Nel libro scritto con Cristina Petit “A casa di donna Mussolini” (Solferino), Alberto Szegö racconta l’incredibile vicenda della sua famiglia negli anni delle persecuzioni razziali: «Trovammo rifugio a Premilcuore, a due passi da Predappio, nella casa della sorella del Duce. Quando scoprì la nostra identità non ci denunciò»
di Antonio Sanfrancesco da Famiglia Cristiana del 27 gennaio 2023
È rimasta nascosta come un fiume carsico, e alla fine è tornata su nella maniera più rocambolesca. Come rocambolesca, anzi meglio dire incredibile, è tutta la vicenda che si staglia nell’Italia del 1944 con il regime fascista agonizzante, gli ebrei braccati, gli alleati che da Sud avanzano per liberarla, i partigiani che combattono contro i nazifascisti in scontri cruenti sui quali qualche anno fa Giampaolo Pansa ha acceso i riflettori in libri che hanno fatto molto discutere.
Un incontro fortuito, a Bologna, nella tremenda primavera del 2020 con l’Italia in lockdown e la pandemia che ogni giorno miete migliaia di vittime. L’ingegnere Alberto Szegö, classe 1933, ebreo per parte di padre, non ce la fa a starsene in casa tutto il giorno e ha bisogno di camminare. S’accomoda su una panchina ma i vigili lo sorprendono e gli fanno la multa. Gli chiede dove possa andare per passeggiare un po’ e lo mandano in via Siepelunga, dove c’è un parco più appartato. Alberto ci va e incrocia una donna, Cristina Petit (nella foto in alto insieme, ndr), insegnante e scrittrice, che tutti i giorni nel primo pomeriggio passa di lì mentre fa jogging. «Ultimo giro?», gli fa lui abbozzando un sorriso. «Ancora no», risponde lei. E si mettono a chiacchierare.
Dalla memoria rocciosa di Alberto emerge una storia. Quella sua e della sua famiglia. La racconta tutto d’un fiato. E Cristina quasi non crede a quello che ascolta. Perché ha a che fare con una donna che si chiama Edvige Mussolini, la sorella minore del Duce, anche se a Premilcuore, il borgo romagnolo a due passi da Predappio, la conoscono tutti come Edvige Mancini, dal cognome del marito, il cavaliere Giuseppe, che è anche il podestà locale.
Ora questa storia è diventata un libro A casa di donna Mussolini (Solferino, pp. 448, € 20), scritto a quattro mani da Szegö e Petit, ed è un colpo di scena nella storia iniziata con l’infamia delle leggi razziali del 1938 e culminata con la Shoah. Lajos, il papà di Alberto, è un colto ebreo ungherese poliglotta che si trasferisce a Roma per Maria, una giovane donna italiana, cattolicissima, ardimentosa e impavida. Una storia d’amore che è già una sfida al destino nell’Italia degli anni Trenta. Nel giro di pochi anni nascono tre figli: Giorgio, che morirà diciottenne nel 1949 per un tumore, Alberto ed Edoardo. Una famiglia borghese e benestante, quella degli Szegö. Vivono a Forlì. «Tutti e tre siamo stati battezzati con rito cattolico e partecipavamo alle adunate fasciste con la divisa dei ragazzi Balilla», racconta Alberto.
Il cappio delle leggi razziali, intanto, comincia a stringersi sempre di più. Se nel 1938 gli ebrei uniti in matrimonio con una donna italiana, come nel caso di Lajos, non devono abbandonare subito l’Italia, il 30 giugno 1939 la situazione precipita: «A mio padre non fu rinnovato il passaporto italiano e dalla sera alla mattina diventammo apolidi», spiega Alberto, «papà aveva uno studio d’ingegneria a Forlì ben avviato. Gli imposero di chiuderlo e lavorare da casa. Poi gli vietarono anche quello, gli chiusero il conto in banca e per lavorare dovette reinventarsi come rappresentante di attrezzature per dentisti. Si fece un mese di prigione, poi domicilio coatto prima in un albergo, con gli ufficiali tedeschi di guardia, e poi a casa».
I rastrellamenti ormai sono all’ordine del giorno. Il questore di Forlì allerta Lajos, di cui era amico: «Ingegnere, vada via da casa e cerchi di nascondersi». Gli Szegö cambiano cognome e diventano Orlati. S’affidano al vescovo di Forlì, Giuseppe Rolla, che li indirizza a suor Bernadette che si trova all’ospedale di Premilcuore, voluto da Edvige Mancini che era una donna di grande fede e carità e in paese è molto apprezzata per la sua generosità come quando, il 6 gennaio di ogni, il Partito fascista organizzava l’Epifania per i figli degli iscritti e lei estendeva l’invito anche a tutti gli altri.
«Ho ancora negli occhi il volto di suor Bernadette che ci accolse, era una figura luminosa e molto attiva, un incrocio tra Madre Teresa e Margareth Tatcher», dice Alberto. Dopo tre mesi in ospedale, prima dell’estate del 1944, la religiosa è costretta a trovare un altro posto per nascondere la famiglia. L’ospedale è piccolo, i feriti di guerra invece aumentano. «Mio padre smarrito chiese dove potessimo andare», racconta Alberto, «finimmo a Villa Maggio, a casa di Edvige che, all’inizio, non sapeva che fossimo ebrei. Era una donna cortese, gentile, si divertiva a giocare con noi bambini e ci preparava i biscotti».
Al pianterreno della Villa c’è un commando tedesco, voluto forse dal Duce per proteggere la sorella alla quale i partigiani avevano bruciato la casa e minacciato di rapirgli una delle figlie. «La donna», ricorda ancora Alberto, «aveva una guardia del corpo che la seguiva ovunque. Un giorno quest’uomo andò a Forlì e scoprì che la famiglia nascosta era una famiglia di ebrei. Lo disse a Edvige, lei s’irrigidì ma non ci denunciò e continuò a proteggerci fino alla fine di agosto del 1944 quando ci rifugiammo nella canonica di Premilcuore grazie a don Tagliaferri che ci diede ospitalità». Edvige, contattata dal fratello che le ha trovato una camera d’albergo, va a Salò. Ma prima di partire, nottetempo, dice a Maria che se il figlio Giorgio, gravemente ammalato, ha bisogno di cure di andare all’ospedale di Premilcuore. Una storia sorprendente.
«Chissà come l’accoglieranno gli italiani», dice Cristina Petit, autrice del libro insieme ad Alberto. «La generosità straordinaria di Edvige non toglie nulla alla crudeltà di un regime che ha perseguitato e ucciso migliaia di ebrei colpevoli solo di essere ebrei», precisa Alberto, «questo libro non vuole alimentare ossessioni revisioniste ma raccontare una storia che s’intreccia con la Storia di quegli anni. La mia famiglia è stata fortunata, altre no e non ci sono più».
Edvige si spegne a Roma nel 1952 dopo aver visto morire, nello stesso giorno dell’assassinio del fratello, il 28 aprile 1945, anche il figlio Giuseppe e il genero. Nel 1957 esce postumo il memoir Mio fratello Benito che tanto ha fatto discutere gli storici in cui il Duce scrive alla sorella di aver saputo che ha nascosto degli ebrei. Il tono è tranquillo: «Lo so che tu sei fatta così, la generosità è la tua bellezza. Ti voglio bene per questo».