Dagospia pizzica Francesco Giubilei: in un tweet il neo-consigliere del ministro della Cultura biasima il sindaco di Roma Roberto Gualtieri per la sua pervicace ostinazione a non voler intitolare una strada a Giorgio Almirante. In chiusa, polemicamente, Giubilei chiede: «quando eliminiamo via Tito»?
Via Tito a Roma c’è, ma è quella dedicata all’Imperatore romano. Scivolone o lapsus? Nella fretta da social, per citare un dittatore comunista, verosimilmente Giubilei non avrà pensato a quell’omonimia. In Italia tuttavia di strade dedicate ai tiranni rossi – Lenin, Stalin, Mao e Tito – e ai loro volenterosi sostenitori – come Togliatti – ne esistono alquante. E dunque, il lapsus è veniale, nel momento che uno dei più importanti assi viari della città amministrata da Gualtieri è tutt’ora dedicato al segretario del PCI che fu fra i più solerti e proattivi esecutori degli ordini di Stalin. Ma l’errore di Giubilei non è stato quello di non aver imparato a memoria il «Tuttocittà» prima di fare il suo tweet, bensì proprio l’impostazione strategica. Alla cancel culture di sinistra opporre una cancel culture di destra uguale e contraria.
Se la strategia è «proponiamo di cancellare Tito, la sinistra per salvarlo accetterà Almirante» si tratta di una battaglia perduta in partenza. La sinistra liberal, arcobaleno e woke è più che disposta a fare strame di tutto il proprio passato pur di cancellare anche quello caro ai propri avversari politici. Anzi, per dirla tutta, è esattamente il passato a essere il nemico contro cui la sinistra woke combatte. Quale che sia la parte politica che lo guarda con una certa simpatia oggi. Un meccanismo perverso, che vediamo all’opera oggi in America, dove l’isteria woke è arrivata a far rimuovere perfino Abramo Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù.
Se la strategia è «proponiamo di cancellare Tito, la sinistra per salvarlo accetterà Almirante» si tratta di una battaglia perduta in partenza.
Personaggi da sempre nel pantheon della sinistra mondiale – a vario titolo – come Marx o Gandhi – vengono contestati in ogni angolo del mondo dove l’ideologia woke estende i propri pseudopodi e infetta le menti dei giovani trasformandoli in attivisti social justice warriors.
Guerra a chi fa guerra alla nostra cultura. Ma come?
Contro questa sinistra nichilista, iconoclasta e isterica non c’è una strategia razionale. Il suo obbiettivo non è altro che cancellare la cultura. Certo, a cominciare da quella tradizionale, nazionale, religiosa, popolare, familiare. Ma non si fermerà a quello, e già la vediamo in azione contro ciò che fino a pochi anni fa era stampato sulle proprie T-shirt. La filosofia decostruzionista, alla base dell’ideologia woke, vuole annientare ogni legame dell’individuo: non passeranno molti anni e perfino Che Guevara o i partigiani verranno contestati perché esempi di «patriarcato», eroismo machista oppure omofobia. Aizzare la sinistra contro di essi evidenziandone gli aspetti controversi come diversivo è dunque fallimentare: i social justice warrior bramano spargere il napalm su ogni brandello di passato, indiscriminatamente.
L’arroganza della risposta di Gualtieri alla giusta proposta di dedicare a uno dei principali protagonisti della Prima Repubblica una strada si accompagna con un altro gesto di profonda tracotanza: la proposta di fare cancel culture della toponomastica romana dedicata al nostro passato coloniale. Un’operazione, si badi bene (e si prenda esempio), che è stata l’immediata reazione della sinistra liberal alla vittoria del centrodestra alle elezioni politiche. In altre parole, abbiamo perduto questa battaglia nelle urne, ma fin dal giorno dopo metteremo le basi culturali per una rivincita. Naturalmente il prendere esempio deve finire qua, perché la strategia della sinistra liberal è quanto di più tossico si possa immaginare: avvelenare pozzi, corrompere le menti, plagiare il popolo e offrire agli elettori un nuovo bersaglio d’opportunità contro cui scatenare rabbia e livore. D’altronde, ogni tirannide del passato quando doveva giustificare un’annata di carestia, una sconfitta in guerra o uno scandalo di corte non trovava miglior strumento che aizzare il popolo con un bel pogrom. Nell’Ottocento a farne le spese erano gli ebrei dell’Europa orientale, nel XXI secolo sono le statue dei sudisti o la toponomastica «colonialista».
Che fare, dunque? Qual è la contro-strategia da opporre a iconoclasti e decostruzionisti? Semplicemente, spezzare gli artigli della cancel culture. Molte sono le strategie, tanto di contrattacco quanto di attacco. Aumentare le pene per chi fa vandalismo a scopo politico – come recentemente proposto – è un primo passo. Ma non è sufficiente: il vandalismo istituzionalizzato di chi vuol fare strame della toponomastica (rectius “odonomastica”) di una città nel nome del politicamente corretto non è sul codice penale. Occorre dunque togliere dalla disponibilità delle amministrazioni comunali la toponomastica storica. In altre parole, se non vuoi dedicare una strada a qualcuno per odio politico, ti verrà comunque impedito di cancellare quelle che già esistono e che costituiscono da almeno mezzo secolo un patrimonio storico consolidato della comunità che amministri. Caro sindaco, puoi pulire le strade dalla monnezza, ma non toccare le targhe odonomastiche del tuo centro storico.
Occorre togliere dalla disponibilità delle amministrazioni comunali la toponomastica storica
I conservatori davanti alla cancel culture
Il corollario di questa strategia è che il fronte conservatore in Italia deve abbandonare un’idea con cui si è baloccato per troppi decenni: quella di cancellare le intitolazioni ai mostri sacri del Comunismo. Ebbene sì, per molti sarà doloroso, ma occorre fare i conti con la realtà: meglio tenerci via Tito (a Reggio Emilia) che lasciare nelle mani delle amministrazioni locali la possibilità di cancellare a decine, a centinaia le strade dedicate al nostro passato. Che per la sinistra woke è tutto, indiscriminatamente «fascista» e quindi meritevole di cancel culture. Inizieranno, come era largamente prevedibile (e come abbiamo invano denunciato), dal colonialismo per poi passare a qualunque altro capitolo della nostra storia. Uno dopo l’altro. Nessuno escluso. E non si fermeranno fino a che non avranno fatto un deserto culturale arcobaleno.
Josif Broz detto Tito è morto nel 1980. Dodici anni prima che nascesse Giubilei. La cancel culture è invece viva e virulenta. È il Nulla che avanza e divora Fantàsia una regione per volta. La destra, i conservatori in Italia devono scegliere se accanirsi contro un cadavere – per quanto deprecato – o combattere la battaglia qui e ora per il futuro. E no, le due cose al momento non si possono fare insieme.