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“Non è vero ma ci credo”: storia delle foto taroccate nella Storia

Si chiamava Jewgeni Chaldej. Fino al 1950 aveva lavorato per l’agenzia Tass: fu licenziato perché era ebreo. Viveva in miseria alla periferia di Mosca. Me ne occupai sul Corriere della Sera una quindicina d’anni fa. Lui ne aveva già 77, di anni, e di lì a poco, nel 1997, sarebbe passato a miglior vita.

Era stato il fotografo ufficiale dell’Armata rossa. Aveva fissato su pellicola tutta la seconda guerra mondiale dal punto di vista dei sovietici. Ma nessuno sapeva che quelle immagini le aveva scattate Chaldej. Venne a Verona, dove per la prima volta gliele mettevano in mostra col suo nome e cognome. Volle stamparsele da solo nel bagno di casa. Come bacinella usò il bidet. Non si fidava a mettere i negativi nelle mani di nessuno.

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di Stefano Lorenzetto su Il Giornale

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A ragione: la sua foto più famosa, che compare nei libri di storia, gli era stata censurata. L’aveva scattata il 2 maggio 1945 nella Berlino appena liberata dal nazismo: mostra un militare russo che sventola la bandiera con la falce e martello sul tetto del Reichstag ridotto a un tizzone fumante. Al Cremlino qualcuno notò che il soldato indossava un orologio da polso. L’inammissibile lusso borghese fu cancellato con un ritocco in camera oscura.

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Ecco, a voler essere pignoli manca solo il nome di Chaldej – ma non la sua celebre foto – nel libro ‘Non è vero ma ci credo’ (Spirali) di Paolo Pillitteri, in uscita il 20 gennaio.

Per il resto, nelle 400 e passa pagine che mettono a nudo mistificazioni di regime, falsi storici, enigmi, finzioni cinematografiche, effetti speciali, messinscene giornalistiche, ci sono tutti, ma proprio tutti: i bersaglieri di Porta Pia e i marinai della corazzata Potëmkin, Mussolini e Hitler, Stalin e Togliatti, Cabiria e Casablanca, il miliziano di Capa, Guernica, le fosse di Katyn, Iwo Jima, il generale Della Rovere di Montanelli, il bandito Giuliano, Osama Bin Laden, il rapimento Moro, Ustica, le ultime parole di Fabrizio Quattrocchi, lo specchio scuro di Eluana Englaro.

Immagini, ferme o in movimento, messe al servizio dell’ideologia e della propaganda, adoperate come prova o convalida della realtà. La quale spesso si rivela niente più che un’illusione ottica.

Pillitteri parte da molto lontano, dalla Sindone. Fin da bambino, quando per colpa degli orecchioni non poté andare con la nonna ad ammirare il sacro lino nel duomo di Torino, ha sempre creduto che quella sia l’immagine di Gesù: «Nel 1898 l’uomo della Sindone venne fotografato per la prima volta dall’avvocato Secondo Pia, col consenso dell’autorità ecclesiastica e del re Umberto I. Raccontò il Pia: “Provai un’emozione fortissima allorché, durante lo sviluppo, vidi apparire per la prima volta, sulla lastra, il Santo Viso, con tale chiarezza che ne rimasi stordito”.

Si può dunque affermare che il vero mistero della Sindone inizi nel momento stesso in cui la prima foto, positiva e negativa, viene realizzata. In effetti, solo tramite i meccanismi della fotografia, con lo sviluppo e la stampa dell’immagine rimasta impressa sulla lastra, era possibile analizzare a fondo l’impronta di quel corpo.

Una forma umana, impressa ma non disegnata, senza alcun colore di pittura, salvo le macchie di sangue causate dalle ferite sul capo e lungo il corpo. L’immagine di un uomo rimasto non più di 36 ore avvolto nel sindón e che nessun disegno, nessuna mano di pittore poteva aver realizzato per l’assenza, appunto, di qualsiasi traccia di colori e di coloranti».

Che cosa ne conclude?
«Che negli istanti della resurrezione, altro fatto non umanamente spiegabile, si ebbe un’irradiazione improvvisa e abbagliante di luce sul lenzuolo, nel quale è rimasta fissata, impressa, fotografata l’immagine di Cristo. Tant’è vero che oggi la vediamo in negativo. È così semplice. Sono in pochi a crederci. Però Vittorio Messori ci crede. E io pure».

Mentre non crede alla foto della breccia di Porta Pia.
«No, per il semplice motivo che non fu scattata il 20 settembre 1870, quando i bersaglieri entrarono nella Città Eterna mettendo fine al potere temporale del Papa. In realtà solo il 21 settembre, a cose fatte, furono messi in posa sulle macerie i soldati che abbiamo sempre visto immortalati di spalle, con i fucili puntati, nei sussidiari delle elementari».

Artefatta anche la più celebre immagine della Rivoluzione d’Ottobre, epicamente intitolata L’assalto.

