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Massacri titini: nessuno ricorda il massacro di Prozor nel 1943, la “Cefalonia dei Balcani”

Prozor è il crimine di guerra più efferato di cui furono vittime militari italiani prima dell’armistizio dell’Otto settembre; soldati semplici, ufficiali, feriti e mutilati, disamati, arresisi dopo aver fatto il proprio dovere, assassinati dai partigiani comunisti sino all’ultimo uomo, senza pietà alcuna né rispetto per le consuetudini di guerra e le leggi internazionali, di cui il Regno di Jugoslavia era firmatario.

La  154ª Divisione di fanteria di occupazione Murge era stata costituita il 1º dicembre 1941; inquadrata nel VI Corpo d’Armata del Regio Esercito italiano comprendeva il 259º e il 260º Reggimento fanteria Murge ed il 154º Reggimento artiglieria Murge. Dal 5 aprile 1942 il reparto venne destinato all’occupazione dell’Erzegovina,  a presidio di Mostar, Jablanica, Konjic, Cacko e Nevesinje. Costantemente impegnate contro la guerriglia partigiana, nella cosiddetta battaglia della Neretva (come è nota dal nome croato della Narenta) le posizioni del 259° Reggimento Murge furono attaccate da cinque brigate partigiane, la 1a Brigata proletaria d’assalto dalmata, la 10a Brigata proletaria d’assalto dell’Erzegovina, la 2ª Brigata proletaria d’assalto serba e la 5ª Brigata proletaria d’assalto montenegrina che avevano oltrepassato il fiume per sfuggire all’inseguimento dei reparti dell’Asse e dei cetnici.

I partigiani puntarono verso la piccola città di Prozor, occupata dai fanti del III° Battaglione del 259°, fortificati nel caposaldo, intimando loro la resa, intimazione che venne respinta dagli italiani. I comunisti erano diverse migliaia, organizzati in cinque Brigate proletarie d’assalto, gli italiani meno di ottocento. I partigiani puntarono verso la piccola città di Prozor, occupata dai fanti del III° Battaglione del 259° Murge,  fortificati nel caposaldo, intimando loro la resa, intimazione che venne respinta dagli italiani.

Il primo attacco su Prozor nella notte tra il 15 ed il 16 febbraio 1943 fu respinto dagli italiani, che si batterono con la forza della disperazione, ma non il secondo. Si combatté per tutta la notte tra il 16 ed il 17 febbraio, quando la 5a Brigata d’assalto montenegrina, guidata dal suo comandante Sava Kovačević riuscì a catturare Prozor solamente dopo che gli italiani avevano terminate le munizioni. La città cadde dopo feroce una lotta all’arma bianca ed i partigiani catturarono i superstiti ed i feriti del battaglione di presidio. I prigionieri vennero tutti massacrati: Milovan Gilas ordinò l’esecuzione dell’intero battaglione, come ricordò nelle proprie memorie. “L’intero Terzo battaglione del 259° reggimento venne passato per le armi” (M. Gilas,  La guerra rivoluzionaria jugoslava. 1941-1945. Ricordi e riflessioni, tr. it. Gorizia 2011, p. 276-277): i prigionieri massacrati a Prozor furono settecentoquaranta, semplicemente perché il primo giorno dell’attacco i soldati avevano rifiutato di arrendersi.

Milovan Gilas (1911 – 1995), responsabile del massacro di soldati italiani a Prozor nel febbraio 1943

Gli ufficiali vennero portati a Jablanica e massacrati; la strage degli ufficiali a Jablanica fu resa  possibile dalla delazione di un ufficiale triestino antifascista passato ai titini, il capitano Riccardo Illeni (come ricordato da Gino Bambara  ne  La guerra di liberazione nazionale jugoslava (1941-1943) edito da Mursia nel 1988) che consegnò la lista con i nomi di tutti gli ufficiali ai partigiani. Nel film di propaganda jugoslavo La battaglia della Neretva (Bitka na Neretvi, 1969) il personaggio ispirato all’Illeni è interpretato da Franco Nero, e presentato come un fulgido idealista…

Il comandante del III Battaglione, il colonnello Molteni venne ucciso nella piazza di Jablanica, con un colpo di pistola alla nuca dal capo della formazione, Sava Kovačević.

