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Adriana Montezemolo: mio padre eroe dimenticato della Resistenza

«L’ultima volta che vidi mio padre era il Capodanno del 1944. I baroni Scammacca del Murgo, correndo gravi rischi, ci avevano accolto al nostro rientro a Roma e avevano organizzato quella fugace riunione familiare». Adriana Cordero Lanza di Montezemolo, ultimogenita del colonnello Giuseppe Montezemolo, il capo del Fronte militare clandestino, ricorda con tratti veloci e precisi la figura del padre, medaglia d’oro, eroe della Resistenza, massacrato alle Fosse Ardeatine nel pomeriggio del 24 marzo 1944, assieme agli altri 334 detenuti comuni, prigionieri politici, ebrei, prelevati dal carcere di Regina Coeli e dalla prigione nazista di via Tasso.

di Dino Messina da Lanostrastoria del 23 marzo 2015 La nostra storia

Nella casa che da molti anni condivide con il marito Benedetto della Chiesa, nipote di Papa Benedetto XV, in una tenuta agricola che corre proprio lungo la via Ardeatina, Adriana di Montezemolo custodisce memorie importanti, avendo ereditato dalla madre Juccia (Amalia), scomparsa nel 1983, la missione di ricordare quel padre figura centrale della Resistenza, che tuttavia per oltre mezzo secolo è stato tenuto fuori dalla storiografia ufficiale. «Abbiamo avuto infinite manifestazioni di affetto private e ufficiali, culminate in una medaglia d’oro, ma è vero per molto tempo del ruolo di mio padre s’è parlato poco. Mi fece perciò grande piacere leggere nel 2003, sul Corriere della sera, un articolo di Paolo Mieli in cui si diceva che era il momento di far entrare il colonnello Montezemolo nei libri di storia. Meno di dieci anni dopo è arrivata la biografia di Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo (Dalai editore)».

Adriana Montezemolo parla veloce, talvolta si interrompe e si alza per mostrare i biglietti del padre dalla prigione di via Tasso, la lettera di ringraziamento del generale Harold Alexander, comandante degli eserciti alleati in Italia, alla signora Amalia, la foto che ritraeva la famiglia per l’ultima estate spensierata a Forte dei Marmi: ci sono il primogenito Manfredi, classe 1924, che aiutò il padre nella lotta clandestina, il secondogenito Andrea, oggi cardinale, che lavorò con il medico Attilio Ascarelli dopo la liberazione di Roma a ricomporre i resti delle vittime delle Fosse Ardeatine, infine, assieme ad Adriana, le sorelle Lydia e Isolda. Adriana nel dopoguerra si è laureata in fisica con Edoardo Amaldi, ma assieme al marito Benedetto, da cui ha avuto cinque figli, si è sempre occupata di agricoltura.
Le memorie di famiglia si intrecciano a quelle pubbliche. «Ci eravamo trasferiti a Roma da Torino nel 1940, quando mio padre era stato nominato colonnello, il più giovane con quel grado. Diceva che nell’esercito contano gli ufficiali con la “c” (caporale, come lui era stato nella prima guerra mondiale, capitano e colonnello), più vicini alla truppa. Il papà era una persona affettuosa, ma come usava una volta riservata e severa. Aveva un’autorità eccezionale».

Fedele ai Savoia, il 19 luglio 1943 aveva accompagnato Mussolini all’incontro di Feltre con Hitler, dove il capo del fascismo non ebbe il coraggio di sostenere con il Führer le ragioni di una pace separata. Fu allora che venne decisa la sorte del Duce e il colonnello Montezemolo ebbe una parte nel suo arresto. Consigliere di Badoglio, decise di restare a Roma dopo l’8 settembre per organizzare la difesa militare, quando la corte e il governo prendevano la via di Pescara. «Mio padre fungeva da collegamento tra il governo legittimo del Sud e la Resistenza romana. Comunicava agli Alleati attraverso radio ricetrasmittenti gli spostamenti delle truppe tedesche e altre informazioni». Per questo Herbert Kappler, il comandante della Gestapo a Roma, che poi lo avrebbe interrogato e torturato in via Tasso, lo considerava il nemico numero uno.
«Passammo l’estate del 1943 in una tenuta di alcuni amici a Perugia. Dopo l’8 settembre ricevemmo l’ordine di non muoverci, la situazione era molto pericolosa. Nostro padre coordinava anche i gruppi della Resistenza civile che si andavano formando. “Mai avrei pensato — diceva — io monarchico di collaborare e avere buoni rapporti con il comunista Giorgio Amendola”».

