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Quando la Germania sognava di invadere gli Stati Uniti

di Emanuel Pietrobon da InsideOver del 24 settembre 2021

Quella tra Germania e Stati Uniti è una delle storie di amore-odio – più odio che amore in realtà – più intriganti, coinvolgenti e cabalistiche degli ultimi due secoli. Perché l’America, un po’ come la Britannia, la Polonia, il cardinale Richelieu e molti altri, nei confronti di questa piccola ma grande potenza votata per natura e destino all’egemonia ha sempre serbato un timore reverenziale.

La storia, in effetti, ha dato agli uomini dell’Europa, della Città sulla collina e del resto del mondo, più di una ragione per avere paura di questa nazione, che, grande la metà del Texas, possiede la quarta economia più grande del mondo – pari a quelle di Brasile e Italia combinate – e, soprattutto, ha alle spalle un breve ma intenso trascorso di tentativi egemonici unici per dimensioni e ripercussioni globali. Motivi che spiegano perché le grandi potenze, dalla Francia di Richelieu agli Stati Uniti di Henry Truman, non abbiano mai fatto segreto del loro desiderio di frammentare la Germania unitaria in tante piccole Germanie.

Quando si scrive e si parla di Germania e appetiti egemonici, di solito, il focus è sulla corsa anglo-tedesca agli armamenti, sulla spartizione dell’Africa e sulle due guerre mondiali. Dietro alla storia condensata dei libri di scuola, però, c’è (molto) di più: c’è una potenza dal quoziente imperiale che irradia genialità, che in due secoli ha risaltato per l’elevatezza dei propri machiavelli – come il bismarckiano dispaccio di Ems –, la singolarità dei propri metodi – come il Jihād globale guglielmino-ottomano –, la lungimiranza dei propri calcoli – si pensi al piano Schlieffen – e la profondità strategica insita in alcune delle sue gesta più audaci.

L’elenco dei piani follemente geniali concepiti dagli strateghi di Berlino è sterminato e presenta una sezione interamente dedicata ad una regione del globo: le Americhe. Perché il Nuovo Mondo, in particolare gli Stati Uniti, ha sempre esercitato una forte fascinazione sull’immaginario collettivo dei tedeschi, costretti in Europa dalla geografia e traghettati in ogni dove dalla fantasia.

Guglielmo II e l’America

I fatti, alcuni conosciuti, altri semisconosciuti ed altri ancora completamente obliati, sembrano suggerire come, dall’epoca guglielmina a quella nazista, i tedeschi abbiano sognato di possedere un posto al Sole, oltre che in Africa, anche tra le Montagne Rocciose e la Patagonia. Un posto al Sole preferibilmente localizzato nell’America settentrionale, ovverosia negli Stati Uniti.

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La storia di questa ricerca di un posto al Sole nel Nuovo mondo ha inizio durante l’epoca guglielmina, cioè con la fine dell’equilibrio e della realpolitik e con l’alba della rivalità anglo-tedesca e della weltpolitik. Bismarck, invero, che parlava inglese e nel dopo-guerra di secessione aveva proposto (senza successo) un’alleanza agli Stati Uniti in funzione contenitiva della Francia, non era mai stato guidato da sentimenti antiamericani.

Guglielmo II e il suo fido Bernhard von Bülow, però, avevano una weltanschauung radicalmente differente da quella dell’unificatore della Germania. Loro non volevano che il Reich adattasse le proprie politiche alla realtà (realpolitik), volevano che il mondo accettasse l’inevitabilità di un nuovo corso storico (neue kurs) avente al centro Berlino. Una Berlino la cui agenda estera, coerentemente con l’imperativo di plasmare l’umanità, avrebbe investito l’intero globo (weltpolitik).

Ed è in questo contesto di riorientamento della bussola dall’Europa al mondo che si piantano i semi dell’antiamericanismo nelle accademie militari e nelle scuole diplomatiche tedesche. Guglielmo II, a differenza di Bismarck, non vedeva nell’America una potenziale amica della Germania – perché influenzata dal sangue e dal pensiero dei britannici, indi votata all’imperialismo e al soggiogamento delle tellurocrazie del Vecchio Continente – e gli sviluppi tardo-ottocenteschi, dal Grande Riavvicinamento (Great Rapprochement) alla corsa al Pacifico, lo avrebbero convinto ulteriormente di ciò.

I tre piani degli uomini del Kaiser

Convinto che, prima o poi, gli Stati Uniti avrebbero profittato del declino del Sistema europeo degli Stati per sottomettere l’Eurasia in combutta con i loro cugini, cioè l’impero britannico, fra il 1897 e il 1903 il Kaiser revisionista avrebbe ordinato ai propri strateghi di formulare una serie di piani per l’invasione. Piani ultrasegreti, di cui il mondo è venuto a conoscenza gradualmente, e che erano stati concepiti al duplice scopo di limitare la presenza a stelle e strisce nel Pacifico e fare breccia nel cortile di casa degli Stati Uniti, ossia l’America Latina.