Il colonnello Enrico Molteni, comandante del III Battaglione Murge, assassinato dai partigiani titini a Jablanica nell’aprile 1943 insieme a tutti i suoi uomini: 740 soldati italiani.

I partigiani non riuscirono dapprima a rintracciare un tenente della sussistenza, dunque non appartenente ad un reparto combattente, il cui nome risultava nel ruolino del presidio consegnato dal capitano Illeni ai guerriglieri: pertanto annunciarono che avrebbero fucilato al suo posto venti soldati. L’ufficiale a questo punto si consegnò, venendo fucilato dai partigiani insieme ai venti fanti.

Scrisse il generale d’Armata Mario Roatta, comandante della 2a Armata in una sua relazione ufficiale a Roma:“… Sulla piazza di Jablanica (Erzegovina) una delle formazioni partigiane ha fucilato 21 [sic per 31] ufficiali della divisione Murge catturati poco prima in combattimento. Il colonnello Molteni è stato ucciso, in detta piazza, con un colpo di pistola dal capo della formazione. E poiché non si trovava un ufficiale della sussistenza, che risultava dalla lista del presidio caduta in mano ai partigiani, questi annunciarono che avrebbero fucilato al suo posto 20 soldati. L’ufficiale che si era nascosto, avendolo saputo, si presentò senz’altro, ma malgrado questo suo esemplare contegno, venne anch’esso fucilato. Le salme del colonnello Molteni e di altri ufficiali furono recuperate dopo la rioccupazione di Jablanica dal cappellano del 259° Fanteria, padre Giuseppe de Canelli, che le rinvenne; quella del colonnello Molteni squartata, sepolta in una fossa comune con alcuni soldati e i quadrupedi morti del presidio”

Tornando all’eccidio di Prozor, anche se una parte della storiografia ha recentemente affermato  una differenza di trattamento cui sarebbero stati destinati i soldati dell’esercito e le camicie nere catturate, è necessario specificare che essa non rappresentò assolutamente la regola. Episodi di un comportamento benevolo nei confronti dei soldati italiani devono piuttosto riferirsi ai casi di diserzione da parte di singoli elementi.

Parliamo di  numeri: 771 vittime il doppio rispetto ai 335 morti delle Fosse Ardeatine, di più dei 560 di Sant’Anna di Stazzema, quasi l’identica cifra dei 770 morti – uno in meno- di Marzabotto: i responsabili tedeschi furono perseguiti, condannati, incarcerati: quelli jugoslavi no. Su questa Cefalonia balcanica nessuno in Italia ha scritto, dedicato saggi e memoriali, nessun magistrato ha mai aperto inchieste, anche per i taciti accordi post bellici tra Tito e la repubblica italiana. Il fatto è che una certa storiografia continua a berciare dei veri o presunti crimini di guerra italiani in Balcania, del decontestualizzato “Si ammazza troppo poco” del gen. Robotti o della Circolare 3C di Roatta, ma mai accenna a una tale mattanza, ingiustificabile da ogni punto di vista: questo porta a riflettere come le reazioni italiane (e dell’Asse) in Balcania vadano storicizzate, inserite in tali contesti; se furono qualche volta criminali, spesso eccessive, furono però nella massima parte dei casi perfettamente legittime secondo leggi e convenzioni dell’epoca. Si pensi che la più pesante rappresaglia italiana in Jugoslavia, quella di Podhun (Piedicolle, provincia del Carnaro) del 12 luglio 1942 causò 91 morti (rappresaglia effettuata per l’assassinio dei due maestri elementari italiani del paese e di 16 militari seviziati ed uccisi: data l’entità delle vittime, si preferì dimezzare la consueta ratio di 10 a 1, portandola a 5 a 1).

Per la cronaca, a Prozor, una volta riconquistata la località, gli italiani non eseguirono alcuna rappresaglia, sia perché la strage era stata opera delle bande titine in fuga dall’offensiva italo- tedesca, e quindi le popolazioni locali non erano da ritenere coinvolte: sia perché applicare la proporzione di 10 a 1 avrebbe voluto dire ammazzare 7710 persone…per altri , alleati o nemici, non sarebbe stato un problema, per il nemico fascista italiano (come i titini chiamavano gli italiani) evidentemente sì.


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