Giorgio Amendola, che diede l’ordine dell’attentato del 23 marzo 1944 al battaglione SS Bozen in via Rasella, da cui scaturì la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine. «Mio padre credeva che alla Resistenza civile, che fu rifornita di armi dal Fronte militare, spettavano tutt’al più azioni di sabotaggio in campagna. Era molto preoccupato dalle rappresaglie e finché rimase in libertà riuscì a tenere il controllo della situazione. Dopo il suo arresto, il 25 gennaio 1944, dapprima i protagonisti della Resistenza si dileguarono nel timore che parlasse, poi, quando si accorsero che non aveva fatto nessun nome, le azioni dei Gap si intensificarono».
Adriana rimase nel Perugino con la mamma e le sorelle sino a fine dicembre: «A Roma nel gennaio ‘44 cominciammo a frequentare le scuole al collegio di Trinità dei Monti, dove anche la mamma viveva in una stanza del pensionato. I miei genitori si incontravano il mercoledì in casa Scammacca verso le 14,30, poi uscivano per una passeggiata a Villa Borghese. All’ultimo incontro, credo il 19 gennaio, tre giorni prima dello sbarco di Anzio, mio padre disse che se gli Alleati non si sbrigavano lui sarebbe stato preso. Si sentiva braccato. La settimana successiva la mamma arrivò presto all’appuntamento, ma attese inutilmente. Si presentò invece mio fratello Manfredi con la notizia che il papà il giorno prima, il 25, era stato arrestato».
Chi era stato a rivelare che sotto i baffi a manubrio del «professor Giuseppe Martini» o dell’«ingegner Giacomo Cataratto» si nascondeva il capo della Resistenza militare clandestina? «Ci sono state varie voci, potrei fare dei nomi, ma la verità non si saprà mai. Speravamo che il papà non fosse finito nelle mani delle SS. Una persona terribile, che dava informazioni in cambio di denaro, ci disse che lo aveva visto a Regina Coeli, tranquillo che giocava a carte. Strano, pensammo, mai visto il papà a un tavolo da gioco».

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Era invece nella prigione di via Tasso, dove venne torturato per giorni. «Una cugina si era offerta di portare un po’ di biancheria. Da via Tasso filtrarono tre biglietti , poi il silenzio. Vivemmo nell’angoscia e nella speranza anche dopo aver ricevuto, il 4 aprile, la comunicazione tedesca che potevamo andare a ritirare gli effetti personali. Avemmo la certezza che il papà era morto nel peggiore dei modi quando la mamma riconobbe la fede nuziale, fra il materiale proveniente dalle Ardeatine, alle Mantellate, nel luglio 1944».
Da allora è cominciata la meticolosa ricostruzione dei fatti, gli incontri che con la memoria rinnovano il dolore. «In anni recenti, durante un dibattito nel museo di via Tasso mi è venuta incontro una signora, era Carla Capponi (la compagna di Rosario Bentivegna che partecipò all’attentato di via Rasella, ndr), mi raccontò che durante la Resistenza aveva incontrato mio padre per consegnarle delle armi. La salutati in maniera fredda. Forse ho sbagliato».
L’ultimo ricordo riguarda il capitato Eric Priebke, il collaboratore di Kappler che partecipò al massacro delle Ardeatine. «Arrestarlo in anni recenti — dice Adriana sorprendendoci — è stato un errore. Era solo un esecutore di ordini. Non l’ho conosciuto ma ho avuto con lui una corrispondenza epistolare attraverso l’avvocato Paolo Giachini. Gli chiesi se avesse conosciuto mio padre. Mi rispose di no. Strano, per uno che faceva l’interprete in via Tasso. Ma perché non avrei dovuto credergli?».

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