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Tito e Togliatti, “compagni di merende” ai danni dell’Italia

Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito“. Erano le direttive del PCI nel 1944. Ordini di Palmiro Togliatti.

Il rapporto del Partito Comunista Italiano con le forze della Jugoslavia titina è oramai talmente dato per scontato, che ultimamente sembra perdersi nello sfondo delle vicende che hanno portato alla fine della presenza italiana oltreadriatico. Così oggi si tende quasi a dimenticare il ruolo che gli uomini di Togliatti ebbero nel favorire la mutilazione del nostro territorio nazionale, l’eliminazione di assai migliaia di persone e la depopolazione di quelle terre. Per questo il nuovo libro di Marino Micich, direttore del Museo Storico di Fiume a Roma, pubblicato per i tipi di Mursia – “Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954” (pp. 198, € 15,00) va salutato con grande interesse. Perché rimarca un “dettaglio” che sembra essere scomparso: quello della complicità del PCI con Tito.

Il libro di Marino Micich: “Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954” (pp. 198, € 15,00) è disponibile su Libreria di Storia

L’analisi dei documenti e dell’evolversi dei rapporti fra la dirigenza togliattiana e quella titina effettuata da Micich risulta di grande utilità soprattutto nella prospettiva delle polemiche che di anno in anno si affastellano attorno alla data del 10 febbraio e più in generale sulla prima metà del XX secolo italiano. Riconducendo i termini del problema giuliano alla realtà brutale dei fatti, Micich mostra come le questioni idealistiche, la “lotta al Fascismo”, fossero del tutto secondarie e strumentali per i partiti comunisti d’osservanza staliniana, i quali molto cinicamente più che far fuori un nemico ideologico, stavano eliminando un pericoloso concorrente.

La strumentalità della “lotta antifascista” come viene oggi intesa genericamente questa locuzione (il “bene assoluto” contro il “male assoluto”, la “libertà” contro “l’oppressione” e via discorrendo) è palese nella constatazione che l’arrivo delle forze titine non ha affatto liberato le popolazioni giuliane, ma ha calcato sul loro collo il tacco di uno stivale che nulla aveva da invidiare a quello nazista ed era infinitamente più brutale del pur non delicato regime fascista, che con le sue politiche di snazionalizzazione aveva tentato di assimilare forzatamente gli slavi o di provocarne l’emigrazione.

Il saggio di Micich consente anche una riflessione sulle divergenze fra il comunismo togliattiano e quello titino, divergenze che sono strutturali e non solo legate alla contingenza dell’espulsione di Tito da Cominform. Infatti la declinazione titoista del comunismo non è altro che la prosecuzione dell’imperialismo sud-slavo con la stella rossa. In questo senso Tito può sedersi perfettamente accanto a Stalin, che trasforma il comunismo leninista e internazionalista in un regime che acquisisce in tutto e per tutto la geopolitica russa ma con le bandierine rosse. Il senso del cambio di nome imposto ai partiti-fratelli nel 1944 è proprio questo: trasformare delle sezioni dell’internazionale comunista in veri e propri partiti nazionali.

Una trasformazione più di facciata che di sostanza in molti casi. Infatti mentre alcuni partiti comunisti, e segnatamente quello jugoslavo, hanno messo la matrice nazionale davanti a quella ideologico comunista, altri hanno mantenuto un atteggiamento più leninista, internazionalista e in questo senso dichiaratamente nemico della propria identità nazionale. Una logica anche strategica: dove il Comunismo si prepara a prendere il potere o lo detiene deve acquisire il monopolio del patriottismo, là invece dove è all’opposizione deve combattere il patriottismo, appannaggio delle “destre”, come ostacolo alla conquista del potere.

Così mentre il PCJ svolge una politica imperialista ai danni dell’Italia (cosa che non può fare più di troppo con gli altri vicini, poiché comunistizzati o – come nel caso greco – in predicato di diventarlo) il PCI segue rigide direttive anti-nazionali, tese a detestare e mortificare le aspirazioni nazionali italiane dal Risorgimento in avanti viste come un ostacolo per la rivoluzione comunista. Il tutto avviene nella speranza che l’annessione della più ampia fetta possibile d’Italia da parte della Jugoslavia possa creare delle basi territoriali dalle quali tentare un balzo nella restante parte della penisola.

Non esiste dunque alcun dubbio che il PCI abbia perseguito una politica antinazionale, cinica e strumentale, il cui unico scopo era espandere la sfera d’influenza rossa in Europa e aspirare a realizzare una propria satrapia anche nel nostro paese o in una sua porzione.

La successiva rottura con Tito sarà un trauma e una doccia gelata per queste aspirazioni, costringendo le Botteghe Oscure a tatticismi che da un lato dovevano garantire la sua ortodossia nei confronti del fratello maggiore al Cremlino, ma dall’altra non potevano far perdere la faccia davanti all’opinione pubblica italiana né prestare il fianco agli attacchi dei partiti anticomunisti. La vicenda di Trieste, raccontata da Micich nei dettagli, è esemplificativa di come nonostante i pur simpatici irenismi alla “Don Camillo e Peppone” nel PCI non vi sia mai stata una reale volontà di sostenere le aspirazioni nazionali del nostro paese nei confronti dell’imperialismo jugoslavo. Altro che comizi che finivano cantando “La canzone del Piave”…

Questa pervicacia si manifesta tutt’oggi, in pieno XXI secolo, nelle polemiche sollevate dai tanti nostalgici del comunismo, ancora perfettamente convinti nel pensare tutto il male possibile delle aspirazioni nazionali italiane (anche quelle più lontane dall’imperialismo nazionalista nostrano) e a considerare invece con ammirazione e indulgenza l’imperialismo jugoslavo, di segno uguale e opposto al nostro. Del resto, com’è ben noto, i cosplayer del comunismo italiano (e occidentale in genere) sono sempre in difesa di ogni identità e ogni lotta popolare, tranne quella del proprio popolo.

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