Galli della Loggia e quella Roma costruita “a immagine del cuore di Mussolini”

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di Alberto Scuderi per Storia in Rete del 12 febbraio 2025

«La forma di una città cambia più in fretta, ahimè, del cuore di un mortale», diceva Baudelaire in una poesia dedicata al grande romanziere Victor Hugo. E se il riferimento, in quel caso, era alla Parigi dell’Ottocento, dunque tutt’altro contesto, le considerazioni cui giunge Ernesto Galli Della Loggia nel suo ultimo saggio, Una capitale per l’Italia (Il Mulino, 2024), dedicato alla storia architettonica e urbanistica della Roma fascista, non sono poi molto diverse. Perché Roma, oltre a essere la città in cui l’autore è nato e cresciuto, è la stessa che ancora fino agli anni Sessanta portava i segni ben visibili di un regime che proprio nella capitale «ebbe le sue maggiori manifestazioni pubbliche, […] impregnò di sé opere e sogni, vie e piazze, campi sportivi e studi cinematografici, periferie e istituti culturali, testate giornalistiche e aule universitarie». E che, negli anni del boom economico, in maniera fin troppo repentina per non dire violenta, ha proceduto a cambiare il suo volto – ancora una volta – fino a diventare la città che oggi tutti conosciamo. Quella che, irriducibile a qualsiasi etichetta, stante la sua storia così stratificata e complessa, da sempre rappresenta una sintesi perfetta del nostro paese, nel bene e nel male.

L’incontro tra Galli Della Loggia e la Roma fascista rimanda agli anni in cui, da ragazzetto ancora imberbe, l’autore andava a trovare «dei parenti che abitavano in un quartiere allora semiperiferico, costruito sulla sinistra della via Nomentana, a partire dalla basilica di Sant’Agnese: il “quartiere africano”. Così detto non già perché come succede oggi a tante Chinatown o Little Italy sparse nel mondo abitasse da quelle parti gente perlopiù proveniente dall’Africa, bensì semplicemente per ricordare – in omaggio ai trionfi etiopici del regime contemporanei alla nascita del quartiere stesso – le gesta del colonialismo italiano». Laddove il fascismo presenziava, o per meglio dire incombeva, come un fantasma nell’Italia democratica e repubblicana appena sorta, in quasi tutti i nuovi edifici pubblici, come «nella vasta area di Roma nord dove subito dopo la guerra il Commissariato degli alloggi aveva trovato un appartamento in affitto da assegnare alla mia famiglia». Oppure «negli alti silenzi notturni creati dal piccone risanatore tra il Campidoglio e il Velabro o nei poveri bar latterie dove un paio di vasi di caramelle o di liquirizie costituivano l’unica compagnia alla macchina del caffè». Infine, «sotto un alto obelisco con inciso un inequivocabile “Mussolini dux”», passando dal Foro italico – la prima importante impresa di successo del fascismo nel campo della grande edilizia pubblica, ad opera dell’architetto carrarese Enrico Del Debbio – per andare all’Olimpico a seguire la propria squadra del cuore, la Lazio. Dunque, queste sono le vie dei ricordi dell’autore, di una città “visivamente fascista”, come la definisce, il cui carattere è rintracciabile proprio nel rapporto che essa ebbe tanto con il regime quanto con le grandi correnti culturali e artistiche del Novecento – bellissime le pagine dedicate al movimento razionalista (1925-40) ispirato al Bauhaus, all’opera di Mies van der Rohe, Gropius e Le Courbisier, e quelle al monumentalismo dell’architetto e urbanista Marcello Piacentini, autore solo a Roma della casa madre del Mutilato, del ministero delle Corporazioni, del Teatro dell’Opera e di tutto il complesso universitario della capitale. Qui, nell’opera trasformatrice dell’Urbe, progettata e sostenuta con forza dal governo fascista sia economicamente che da un punto di vista ideologico – non già «un panorama di crimini archeologici e urbanistici», come spesso si è sentito dire sbrigativamente da più parti -, risiede la realtà e l’immagine della Roma di oggi, oltreché l’essenza stessa del lavoro di Galli Della Loggia. Il quale contribuisce a sfatare alcuni miti anche legati all’ambiguità culturale del fascismo, nella fattispecie per quanto concerne l’architettura – la “massima fra tutte le arti perché comprende tutto”, secondo Mussolini – e il cosiddetto “fascismo di pietra” – sorta di reductio con la quale si volevano ricomprendere sotto il medesimo ombrello indirizzi e scelte formali piuttosto differenti – che, al netto di una certa critica, non possiamo dire essere realmente esistito. A tal proposito dice l’autore: «non ci fu mai in Italia […] un’estetica di regime. […] semmai diverse fasi in cui le preferenze di Mussolini si orientarono in una direzione o in un’altra […]». «Ci furono, sì, comuni tratti di fondo che però a conti si ridussero a uno solo, mi pare: al motivo generico del fascio littorio, che tradotto in linguaggio architettonico volle dire soprattutto l’obbligatoria presenza di una “torre littoria” eretta accanto alle centinaia di Case del Balilla e Case del Fascio che furono disseminate nella penisola». Un altro degli elementi di cui spesso non si tiene conto, che si ricollega a quanto si diceva poc’anzi sulla Roma odierna, di considerarla insomma figlia del regime e delle scelte operate durante il ventennio, è quello della crescita impetuosa di quegli anni, dai circa 700.000 abitanti del ‘21 a 1.400.000 del ‘41. Un fattore determinante, almeno per due motivi. Per «il sorgere di una vera e propria periferia con la cintura ancora più esterna costituita delle “borgate”, e dunque la conseguente netta distinzione tra la periferia e il resto della città […]». Ma anche per «la nascita di vasti quartieri residenziali lontani dal centro storico […] destinati a un pubblico impiegatizio e medio-piccolo borghese come l’Appio Latino, il quartiere Trieste, il quartiere Italia tra viale Regina e piazza Bologna, ovvero quelli per i ceti più abbienti come Prati, Parioli, Ludovisi, l’Aventino». In questa continua prossimità, di quartiere in quartiere, nasce la Roma moderna, borghese e popolare ad un tempo. Per certi versi contradditoria, se è vero che quella crescita vertiginosa, fatta di strade, edifici pubblici, palazzi, ancora oggi continua ad essere la croce di tutte le amministrazioni capitoline. Nei termini di una gestione dell’urbe non solo economica, ma soprattutto sociale.  

