questo fu necessaria la presenza di un avvocato. Ed è a Talamone, che Nievo è nominato vice Intendente della spedizione. Alla sorella scrisse che «era costretto a dormire sui sacchi pieni di denaro». Una responsabilità enorme per lo scrittore: voi come vi sentireste se onesti e con il compito di custodire circa 12 milioni di euro (nell’ipotesi di 80 grammi a piastra, per totale 800 chili di oro)? Era il prezzo della corruzione di parte della classe dirigente e militare del Regno delle Due Sicilie, per distruggere un Paese, mentre patrioti unitaristi agivano convinti di costruirne uno più grande e più bello. «Sapeva Nievo dell’origine di quel denaro e degli scopi per i quali era stato fornito?», chiede Glori. Quei soldi venivano dalla Gran Bretagna e tutto quel che si sa induce a ritenere che «Nievo rimase all’oscuro sino alla fine». E questo gli costò la vita.

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C’è un indizio che non a torto Glori ritiene decisivo: Nievo fu messo sull’avviso, ma non la capì o non la volle capire. La Gran Bretagna, per evitare coinvolgimenti plateali, nelle aree in cui aveva in corso trame pesanti, preferiva non essere presente con proprio personale diplomatico, ma ostentare apparente estraneità, affidando la propria rappresentanza ad altri. A Palermo, a rappresentare il governo di Sua Maestà Britannica c’era ad esempio un tedesco, il console di Amburgo, città anseatica, Alfonso Hennequin: con lui e la moglie, Nievo aveva stretto amicizia, frequentava la loro casa. È probabile che gli inviti degli Hennequin avessero all’inizio poco a che fare con la cortesia e molto con la diplomazia: a giocare la partita della conquista della Sicilia, e poi anche della parte peninsulare del Regno (la cosa non era affatto scontata, in partenza), era la Gran Bretagna, che per l’impresa aveva stanziato l’oro amministrato da Ippolito Nievo: quale altro modo, per vigilare, con discrezione, sull’uso del denaro (e magari suggerire), che avere l’amministratore ospite assiduo in casa? Ma se pure l’incontro avvenne per necessità diplomatica (la flotta militare di sua maestà, al comando dell’ammiraglio Mundy seguiva gli eventi nell’isola e, di fatto, li guidava), l’amicizia che ne seguì fu vera. Hennequin «era» la Gran Bretagna a Palermo; di tutto quel che c’era da sapere su quanto succedeva e doveva succedere bisognava fosse al corrente o la sua missione ne avrebbe risentito. E ora considerate la sua situazione: lo scrittore italiano di cui lui e la moglie sono diventati amici sta per imbarcarsi con casse di carte molto compromettenti sull’uso di quei soldi, la loro provenienza, spese ingiustificate e altrettanto ingiustificati arricchimenti. La nave non arriverà mai a destinazione. Il diplomatico non può rivelare quello che sa, ma cerca di impedire che Nievo salga su quel vascello.

La massoneria fu lo strumento per quegli eventi ed è dal congresso massonico di Torino del 1988, sul ruolo delle logge nel Risorgimento, che lo si apprende (scoprirlo, dette a Glori la risposta al suo interrogativo): in quella occasione vennero alla luce documenti inediti e Giulio Di Vita, uno dei convegnisti, svelò che Hennequin e sua moglie cercarono di convincere Nievo a lasciar partire i suoi uomini e le carte con la nave Ercole, e a seguirli con quella dopo, la Elettrico. Le ragioni addotte appaiono inconsistenti, il che avrebbe dovuto indurre lo scrittore al dubbio, al sospetto: le parole di un diplomatico significano sempre altro. Addirittura, gli Hennequin parlarono delle «tempeste di primavera» che rendono la navigazione difficile in Mediterraneo! Ora, a parte che, sino alla moderna marineria, in Mediterraneo, le navi si fermavano in inverno e riprendevano il mare in primavera, ma comunque l’Elettrico partiva solo sei ore dopo l’Ercole. Non è che cambiasse la stagione. Ma Nievo partì. Aveva dovuto subito fare i conti con la sproporzione e l’incompatibilità del suo idealismo e gli sprechi, i furti, le truffe con cui si dava l’assalto più alla cassa che al nemico; affaristi che miravano a coinvolgere i controllori… Acerbi e Nievo non ne facevano passare una e divennero odiatissimi in un caos di cui tutti cercavano di approfittare. «Si arrischia più a fare l’Intendente a Palermo che il Colonnello al campo», scrisse alla cugina (acquisita) Bice. E non solo i ladri avevano interesse ad addossare all’Intendenza i loro furti e a cercare di liberarsi di quei due così poco duttili, ma si finiva per essere attaccati da chi voleva colpire altri. Giuseppe La Farina, ingombrante uomo di Cavour inviato in Sicilia per controllare Garibaldi, fu dal generale, che non lo sopportava, presto costretto a ritornarsene in Piemonte. Da quel gruppo di potere arrivò un rapporto al ministro della guerra, sulle «malversazioni succedute presso l’esercito dei volontari». Insomma, l’Intendenza non come argine, ma covo di ladri. «I giornali del Piemonte e Lombardia ci piovono addosso accuse di ambizioni e di traditori», scriveva Nievo a Bice. «Bei conforti la Patria ci dona!». E dire che Acerbi e lui ebbero un compito folle: una confusione di norme, di unità di misura, di monete, di poteri, fra l’orgia dei formalismi sabaudi e la dissoluzione del Regno borbonico. Nievo replicò con una relazione dettagliata su «La Perseveranza di Milano», anticipando la diffusione di un resoconto, spesa per spesa, sull’uso dei fondi. L’annuncio «dovette sicuramente allarmare chi voleva restassero segrete le erogazioni di risorse che avevano favorito l’arrendevolezza degli alti gradi dell’Esercito Borbonico e della amministrazione civile dell’antico Regno delle Due Sicilie», nota Glori. Lo scrittore era onesto in ogni senso e stava ormai cambiando le sue opinioni per il confronto fra l’Italia che aveva sognato e quella che vedeva nascere. E non lo nascondeva. Che ne abbia parlato a Palermo, magari agli Hannequin, e a Milano, è possibilissimo, se non certo. Il che deve averlo reso ancor più pericoloso per i tessitori di trame e i profittatori.