«Certo. Dovrebbe documentare la presa del Palazzo d’Inverno, avvenuta verso la mezzanotte del 25 ottobre 1917. È diventata un’icona che primeggia nelle pagine del libro di John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Tanto per cominciare nel 1917 non esistevano macchine fotografiche in grado di riprendere una scena simile in una città priva d’illuminazione. Lo stesso Reed, giornalista statunitense al seguito dei soldati, scrive che “l’oscurità era completa”.

E infatti, se si osservano con attenzione le finestre, si nota che, per farle apparire illuminate, sono state sbianchettate una a una. Un vizietto già allora. La foto è un falso storico. Fu scattata tre anni dopo, in pieno giorno, mobilitando ottomila soldati, attori, carri armati, cannoni. Invece i partecipanti all’assalto al Palazzo d’Inverno erano stati appena 300, più o meno. Ciò nonostante l’attore che impersona Lenin è finito nei libri di storia come se fosse davvero Lenin».

E quando non possono lavorare di bianchetto, i comunisti rimuovono i fatti e persino i film che li rievocano, vedi Katyn di Andrzej Wajda.
«Anche in quel caso si ricorse alla fotografia di un cartello menzognero, piantato dai sovietici sulle fosse dove giacevano le vittime del massacro. Vi si leggeva, in lingua russa: “Qui nella foresta di Katyn, nell’autunno del 1941, furono fucilati dai boia di Hitler undicimila prigionieri di guerra, soldati e ufficiali polacchi. Le truppe dell’Armata rossa li vendicheranno!”. Il grande Giovannino Guareschi, irriso dal Pci, nel 1948 ebbe il coraggio di scrivere: “Domani si vota. Ricòrdati di Katyn”. Fu l’unico, in questo Paese di conformisti».

La macchina propagandistica nazista non era da meno.
«Come testimonia il film girato nel 1944 per contrastare le notizie che circolavano sui campi di concentramento. Ne fu incaricato il noto attore tedesco Kurt Gerron, prigioniero nel lager di Terezin, in Cecoslovacchia. Si vedevano i detenuti che giocavano a pallone, si facevano la doccia, frequentavano la biblioteca, ricevevano pacchi postali. La pellicola fu montata a Berlino e mostrata agli ispettori della Croce rossa internazionale, col titolo Era così bello a Terezin. Il Führer regala una città agli ebrei. Ne sono rimasti solo 25 minuti nella cineteca di Praga».

E Gerron che fine fece?

«Al termine delle riprese, eseguite ovviamente sotto il controllo delle SS, tutti coloro che avevano collaborato al film, scenografi, attori, comparse, compresi un migliaio di bambini, furono trasferiti con 11 convogli ad Auschwitz. Quasi tutti morirono nei forni crematori. Anche Kurt Gerron fu gasato e bruciato. Si salvò solo la sceneggiatura».

La leggenda della foto che Robert Capa scattò al miliziano ferito a morte durante la guerra civile spagnola contiene, come lei annota nel libro, tutti gli ingredienti necessari all’esplorazione della complessità, della vischiosità, dell’inafferrabilità della realtà riprodotta.

«Sì, perché è un’immagine cult, mitologica, che non si dimentica, e infatti entrò persino nella collezione delle figurine del dado Liebig. Quello che pochi sanno, è che il miliziano fu ucciso per sbaglio durante un momento di svago. Capa e la sua compagna Gerda Taro, una fotoreporter tedesca, quel 5 settembre 1936 si trovavano sul Cerro Muriano, di fronte alla città di Cordoba. Dato il clima torrido, di pomeriggio le fazioni in lotta sospendevano le ostilità. Sul finire della siesta, Capa suggerì a un gruppetto di miliziani armati di simulare un assalto, correndo lungo il Cerro e scavalcando due o tre trincee.

“Stavamo tutti facendo gli stupidi”, avrebbe poi confessato ad Hansel Mieth, collega fotografa di Life. Il miliziano Federico Borrell García si offrì all’obiettivo di Capa, ignorando che i franchisti erano già tornati ai posti di combattimento. C’è solo stupidità, in quella morte. Eppure è passata alla storia come eroica».

«Con un omaggio a Luca Comerio, pioniere del cinema», recita il sottotitolo del suo libro. Cioè un omaggio alla settima arte e a Milano, gli unici amori che in lei hanno sopravanzato la passione per la politica.
«Il milanese Comerio, morto nel 1940, è stato l’inventore del cinema in Italia. Non lo conosce nessuno. Nel 1878, appena ventenne, fotografa le barricate della Foppa, l’assalto al convento dei Cappuccini e i cadaveri dei concittadini, quasi un centinaio, caduti sotto i colpi del generale Bava Beccaris.

Va a scuola dal famoso attore Leopoldo Fregoli, l’inventore dei primi effetti speciali, e intuisce che il cinema è un trucco. Si fa sempre trovare nel posto giusto al momento giusto. Filma il terremoto di Messina e Vittorio Emanuele III in crociera. Nel 1911, all’Idroscalo, si fa legare alla pancia dell’aereo di Mario Caldara per riprendere a manovella Milano dall’alto.