Come contradditorio, infine, fu anche il rapporto che Mussolini ebbe con la capitale. Definita «città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti, di burocrati […]» in un articolo del 1910 su Lotta di Classe, dedicato alle condizioni della città. Nel momento in cui, da socialista radicale, ancorché già influente, egli aveva individuato proprio nella Roma del tempo il simbolo del malgoverno italiano. Tuttavia, pochissimi anni dopo, nel 1917, in procinto di trasferire la sede del “Popolo d’Italia” nella capitale, Mussolini stesso ricalibrava il suo giudizio in questi termini: «La nostra tenda – scriveva – la piantiamo qui a Roma, fra queste mura che hanno visto gli eventi più grandiosi della storia umana […] in questa Roma che ha dato al mondo il prodigio dell’umanità trina del diritto, della forza, della bellezza». L’ultimo passaggio è quello che lo vede, già capo del governo, farsi vero e proprio campione della romanità, emanazione diretta della sua storia e della sua tradizione.

Cos’era cambiato? «Che il richiamo a Roma – dice Galli Della Loggia – significava affermare la forza ineluttabile del centro nei confronti delle periferie, che all’ascendente della capitale corrispondeva inevitabilmente quello del capo». Per quanto vi fossero alcune voci riluttanti a questo romanocentrismo, vedi il movimento Strapaese di figure quali Leo Longanesi, Ardengo Soffici e Mino Maccari – fascisti sui generis, invero -, l’attenzione del duce nei confronti dell’urbe fu sempre massima. D’altronde, come sostiene Ottiero Ottieri ne La linea gotica, «per Mussolini la carriera a Roma fu l’impero». Assunto che potrebbe persino smentire – solo in parte – il decadente Baudelaire da cui si è partiti. Essendo l’attivismo mussoliniano nient’altro che l’estremo tentativo di far coincidere, plasmandola a sua immagine, la forma della città e il proprio cuore. Per una volta, avvinti l’uno all’altra fino alla fine. 

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