Il primo piano, firmato dal tenente Eberhard von Mantey e formulato tra il 1897 e il 1898, prevedeva una serie di attacchi a sorpresa nella regione geostrategica di Hampton Roads (Virginia), il porto le cui acque non gelano mai e da dove (ancora oggi) salpa la maggior parte delle navi militari dirette verso Atlantico, Mediterraneo e Indo-Pacifico.

Paralizzare il centro operativo della Flotta statunitense, secondo von Mantey, avrebbe permesso ai tedeschi di stabilire nottetempo e in totale sicurezza una base nei Caraibi. Base la cui realizzazione sarebbe stata possibilitata dalla cattura di Hampton Roads e da un simultaneo blocco navale davanti alle coste nordamericane. E base che, nell’ottica dello stratega, irradiando potere e influenza in America centrale, avrebbe consentito ai tedeschi di rompere quel senso di inviolabilità regalato dalla geografia agli Stati Uniti, coartandoli a ripiegare dal mondo al loro continente.

Il secondo piano, disegnato dal tenente Hubert von Rebeur-Paschwitz all’indomani della guerra ispano-americana per Cuba, può essere ritenuto un’evoluzione naturale del primo. Non la Virginia, ma le aree di New York e Boston avrebbero dovuto essere attaccate, o meglio indebolite a livelli critici a mezzo di una durissima invasione-lampo, perché rappresentanti i due polmoni dell’America.

Ridotte ad uno stato preindustriale e private delle loro infrastrutture-chiave attraverso una “demolizione militare controllata”, le due metropoli si sarebbero trasformate in un macigno economicida e Berlino avrebbe potuto approfittare della crisi provocata per rallentare la corsa mondiale di Washington. Guglielmo II credeva a tal punto nel piano di von Rebeur-Paschwitz che nel 1901 lo avrebbe inviato nella costa orientale per esperire attività di ricognizione e spionaggio.

Dalla missione in America di von Rebeur-Paschwitz avrebbe preso forma il terzo ed ultimo piano per un’ipotetica invasione degli Stati Uniti. Rivisitato dall’ufficiale navale Wilhelm von Büchsel, l’Operationsplan III prefigurava lo stabilimento di un avamposto fortificato a Porto Rico, progettato per lanciare, in caso di guerra con gli Stati Uniti, un attacco contro il canale di Panama.

L’eredità del Kaiser

Il Kaiser avrebbe riposto i sogni antiamericani nel cassetto nella seconda metà del primo decennio del Novecento, perché costretto dall’aggravamento della situazione in Europa e della competizione imperialistica, per poi tirarli fuori nuovamente allo scoppio della Grande guerra. Durante il conflitto, invero, l’impero tedesco avrebbe tentato per ben tre volte di portare l’insicurezza in casa dell’America: la prima utilizzando la carta messicana (telegramma Zimmermann), la seconda attraverso il Canada (il fallito attentato al ponte ferroviario Saint Croix–Vanceboro) e la terza con gli U-boot (battaglia dell’Atlantico).

Il ruolo centrale giocato dagli Stati Uniti nel determinare l’esito della guerra non sarebbe stato dimenticato dall’ala più nostalgica e revanscista del nazionalismo tedesco. Con l’ascesa di Adolf Hitler al cancellierato, invero, gli strateghi del Reich rinato avrebbero recuperato il pensiero di von Mantey sul cuore della Terra nordamericano e sull’importanza delle azioni di disturbo nel monroano “cortile di casa”.

A differenza del Kaiser, che il via libera all’espansione nelle Americhe non lo dette mai, il Führer avrebbe tentato l’azzardo più volte – rompendo un tabù in piedi dal 1867, anno dell’esecuzione di Massimiliano I del Messico e della fine della breve avventura latinoamericana di Napoleone III – e, in alcuni casi, toccando con mano il successo, seppure per un momento fugace. Come quando, fra il 1938 e il 1939, i servizi segreti tedeschi tentarono due colpi di Stato in Cile: la Toma del Seguro Obrero e l’Ariostazo.

Vinti, i nazisti avrebbero cercato di penetrare nelle Americhe per l’intero corso della seconda guerra mondiale, come ricordano le operazioni spionistiche Bolìvar e Pastorious, il tentato attacco al canale di Panama pensato nell’ambito del Progetto 14 e, ultimo ma non meno importante, la formulazione dell’apocalittica campagna di bombardamento della East Coast nota come Amerikabomber.

Da allora ad oggi sono cambiate molte cose. La Germania, ad esempio, che nel secondo dopoguerra è stata accortamente castrata, non brama più di muovere guerre a chicchessia nel nome di un messianismo in salsa tedesca. Una cosa, però, è rimasta immutata, nonostante la storia abbia seppellito sotto una coltre di sangue e ignominia le epoche guglielmina e nazista. Quella cosa è la natura complicata delle relazioni tra Washington e Berlino, che, oggi come ieri, continuano ad amarsi-odiarsi e a guerreggiarsi, sebbene in altri luoghi, con altri mezzi e per altre finalità.

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