Segue tutta la prima guerra mondiale dentro un’auto blindata che aveva una forma identica a quella descritta dal futurista Tommaso Marinetti nel romanzo L’alcova d’acciaio. Fonda la Milano Films. Il cardinal Ferrari, impressionato dal successo di una pellicola muta di Comerio, L’Inferno, tratta dalle pagine dantesche, non esita a commissionargli due film di carattere religioso, Redenta e La vita di San Paolo, nonostante il cineasta fosse famoso per aver sedotto tutte le sue attrici. Quando si stufava, congedava le amanti regalando loro una Bugatti».

Siamo all’industria del consenso. «Il cinema è l’arma più forte». Firmato: Benito Mussolini.
«Il Duce l’aveva intuito per primo, seguito a ruota da Pio XII, che benedisse la sceneggiatura di Quo vadis, con i produttori ebrei in ginocchio a farsi il segno della croce. Ma almeno Mussolini era di manica larga: fece sbloccare Vecchia guardia di Alessandro Blasetti, che era stato giudicato antifascista dalla censura.

Tutt’altra pasta rispetto a Palmiro Togliatti, senza il cui placet Luchino Visconti non si azzardò mai a girare un film. È stato Antonello Trombadori a raccontarmelo: “Mi chiamava Visconti e mi diceva: ho pronta la sceneggiatura di Senso, ho pronta la sceneggiatura di Rocco e i suoi fratelli…”. Trombadori si preoccupava solo di una cosa: “Ahò, chedd’è? Sarà mica ‘na robba lunga da leggere?”.

Dopodiché portava il manoscritto a Togliatti, il quale s’informava: “È un soggetto gramsciano?”. Alla risposta affermativa di Trombadori, cominciavano le riprese. Antonello mi confessò d’aver avuto un’unica perplessità sull’interminabile ballo nel Gattopardo, 60 giorni di set, rose fresche da Sanremo ogni mattina, roba che la Titanus stava per fallire.

Ma il Migliore gli obiettò: “Scena essenziale per dimostrare la decadenza della borghesia”. Chiamala decadenza! Cinque-sei famiglie hanno ancora in mano l’Italia. Come diceva Bettino Craxi, non ne hanno mai azzeccata una, ‘sti comunisti». Per suo cognato, durante Mani pulite, sui giornali divenne più vero del vero il fatto che si fosse fregato la fontana di piazza Castello a Milano. Ovviamente era falso.

«Fu fatta smontare da Giulio Polotti, mi par di ricordare, assessore ai Lavori pubblici quando io stavo al Bilancio. Tanti blocchi numerati, portati in un deposito comunale, per consentire la realizzazione della linea 1 della metropolitana. La turta di spus, veniva chiamata, la torta degli sposi. Scrissero che Bettino se l’era portata ad Hammamet. Figurarsi, non sarebbe nemmeno passata dalla porta. E infatti oggi è ancora al suo posto».

Che cosa resta di vero nell’epoca delle immagini taroccate con Photoshop e dei palazzi veneziani fatti crollare in 007 Casinò Royale con l’elaborazione computerizzata 3D?
«Gli effetti speciali distruggeranno il cinema. Tolgono il pathos, trasformano i film in fumetti. Prenda la rappresentazione della battaglia delle Termopili in 300 di Zack Snyder, quando i persiani dicono: “Le nostre frecce oscureranno il sole!” e gli spartani rispondono: “Allora combatteremo all’ombra!”.

Sembra una barzelletta. Gli spettatori ridono a crepapelle, non immaginano che quella invece è l’esatta traduzione di una frase storica, “In umbra igitur pugnabimus!”, tramandata da Erodoto e riportata da Cicerone nel primo libro delle Tusculanae disputationes».

A chi tocca proteggere la verità dalle manipolazioni?
«A noi. Dobbiamo sapere che la fiction non è la realtà: è la riproduzione della realtà. Dobbiamo immunizzarci. Ci sono pubblicità demenziali dove la gente si butta dalla finestra e rimbalza sull’asfalto. Ma i bambini che cosa capiranno? Ai miei tempi si meditava su queste cose. Oggi tutto è possibile, i minori crescono nella barbarie, scambiano la vita per la playstation. Chi ha la responsabilità dei mezzi informativi, soprattutto la televisione, deve riflettere, se non vogliamo condannarci a un’eterna Vermicino».

Quid est veritas? Lei l’ha capito?
«Aaah… Secondo i miei preti salesiani, alla cui scuola mi sono formato, la verità è soltanto in Cristo. Però io gli obiettavo che non bastava. Certo è qualcosa che attiene alla fede. Se non fossi credente, avrei meno verità. Il periodo più brutto della mia vita è stato quando non credevo più in niente. Lì mi sono accorto che cosa significhi l’assenza di cose vere. Quando mi è tornata la fede, ho ricostruito un rapporto serio con la realtà. Ero anche malato, e non mi sono più serviti i medici».

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Inserito su www.storiainrete.com il 30 dicembre 2009

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