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Quelle bufale su schiavismo e Africa (per farci venire il senso di colpa)

Di Francesco Borgonovo dal Primato Nazionale di agosto 2018

Nel 2016, History Channel ha realizzato un remake della serie tv Radici, che nel maggio scorso è stata trasmessa anche su Rete 4. Alla produzione hanno partecipato celebrità come Forest Whitaker, Anna Paquin, Laurence Fishburne e Jonathan Rhys Meyers. La storia è nota: Radici mette in scena l’epopea di Kunta Kinte (interpretato da Malachi Kirby), guerriero africano mandingo che viene ridotto in schiavitù e trasportato in Virginia, dove finisce a lavorare in una piantagione. La nuova versione di questa saga familiare black è molto ben girata e decisamente cruda: l’orrore della schiavitù viene mostrato con dovizia di particolari. Del resto, l’obiettivo della serie è ribadire quali orribili pene abbiano dovuto patire i neri americani per mano dell’uomo bianco.

«La schiavitù non è stata sradicata da questo pianeta», ha commentato l’attore LeVar Burton (che impersonò Kunta Kinte negli anni Settanta). «Non è stata neppure alleviata, ci sono nuove forme di schiavitù, nuovi muri, nuove catene, nuovi corpi gettati in mare. Per questo abbiamo deciso di riproporre la storia di Radici». Quello della schiavitù è un tema che va per la maggiore negli ultimi anni, diciamo da quando Barack Obama si è candidato alla presidenza la prima volta.

L’antirazzismo americano

Il clima intellettuale dell’Occidente è fertile: negli Usa imperversano i movimenti come Black Lives Matter; l’esplosione dei flussi migratori a livello globale ha sollevato infinite discussioni sul razzismo diffuso, e l’intellighenzia ha reagito proponendo film, serie e libri sull’argomento. Negli ultimi anni sono usciti film come The Birth of a Nation di Nate Parker, dedicato alla ribellione dello schiavo Nat Turner. Poco prima era toccato a Free State of Jones con Matthew McConaughey, ispirato al libro di Victoria E. Bynum: racconta di un fuorilegge bianco che, nel Sud degli Stati Uniti, si oppone allo schiavismo e alla segregazione. Ma in libreria si trovano pure i saggi di Ta-Nehisi Coates sul razzismo, i fumetti del supereroe Pantera Nera (da cui è stato tratto un altro celebratissimo lungometraggio) sceneggiati sempre da Coates con la medesima impostazione ideologica. E poi il romanzo sulla schiavitù di Marlon James e mille altri volumi di analogo orientamento.

Quello della schiavitù
è un tema oggi molto
gettonato ed è stato
trattato in diversi film
e opere letterarie

A tutte queste narrazioni, però, manca qualcosa. C’è sempre qualche aspetto della storia che viene trascurato, messo in ombra o semplicemente censurato onde non turbare la versione ufficiale, che deve essere la seguente: i bianchi occidentali sono razzisti fin nelle viscere. Lo erano al tempo delle colonie e lo sono oggi, poiché discriminano le minoranze e non accolgono gli immigrati: sono afrofobi, islamofobi, xenofobi eccetera. I documenti storici, però, raccontano qualcosa di diverso. Spiegano che la schiavitù e il razzismo non furono prerogativa dei soli bianchi europei e americani, anzi.

Il ruolo dell’islam

Secondo lo storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau, autore dell’approfondito studio La tratta degli schiavi (edito da Il Mulino), il commercio dei neri così come lo conosciamo coincide storicamente con l’espansione musulmana intorno al VII secolo dopo Cristo. «È un dato di fatto», scrive il professore. «Nessuno può dire se la tratta si sarebbe potuta sviluppare anche in seguito, senza questo avvio, e il problema in sé non ha interesse. Il mondo musulmano, d’altra parte, non reclutava certo soltanto schiavi neri. Per tutta la sua storia, esso attinse ampiamente anche dai Paesi slavi, dal Caucaso e dall’Asia centrale». A partire dal VII secolo, «il jihad e la costituzione di un impero musulmano sempre più vasto portarono all’aumento considerevole di manodopera servile».

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Tutto ciò, nel mondo islamico, avvenne per due ragioni: «La prima è che la schiavitù vi esisteva già come istituzione comune e ben radicata. La seconda è che era diventato impossibile procurarsi schiavi all’interno dell’impero». Sono i musulmani, insomma, a dare il via al commercio globalizzato di schiavi neri. Non potendo ridurre in schiavitù uomini e donne che vivevano in territori sottoposti alla legge islamica, avevano bisogno di allargare il più possibile il raggio d’azione. Le popolazioni dell’Africa via via sottomesse fecero il resto (comprese quelle già cristianizzate). Dovendo pagare tributi all’impero musulmano, anche sotto forma di uomini, scesero sempre più in profondità nel Continente nero onde procurarsi merce umana per la tratta. Non c’è molto di cui stupirsi: anche oggi i predicatori dello Stato islamico teorizzano la schiavitù, basandosi sui testi sacri, e minacciano gli infedeli occidentali di ridurli a bestie da soma.