Nievo, rientrato a Milano per una breve vacanza che una malattia poi prolunga, è richiamato per portare, da Palermo a Torino, le carte e il resoconto di cinque mesi di spese della spedizione garibaldina in Sicilia. Finalmente potrà dimostrare l’inconsistenza delle accuse, liberarsi di quella rogna, smaltire la delusione (in una sua lettera, scrive di «salario» da corrispondere. Ma non erano volontari?) e fare solo lo scrittore. Gli Hennequin non riusciranno a trattenerlo: la sera del 4 marzo 1861, si imbarca sull’Ercole. E non se ne saprà più nulla. L’Italia perde, a soli 30 anni, un grande scrittore e una persona perbene: è appena nata, e già per i migliori si rivela inadatta. Altri misteriosi eventi mai chiariti ci priveranno di grandi italiani o anche di pessimi italiani con cui devono sparire verità pesanti (a volte basterà un caffè corretto in carcere). La nave svanisce nel nulla, insieme alle circa 80 persone fra equipaggio e passeggeri. Si ipotizza un incendio a bordo o una bomba, ma non se ne raccoglierà un pezzo, un salvagente, una salma, nulla. Il comandante di una nave italiana dirà di averla vista affondare fra Capri e la penisola sorrentina, nel mare in burrasca; quello di una nave inglese dirà di aver visto il relitto ancora galleggiante, in mare calmo. La cosa ancora più sconcertante è che a nessuno pare la cosa interessi: insomma, la nave prevista non arriva a destinazione, ma solo dopo 12 giorni un giornale di Napoli darà notizia del naufragio e della morte di 80 persone, fra cui un importante funzionario e grande scrittore. Nessuno avvisò i familiari; 13 giorni dopo giungerà comunicazione ufficiale al capo di Nievo, Acerbi. E passa ancora un giorno, prima che la notizia sia pubblicata a Torino. Ci vollero proteste perché un vascello uscisse a perlustrare la zona del naufragio, senza, ovviamente, trovare ormai più nulla. Eppure, l’Ercole fu la sola imbarcazione a naufragare nel basso Tirreno, dal maggio del 1860 a quello del ’61. Lo stesso Garibaldi lascia passare sette mesi prima di inviare alla famiglia una formale letterina di condoglianze. Vi sembra normale?

Le notizie rese note al congresso massonico del 1988 rafforzerebbero, spiega Glori, la tesi del sabotaggio. E il luogo dell’affondamento, fra Capri e la penisola sorrentina, è l’unico, in tutta la rotta, in cui un possibile attentatore avrebbe potuto calare una barchetta e raggiungere la costa in un paio di ore, a remi. L’ora era ideale: verso le 5 del mattino, quando tutti, o quasi, dormivano. E l’affondamento fu così repentino, che non si ebbe tempo di calare una scialuppa, buttarsi in mare con un salvagente, nulla! E non una carta che galleggi. Così, nessuno (tranne chi doveva e sapeva di dover tacere) venne a conoscenza degli 800 chili d’oro stanziati dai britannici per la distruzione del Regno delle Due Sicilie, «sino alle rivelazioni del 1988», ovvero la relazione di Giulio de Vita al congresso massonico di Torino. Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, dedicò molti anni della sua vita e tantissime pagine alla ricerca della verità sulla morte dell’avo. Alla fine, pur facendolo filtrare in forma romanzata di rivelazione di una sensitiva, cita un tale Lorenzo Garasini, savonese, unico superstite. Ma Lorenzo Garasini (in realtà Garassini, con due esse; e chissà se la caduta di una consonante non sia stata voluta) è esistito davvero, scoprirà Glori, e non solo era savonese ma ha a che fare con quei tempi e quella vicenda. Chi era? Un esperto in contabilità, infilato, da uomini di Cavour, nell’Intendenza garibaldina di cui Nievo era il numero due: messo lì per controllare e riferire, forse, visti gli spigolosi rapporti e la reciproca diffidenza fra il generale e il conte, specie dopo la cacciata di La Farina dall’isola. Garassini sarebbe morto anni più tardi, nel Golfo del Leone (nel Mediterraneo, tra Spagna e Francia), nel naufragio (beh…) di una nave che trasportava cavalli berberi per l’esercito italiano. Glori, identificato Garassini, cercò inutilmente altre notizie, nonostante «l’insolito silenzio che circonda questo misterioso personaggio». Pensò di recuperare nell’Archivio storico della Marina militare, documenti sul naufragio della nave affondata nel Golfo del Leone, ma gli fu detto (e non dimenticate che Glori era un ex alto ufficiale) che i sotterranei erano stati allagati dal Tevere e solo dopo la bonifica e l’eventuale recupero dei documenti salvati si sarebbe potuto cercare. Quando si dice la sfortuna. L’acqua annega ogni verità in questa storia: Nievo e le sue carte, Garassini e il suo mistero, e persino l’archivio che potrebbe dare una risposta.

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