Secondo lo storico francese
Olivier Pétré-Grenouilleau
il commercio dei neri
coincide con l’espansione
dell’islam nel VII secolo

C’è poi un altro aspetto da considerare: riguarda più direttamente la nascita della discriminazione e del razzismo. Fu con l’espansione islamica e con l’allargamento della tratta che, come dice ancora Pétré-Grenouilleau, si modificò «l’immagine dell’uomo nero». Quasi tutti i popoli antichi praticavano la schiavitù, ma il nero non era mai stato considerato un essere a tutti gli effetti inferiore per via del suo colore. Tuttavia, «le tratte in direzione del mondo musulmano e il razzismo verso i neri si svilupparono simultaneamente».

L’islam seppe creare una civiltà veramente universale, come ha spiegato lo storico Bernard Lewis. Gli arabi, in quanto dominatori, si posizionarono al centro di questo universo e cominciarono a definire gli altri popoli in base alla prossimità. Alle genti di pelle scura, neri in particolare, fu dunque attribuita «una connotazione di inferiorità». Dallo stereotipo negativo si passò al razzismo vero e proprio nel momento in cui all’interno dell’impero musulmano divenne frequente vedere dei neri ridotti in schiavitù. Nero e schiavo, in sostanza, divennero sinonimi. Sono numerosi i testi, risalenti a epoche diverse (tra l’VIII e il XIV secolo), in cui i dotti islamici descrivono gli africani di pelle scura come simili agli animali o comunque inferiori. Il grande storico Ibn Khaldun, per esempio, scrisse che «le nazioni negre sono come regola generale docili alla schiavitù, perché i negri hanno ben poco di ciò che è essenzialmente umano». Con la diffusione dell’islam nel cuore del continente africano, divenne addirittura necessario avviare una sorta di campagna contro questa concezione delle genti nere, anche se i musulmani africani continuarono a essere considerati per lungo tempo diversi dagli altri fedeli sparsi nel globo.

Gli abbagli di Malcolm X

È piuttosto curioso, dunque, che l’islam si sia diffuso nei ghetti neri d’America presentandosi come religione degli oppressi, come unica via di riscatto per i «negri». Così la raccontavano Malcolm X e gli altri esponenti della Nation of Islam, cioè gli attivisti che non si facevano problemi ad affermare: «L’uomo bianco è il diavolo». Fu Malcolm X a scagliarsi contro le scuole dei bianchi che ignoravano la storia africana. «Odiando l’Africa e gli africani», sosteneva, «abbiamo finito per odiare noi stessi». Forse non aveva letto i testi di Ibn Khaldun… Oggi L’autobiografia di Malcolm X è pubblicata in Italia da Rizzoli, e continua a essere ristampata. Viene presentata come «la storia di un leader carismatico in prima linea nella battaglia contro le ingiustizie che dividono il Nord dal Sud del mondo», quasi che il nostro fosse una specie di dama della carità terzomondista. Quell’autobiografia fu scritta proprio da Alex Haley, lo stesso autore di Radici. Quest’ultimo frequentò a lungo X, e fu in quell’ambiente radicale che la saga di Kunta Kinte prese forma. Si trattò, in senso pieno, di una operazione ideologica, volta a creare un testo fondativo dell’orgoglio nero e ad aizzare gli animi contro i bianchi, rei di avere edificato una nazione sul razzismo.

Il ruolo degli africani

Ora, che nelle piantagioni di tabacco prima e di cotone poi gli schiavi fossero utilizzati a livello massivo è universalmente noto. E di certo la cosiddetta «tratta atlantica» causò l’intensificarsi del commercio di esseri umani dall’Africa verso gli Usa. Ma le popolazioni africane, che già portavano avanti questo traffico dai tempi dell’impero musulmano, contribuirono ampiamente. E lo fecero non solo procurando prigionieri da vendere agli americani, ma pure fornendoli agli europei per secoli e secoli. Lo ha raccontato, tra gli altri, il celebre giornalista David Van Reybrouck nel suo bestseller Congo. Lo storico Matthew Restall, invece, ha documentato come i neri africani – schiavi ma anche liberi – abbiano affiancato gli spagnoli durante l’invasione dell’America Latina e lo sterminio dei nativi manu militari.

Le stesse popolazioni
africane contribuirono
alla vendita di schiavi
da inviare in America

Chissà perché, però, questo aspetto della storia della schiavitù viene sempre trascurato, per lasciare spazio alle malefatte dei bianchi occidentali. Sono queste a farla da padrone nei film e nelle serie tv che oggi vanno per la maggiore. Ecco perché vale la pena di conoscere la realtà fino in fondo.

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